Ma bisogna per forza essere dei “vincenti”?

Ma bisogna per forza essere dei “vincenti”?

di Francesco Pisani

NELL’EPOCA DELL’EDONISMO UNIVERSALE TROVIAMO SEMPRE PIÙ INDIVIDUI CHE ASPIRANO A DIVENIRE DEI NOVELLI ROCKFELLER

“Ho imparato a essere contento dello stato in cui mi trovo”, scrive San Paolo (Ai Filippesi, IV, II). “So essere sobrio e so essere nell’abbondanza e soffrire l’indigenza. Tutto posso in Colui che mi dà la forza”.

Nell’epoca dell’edonismo universale troviamo sempre più individui che aspirano a divenire dei novelli Rockfeller, a competere con gli altri, a primeggiare, a manifestare la propria presunta superiorità, a volersi considerare dei “vincenti”.

Non c’è bisogno di aggiungere che questo atteggiamento, che ha prodotto una generazione di superbi, arrivisti, mentecatti, portaborse e leccapiedi, è tra le cause principali del malessere sociale, dell’invidia, ma soprattutto dell’insicurezza psicologica, che è sempre più diffusa, specie tra i più giovani.

La discrezione, l’umiltà, l’eleganza, il minimizzare i propri meriti, sembrano qualità ormai scomparse, estinte, dal momento che per essere considerati dei “vincenti” bisogna vendersi, mentire, passare sopra gli altri, verso la corsa inarrestabile al fantomatico successo.

Ovviamente è giusto e lecito tentare di esporre i propri pregi allo scopo di fornire un contributo alla società, ma ciò non può avvenire a scapito degli altri: il proprio valore non si costruisce demolendo il prossimo. Oggi, invece, avviene che il successo, che è sempre personale ed egoistico e che quindi non produce reale ricchezza per la società, si stabilisce a scapito del vicino.

Si viene sempre più a generare, di conseguenza, una società dove gli individui non sono più pronti a collaborare gli uni con gli altri, ad aiutarsi e a sostenersi, ma ad annullarsi a vicenda nel gioco perverso del “mors tua, vita mea”.

Questa mania alla rincorsa, all’ansia, all’agitazione perenne, che ricordiamo ha delle ripercussioni sociali, psicologiche e ambientali disastrose, è il prodotto di una società despiritualizzata, incapace di godere delle cose essenziali della vita, e dove si ritiene possibile trovare la felicità nella prigione del proprio egoismo, nella momentanea acclamazione, nell’ebbrezza apparente del successo sociale. Eppure forse mai come oggi risuonano così attuali e pregnanti le parole evangeliche che ci ricordano:

“Che gioverebbe a un uomo guadagnare tutto il mondo, se perdesse l’anima sua?” (Matteo, XVI, 26). A chi legge lasciamo esprimere l’ardua sentenza.

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