Politiche protezionistiche e ripercussioni
di Filippo Grandolini
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L’ALLARMISMO DELLE CLASSI DIRIGENTI UE È VERAMENTE GIUSTIFICATO?
I dazi sono un primo colpo durissimo al capitalismo finanziario ed ai meccanismi di sfruttamento dei popoli, delle classi lavoratrici e dei ceti medi, determinati dai processi di globalizzazione che abbiamo dovuto subire soprattutto negli ultimi tre decenni.
L’obiettivo non dichiarato di Trump è realisticamente quello ridimensionare drasticamente il potere delle élites finanziarie globaliste che hanno fortemente voluto e sponsorizzato tali processi e che hanno il loro centro di comando nella city londinese (dove guarda caso si sono recentemente riuniti, senza una plausibile ratio istituzionale, gli auto-definitisi paesi “volenterosi” o “r(i)assicuratori”, per tentare di sabotare il processo di pace avviato dalla nuova amministrazione Trump). La strategia macroeconomica è quella di ridare spazio all’economia reale ed alla crescita della ricchezza delle economie nazionali (cominciando da quei settori che egli considera strategici per gli USA e che quindi vanno protetti, anche con una politica basata sui dazi). Colpire il capitalismo finanziario e gli interessi delle élites finanziarie significa prima di tutto affossare le borse ed i valori delle azioni detenute dalle c.d. “Big three” (ovvero i tre più grandi fondi finanziari che controllano praticamente tutte le principali multinazionali) per creare l’effetto di avversione al rischio finanziario e per sgonfiare la bolla mobiliare americana. Uno degli effetti indesiderati di questo processo potrebbe essere una iniziale fiammata inflazionistica di breve periodo, che però servirà anche a dare nuovo stimolo all’economia reale ed alle attività imprenditoriali, favorendo nel medio periodo la crescita dei redditi reali da lavoro dipendente e quindi della domanda interna (vero fine ultimo di queste politiche). Nel contempo, la maggiore avversione al rischio finanziario, favorirà lo spostamento di una parte consistente di capitali dagli investimenti azionari verso i titoli del debito pubblico americano e, in subordine, verso i metalli preziosi. Questo aumento di domanda dei titoli pubblici produrrà una successiva significativa riduzione dei tassi di interesse sul mercato dei capitali.
Quindi, è plausibile ritenere che nel breve periodo, a causa di una prima fiammata inflattiva, i tassi di interesse possano anche aumentare, ma nel medio-lungo periodo la spinta al rialzo dei tassi verrà più che sterilizzata dall’aumento della domanda di titoli pubblici (che tenderà a comprimerne i rendimenti) quale diretta conseguenza della fuga dei capitali dai mercati azionari.
Effetti analoghi si registreranno plausibilmente anche nelle economie dei Paesi UE dove però il calo delle borse azionarie dovrebbe essere meno significativo (anche grazie all’afflusso di capitali provenienti dalla borsa americana), mentre gli iniziali effetti inflattivi potrebbero essere compensati dalla ripresa di pacifici rapporti commerciali con la Russia per l’approvvigionamento di fonti energetiche a basso costo. Al momento, tuttavia, le classi dirigenti UE, Von der Leyen in testa, sembrano remare in una direzione esattamente opposta a questa, con uno spirito inspiegabilmente masochistico.
Trump, a differenza degli attuali euro-burocrati, rappresenta le istanze del più tradizionale capitalismo industriale che fonda i propri interessi nell’economia reale e che oggi si contrappone ai disegni subdolamente autoritaristici del capitalismo finanziario. Quest’ultimo, per natura stessa dei suoi principali protagonisti, è apolide e transnazionale e quindi non ama concetti come la sovranità nazionale e la sovranità popolare basata sul meccanismo della rappresentanza democratica. Prediligendo invece operare all’ombra di quegli organismi sovranazionali che sfuggono a qualsiasi governance da parte dei popoli.
Nel medio e lungo periodo inflazione e svalutazione valutaria sono gli strumenti più efficaci che l’amministrazione Trump utilizzerà plausibilmente per svalutare i debiti (pubblici e privati) accumulati dal sistema dollarocentrico e porre progressivamente rimedio ai gravi squilibri finanziari da questo determinati a livello globale.
In sintesi, l’obiettivo di Trump appare essere, nel medio periodo, quello di ridurre i tassi di interesse per rilanciare l’economia reale e comprimere gli interessi sul debito pubblico. Non è escluso però che nel breve periodo ci possa essere un innalzamento dei tassi, come effetto indesiderato di una iniziale fiammata inflazionistica. Si tratterà comunque di una fase congiunturale, relativamente breve, poiché è solo in un contesto macroeconomico caratterizzato da tassi di interesse bassi e inflazione medio-alta che, da un lato, si perverrebbe ad una svalutazione del debito e, dall’altro, gli agenti economici sarebbero costretti ad investire nell’economia reale per preservare il valore reale dei propri risparmi e, nel contempo, per conseguire guadagni reali. In tal modo, si porrebbe finalmente un freno all’arricchimento meramente speculativo-finanziario e nel medio-lungo termine, si otterranno effetti esattamente inversi rispetto a quelli a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni; ovvero una progressiva redistribuzione della ricchezza a favore di tutte le classi lavoratrici, di tutte le categorie di imprenditori (piccoli, medi e persino grandi) e di tutti i risparmiatori e proprietari, a discapito di ristrettissime oligarchie finanziarie, che egemonizzano lo scenario economico e politico mondiale, di insaziabili multinazionali e di soverchianti e spropositati fondi finanziari la cui ricchezza è cresciuta, negli ultimi decenni, in maniera smisurata, sfruttando le maglie larghissime del disumano sistema neo-liberista impostosi in tutto il mondo occidentale.