Ricordando il delitto Matteotti

di Francesco Bellanti 

UN POLITICO MODERNO UCCISO DA MUSSOLINI E DAI SUOI COMPAGNI

Che cosa possiamo ricavare da tutte queste celebrazioni e mostre per il centenario della morte di Giacomo Matteotti, dai tantissimi libri che si stanno dedicando a lui? Abbiamo la sensazione che si voglia far vedere di Matteotti solo il mito dell’antifascista, che lo si voglia strumentalizzare contro l’attuale governo di destra,  postfascista secondo molti, e sono in tanti a volerlo fare, mentre Matteotti era anche, forse soprattutto, altro. Era un grande politico, un politico controcorrente, era l’astro nascente del socialismo italiano, protagonista di battaglie attivissime e scomode per molti. Furono scomode per il Duce del fascismo ma anche per i giovani capi del comunismo italiano, Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, che di Matteotti furono nemici giurati. Erano battaglie scomode, certo, per i vecchi notabili dello Stato liberale, ma anche per intellettuali del calibro di Benedetto Croce, che fu contestato in Parlamento da Matteotti. Le battaglie del Segretario del Partito socialista unitario sono state quasi tutte oscurate in questi cento anni, e ora vengono esposte assieme, in un modo talmente chiaro e inatteso, da risultare “politicamente scorretto”. 

Le battaglie di Matteotti erano scomode anzitutto per Mussolini, perché per il Duce del fascismo gli avversari più pericolosi non erano i comunisti o i socialisti massimalisti, o altri partiti ormai emarginati, ma uomini come Matteotti con il suo antifascismo legalitario, che, partendo da studi giuridici liberali (Matteotti era avvocato), era convinto che l’abuso della libertà personale fosse un limite invalicabile. Ma esattamente il culto della libertà, che rende Matteotti odioso per i fascisti, è la stessa ragione per la quale i comunisti lo considerano un personaggio da dileggiare, con espressioni che dopo la sua morte diventano oscene. E proprio il socialista Matteotti, nella difesa delle libertà borghesi, si dimostra più coerente e coraggioso degli arrendevoli e miopi notabili liberali, da Giolitti in giù, che capiscono Mussolini solo a cose fatte.

Matteotti vittima e mito

Non bisogna tralasciare i fatti e neppure tanti dettagli – grandi e piccoli – che hanno finito per essere trascurati in questi anni. Bisogna, sì, raccontare la costruzione di un mito, quello dell’anti-Mussolini, ma non oscurare quello del leader riformista, del grande politico. Perché Matteotti non fu solo una vittima, fu anche un grande politico, nel contesto di un formidabile tempo che vide nascere dal socialismo politici della statura di Mussolini, Turati, Gramsci, Togliatti, Nenni, Pertini, e tanti altri. 

Lo odiarono e lo dileggiarono, dicevamo, intellettuali del calibro di Benedetto Croce e comunisti come Togliatti e Gramsci. Togliatti lo definiva “socialtraditore”, quello stesso Togliatti che poi – ritornando alle idee di Matteotti – elaborò negli anni Cinquanta la teoria della “via italiana al socialismo”, cioè la realizzazione del progetto comunista attraverso la democrazia, ripudiando l’uso della violenza e applicando la Costituzione italiana in ogni sua parte, come intendeva fare Matteotti, e Gramsci – che mai lo citò nei suoi “Quaderni dal carcere” – dopo la sua morte ne scrisse come “cavaliere del nulla, combattente sfortunato ma tenace fino al sacrificio di sé, di un’idea la quale non può condurre ad altro che ad un inutile circolo vizioso di lotte e di sacrifici senza via d’uscita”. 

Impressionante fu pure la collezione di invettive scagliate verso i socialisti riformisti dai comunisti e dai liberali. Fra questi ultimi fu Croce, che, anche dopo il barbaro assassinio di Matteotti, non comprese il carattere distruttivo del fascismo e ne appoggiò il governo. Per lui i fascisti erano un movimento passeggero che stava dando solo una “una pioggia di pugni utilmente e opportunamente somministrata”. Che sarebbe durata solo un attimo per mettere sull’attenti i democratici, che egli non amava a causa delle loro pericolose prediche sull’uguaglianza, sulla libertà e sulla fraternità. Insomma, odiosi erano i rossi, i democratici, non il partito armato delle camicie nere. Per i vecchi liberali era necessaria una pulizia ideologica che liberasse il tessuto molle della nazione dalla “mala gramigna” del socialismo e dalle “forme insulse” della democrazia. In Croce era il timore dell’avanzata delle masse e dei conflitti sociali. Insomma, il fascismo per il conservatore Croce, era “una pratica politica restauratrice di una legalità violata”, che magari sarebbe durata poco. Egli vedeva in Mussolini una forza capace di rivitalizzare la nazione.

Piero Gobetti, il battagliero e giovane giornalista ed editore torinese, altra vittima del fascismo, poche settimane dopo il ritrovamento del corpo di Matteotti, scrisse un ricordo, destinato ad aver fortuna ma ricco di affermazioni poco ponderate. È Gobetti che ha contribuito al racconto del Matteotti uomo solo, altero e disdegnoso; alla leggenda del socialista “buono” contrapposto ai suoi compagni “opportunisti”; al mito dell’eroe che era andato incontro alla morte in modo consapevole. Gobetti sostiene persino che Matteotti “non fu mai popolare”. Idea stravagante e bizzarra quella di definire impopolare un uomo che aveva partecipato a tante elezioni, locali e nazionali, vincendole tutte, raccogliendo decine di migliaia di voti, risultando anche il primo degli eletti in Parlamento senza neanche fare campagna elettorale, eletto deputato nel 2019, nel 2021, nel 2024. Vero è che Matteotti non ostentava presunzioni filosofiche e teoriche, era un politico pratico, e anche per questo lo definì “l’italiano ideale”. Gobetti, comunque, non comprese nella sua interezza l’uomo nuovo Matteotti, come non comprese il socialismo moderno di Filippo Turati.

In questo modo nasce il mito di Matteotti come unico antifascista che aveva capito il pericolo di Mussolini, ma questo è un errore di valutazione, perché, se si afferma che lo aveva capito solo lui, assolviamo tutti gli altri. Invece, anche altri lo avevano capito, ma furono o vigliacchi o politicamente scadenti e mancanti di una strategia politica efficace. Matteotti fu un grande politico perché capì e lottò il fascismo, egli non fu solo una vittima. Egli è stato, per tutti gli antifascisti italiani, il simbolo della libertà, del dovere, è stato l’apostolo del socialismo italiano, lottò contro la dittatura, l’oppressione e la violenza, ma per un secolo si sono ricordati di lui solo i socialisti, nonostante che tutte le vie e le piazze italiane fossero intitolate a lui. Nato a Fratta Polesine, in provincia di Rovigo, il 22 maggio 1885 da un’agiata famiglia di proprietari terrieri, assunse subito la causa dei lavoratori agricoli del Polesine. Era un socialista moderno, che viaggiò molto all’estero – lui avvocato – per studiare le varie legislazioni e le lingue, e anche per questo stimato da grandi cattolici come don Luigi Sturzo. Accumulò così una solida cultura giuridica e profonda conoscenza dei problemi economici, politici e sociali dei vari paesi visitati. 

Nell’ottobre del 1922, cacciato con Filippo Turati dai massimalisti del Partito Socialista, fonda il Partito socialista unitario, e ne diventa Segretario, ormai pupillo del vecchio indiscusso patriarca del socialismo italiano, che intendeva lottare per i diritti dei lavoratori all’interno delle istituzioni democratiche, rifiutando l’utopia della rivoluzione mondiale comunista, a causa della quale aveva subito la scissione di Livorno del gennaio 1921, quando Gramsci e altri massimalisti fondarono il Partito comunista italiano. Matteotti voleva combattere il fascismo con un partito socialista unitario che stringesse alleanze con le correnti democratiche della società e collaborando anche con quelle forze borghesi disponibili ad accogliere le rivendicazioni del movimento operaio in modo civile e nell’interesse della nazione. Stimato anche dai cattolici e da grandi meridionalisti e poi esuli antifascisti come Gaetano Salvemini, Francesco Saverio Nitti, il quale  disse poi di lui che “aveva l’anima di un apostolo e la serenità di uno studioso. Io ammiravo il suo fervore di ricerche, la sua instancabile attività. Non avevamo sempre le stesse idee, ma avevamo la stessa fede profonda nella democrazia”.

Un politico intelligente e coraggioso

Matteotti fu il primo a denunciare alla Camera, all’inizio del 1921, il grave pericolo delle squadre d’azione fasciste, che manganellavano e uccidevano i loro avversari e incendiavano le Camere del lavoro, le cooperative, le sedi dei giornali di sinistra. Impegnato nel movimento cooperativo, negli enti locali, nella difesa delle Camere del lavoro, Matteotti rappresentava per la sua giovane età e preparazione una grande speranza per il movimento socialista italiano. Egli era contro gli eccessi degli scioperi e delle rivendicazioni di classe, credeva in un socialismo e in una internazionale socialista che fosse a fianco delle democrazie occidentali – lontano dal comunismo. Proprio per questo il fascismo sente il bisogno di colpire Matteotti, non Turati; non un simbolo ma un capo, il primo capo dell’antifascismo italiano. Matteotti diventa così un incubo per il fascismo e forse pure per i Savoia. Leonardo Sciascia dirà che Matteotti è stato considerato uno degli oppositori più implacabili del fascismo perché parlava non solo in nome del socialismo ma anche di altre forze democratiche, con documenti alla mano e rigore giuridico, in difesa delle libertà democratiche e contro la demolizione dei diritti liberali. Un antifascismo legalitario, il suo, centrato sul primato della legge, che sarà la base sulla quale i padri costituenti, dopo il disastro della Seconda guerra mondiale e la guerra civile, scriveranno la Costituzione repubblicana. Negli anni Venti, quando sarà proposto da Matteotti e Turati, e poi da Sturzo e Amendola, per impedire che il fascismo abbatta le strutture liberali dello Stato borghese, sarà respinto da molti, soprattutto dai comunisti di Gramsci, Bordiga e Togliatti.

Nelle lotte contadine del suo Polesine, dove era visto come un traditore dagli agrari che gli ricordavano le proprietà terriere di famiglia, Matteotti perseguiva obiettivi concreti per la difesa dei salari e il collocamento della manodopera attraverso la gradualità di passi progressivi alternativi contro il rivoluzionarismo inconcludente del sindacalismo isterico. Per questo, spesso si sentiva isolato nello stesso Partito socialista unitario.  Saper gestire la cosa pubblica, questa era la via democratica al socialismo. Contrario alla guerra, convinto della coerente scelta pacifista nel conflitto mondiale, fu contrario anche all’invasione del bacino della Ruhr che impoverì e umiliò il popolo tedesco già stremato dalla sconfitta, intuendo che ciò avrebbe portato al Nazionalsocialismo A causa delle sue idee pacifiste durante la Grande Guerra, fu segregato dall’esercito italiano per tre anni in Sicilia, nonostante che lui avesse chiesto di andare al fronte. La moglie incinta, Velia Titta, la poetessa romana che aveva sposato nel 1916, lo seguì a Messina. Fu una bella storia d’amore da cui nacquero tre figli: Giancarlo, Isabella e Matteo. Favorevole all’equità e alla progressività del prelievo tributario, contro gli sprechi del pubblico denaro a favore di un’imprenditoria parassitaria, contro il protezionismo, convinto anche della necessità dell’indipendenza dai partiti delle organizzazioni sindacali, predicava una amministrazione sempre attenta e rigorosa nei comuni. Rigoroso sui principi, sosteneva che alla violenza non si rispondeva con la violenza e la priorità dei socialisti e del mondo del lavoro era ristabilire lo stato di diritto sequestrato dalla violenza fascista. Matteotti non credeva a una rivoluzione a cui peraltro la sinistra italiana era del tutto impreparata. Egli fu un grande politico, moderno, che credeva nelle istituzioni democratiche allora nascenti. I massimalisti, paralizzati dalla violenza fascista, vivevano tra le nuvole sognando una rivoluzione impossibile. I comunisti guardavano fideisticamente ai bolscevichi russi. Matteotti, con i piedi per terra, credeva nelle istituzioni democratiche e nel gradualismo delle conquiste sociali dei lavoratori. Per questo fu dileggiato da Togliatti e da Gramsci, per questo era il più temuto dal suo ex compagno Mussolini. perché questi si trovò davanti, in Parlamento, un politico intelligente che difficilmente avrebbe emarginato come aveva fatto con gli altri. Aspettava l’occasione propizia. Che venne, subito dopo le elezioni politiche del sei aprile 1924.

Brogli elettorali e Sinclair Oil Company

Nella seduta parlamentare del 30 maggio 1924, Giacomo Matteotti denunciò brogli elettorali, abusi e violenze alle urne, e chiese l’invalidazione del voto che aveva dato il potere ai fascisti. Benito Mussolini subito dopo affidò a un gruppo di squadristi il compito di eliminarlo. Matteotti, dieci giorni dopo, venne rapito e ucciso a Roma nei pressi della sua casa romana, mentre si recava in Parlamento. La tragica storia è nota. Il suo cadavere sarebbe stato ritrovato in un bosco a Riano (Roma) il 16 agosto successivo. Ma ora occorre parlare di un’altra triste faccenda sulla quale non si è fatta abbastanza luce, e che fu forse il motivo principale del suo omicidio in quel momento. Matteotti doveva pronunciare un altro potente discorso il dieci giugno successivo sulle tangenti versate dalla compagnia petrolifera statunitense Sinclair Oil Company a ministri monarchico-fascisti. 

È una storia lunga e complessa, sulla quale si sono scritti tanti libri. Secondo lo storico statunitense Peter Tompkins, il deputato socialista, chiamato dai compagni “Tempesta”, fu assassinato, oltre che per la forte denuncia delle irregolarità e delle violenze compiute dai fascisti nelle elezioni politiche del 1924, anche perché era in possesso di importanti documenti che provavano le tangenti versate dalla compagnia petrolifera statunitense Sinclair Oil Company a ministri monarchici e fascisti, che chiamavano in causa il re e lo stesso Mussolini per mezzo del fratello Arnaldo, e che avrebbe denunciato in un discorso nel giorno in cui fu assassinato, il 10 giugno 1924. Nel 1933, l’assassino Amerigo Dumini, temendo di essere eliminato dal regime, aveva inviato ad alcuni legali degli Stati Uniti d’America una lettera-testamento con l’ordine di renderla pubblica solo nell’eventualità del suo assassinio. In questa lettera, il Dumini ammetteva di avere ricevuto l’ordine di uccidere Matteotti poiché nei vertici del fascismo si temeva che il deputato socialista, nel discorso annunciato per il 10 giugno 1924 in Parlamento, avrebbe denunciato il pagamento di tangenti dalla Sinclair Oil al Governo italiano, in cui – avrebbe dichiarato Dumini – era coinvolto Arnaldo Mussolini, il fratello del Duce. 

Benito Mussolini avrebbe dato l’ordine di assassinare il deputato socialista per impedire che egli denunciasse alla Camera il grave caso di corruzione esercitato dalla compagnia petrolifera statunitense Sinclair Oil nei confronti dello stesso Mussolini e di alcuni gerarchi fascisti a lui vicini. Il Governo italiano, infatti, poche settimane prima del delitto, aveva concesso alla società petrolifera statunitense, sostenuta economicamente da alcuni dei principali gruppi finanziari di New York, l’esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento per cinquant’anni di tutti i giacimenti petroliferi presenti in Emilia e in Sicilia (RDL n.677 del 4 maggio 1924). Le richieste della compagnia petrolifera per poter effettuare scavi in ulteriori territori della penisola prevedevano condizioni estremamente vantaggiose per la Sinclair stessa, come la durata novantennale delle concessioni e l’esenzione da imposte. In Inghilterra, l’organo di partito del Labour, il Daily Herald, accusò apertamente Arnaldo Mussolini di essere tra i politici destinatari di una tangente di trenta milioni di lire pagata dalla Sinclair Oil per ottenere la concessione. Sulla rivista English Life fu pubblicato postumo un articolo dello stesso Matteotti in cui il deputato affermava di avere la certezza che vi era stata corruzione tra la Sinclair Oil e alcuni esponenti del governo, di cui avrebbe potuto rivelare l’identità. Mussolini decise di cancellare gli accordi con la Sinclair Oil nel novembre del 1924, anche per via delle contrastanti opinioni che emersero nella commissione parlamentare che doveva approvare la convenzione. Quando fu sequestrato, Matteotti aveva con sé una borsa di cui s’impossessò il Dumini. Quando questi fu arrestato, la borsa passò al capo della Polizia, Emilio De Bono, che la conservò per vent’anni, fino a quando, nel gennaio 1944, per evitare la condanna, la consegnò a Mussolini. Nella borsa c’erano documenti compromettenti che riguardavano i rapporti tra Vittorio Emanuele III e la Sinclar Oil. I documenti del dossier Matteotti sarebbero stati custoditi da Mussolini e furono inventariati fra quelli sequestrati dai partigiani a Dongo al momento della cattura il 27 aprile del 1945, documenti che poi misteriosamente andarono perduti. Ma molto altro è stato detto su questa triste storia, anche da parte dei figli di Matteotti, e molto ci sarebbe ancora da dire. Una triste storia italiana, insomma. 

Strumentalizzazione politica

L’omicidio di Matteotti ebbe risonanza mondiale. Ne scrissero fra gli altri George Orwell, Stefan Zweig, Ivo Andric, Marguerite Yourcenar, Miguel de Unamuno. E questo accadeva non per caso, ma perché Matteotti era un italiano e un politico diverso: moderno, cosmopolita, colto, serio, conosciuto e stimato nel Regno Unito, in Belgio, Olanda, Francia, Germania, Austria, dove aveva più volte soggiornato e studiato, collaborando con giornali e riviste. La sua profezia sugli Stati Uniti di Europa fu il modello per il Manifesto di Ventotene del 1941 e per i futuri Trattati europei di Roma del 25 marzo 1957. Questo delitto di Stato segnò il passaggio alla soppressione definitiva di tutte le libertà democratiche con l’avvento del totalitarismo. 

Adesso, tutti quelli che lo hanno dimenticato per un secolo, soprattutto i cosiddetti antifascisti,  si sono ricordati, per fini elettorali e per strumentalizzarlo contro l’attuale governo, in mancanza di altri argomenti, di questo grande politico, strenuo difensore della democrazia e propugnatore di un socialismo riformista dal “volto umano”, secondo la felice definizione di Giuseppe Saragat, quest’uomo generoso che donava il suo stipendio di deputato a un orfanotrofio, questo brillante giurista  e profondo studioso di economia pubblica, stimato da Einaudi, che  rifiutò le offerte di libera docenza universitaria a cui ha dato ragione la storia, perché il fascismo e il comunismo si sono rivelati dei binari morti senza un destino. 

Il regime per anni vessò la famiglia Matteotti con irruzioni poliziesche e minacce, ostacolò la celebrazione dei funerali, minacciò la moglie e i familiari, violò più volte il cimitero e spostò la salma impedendo ai visitatori di onorarlo, gli squadristi con atti ignobili danneggiarono la proprietà e lordarono i luoghi dei ricordi. Oggi, una sinistra senza programmi vuole riesumarlo per vincere le sue battaglie.

Invece di strumentalizzare il suo sacrificio, matteottiani dell’ultima ora, inchiniamoci tutti davanti alla grandezza morale, politica, umana, storica, di Giacomo Matteotti, socialista inflessibile, simbolo di lotta e di resistenza civile per la democrazia e per la libertà contro ogni totalitarismo. 

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