La violenza antropologica della Cassazione

La violenza antropologica della Cassazione

di Daniele Trabucco

MAMMA E PAPÁ VS CORTE DI CASSAZIONE

La recente sentenza della Corte di Cassazione, che ha definito irragionevole e discriminatoria l’indicazione dei termini “padre” e “madre” nella carta d’identità dei minori, rappresenta non soltanto una svolta giuridica discutibile, ma anche un preoccupante sintomo della progressiva erosione di quei fondamenti antropologici e razionali che hanno sostenuto per secoli la civiltà occidentale.

La scelta della Suprema Corte si iscrive infatti in una linea di pensiero che, sotto l’apparente vessillo dell’inclusione, finisce per recidere ogni radice stabile nella natura umana, sostituendo alla realtà un costrutto arbitrario, soggetto alle fluttuazioni del sentire individuale e delle pressioni ideologiche.

Non è necessario scomodare i padri della filosofia classica per comprendere quanto sia insostenibile, sul piano della ragione naturale, la pretesa di cancellare la differenza sessuale, inscritta nei termini “padre” e “madre” in nome di un’uguaglianza malintesa. Eppure è proprio da lì che bisogna partire per denunciare con chiarezza la portata filosofica di questa deriva.

Aristotele, nella sua “Politica” e più ancora nell’”Etica Nicomachea”, ha affermato con forza che il bene umano si realizza in conformità alla “physis”, cioè alla natura. L’essere umano, come “zoon politikon”, è inscritto in un ordine razionale che non può essere ignorato senza che ne consegua la dissoluzione dell’ordine stesso.

La famiglia, per Aristotele, non è una costruzione culturale arbitraria, ma la cellula originaria della polis, fondata sull’unione complementare tra uomo e donna e finalizzata alla generazione e all’educazione della prole. Negare la specificità di questa unione attraverso la neutralizzazione dei termini “padre” e “madre” equivale dunque a negare un’evidenza antropologica: che ogni essere umano nasce da un uomo e da una donna.

La Cassazione, nel suo zelo giuridico, sembra dimenticare questa verità elementare. La legge, ricordava Cicerone nel “De Legibus”, non è altro che “recta ratio naturae congruens”, ovvero retta ragione conforme alla natura. Una legge che prescinde dalla realtà naturale dell’essere umano, e anzi la contraddice, è “lex iniusta”, e come tale non obbliga in coscienza. Si dirà che la giurisprudenza ha il compito di adattarsi al mutare della società, e che oggi esistono nuove forme di genitorialità che reclamano riconoscimento.

Anche qui, peró, la filosofia classica fornisce una risposta chiara. San Tommaso d’Aquino, raccogliendo e sviluppando il pensiero aristotelico, ha sempre sostenuto che la legge positiva deve fondarsi sulla legge naturale, la quale è partecipazione della legge eterna nella creatura razionale. Ogni mutamento legislativo o giurisprudenziale che contraddica i princìpi di questa legge è destinato a produrre disordine e ingiustizia. E fra questi princìpi vi è, in modo ineliminabile, il riconoscimento della differenza sessuale come dato strutturale della persona umana e della famiglia.

Cancellare la dicitura “padre” e “madre” equivale dunque non solo a distorcere il linguaggio, ma a oscurare le relazioni fondamentali che danno forma all’identità della persona. È, in fondo, un atto di violenza simbolica e antropologica, che pretende di ridurre la filiazione a una funzione burocratica o contrattuale, anziché riconoscerla come un evento naturale, relazionale e originariamente asimmetrico. Il diritto, quando si piega a questa logica, abdica alla sua funzione di custode dell’umano, per divenire strumento di una ingegneria sociale che non tollera più alcuna forma di limite.

In questo senso, la decisione della Cassazione appare profondamente aporetica: nel voler tutelare un supposto diritto all’autodeterminazione, finisce per negare la realtà biologica e affettiva su cui si fonda ogni vera relazione genitoriale. E lo fa in nome di un’uguaglianza che, lungi dall’essere rispettosa delle differenze, le annulla nel nome di una neutralità tanto astratta quanto inumana.

Ma una società che rinuncia a dire “padre” e “madre” è una società che ha smarrito il senso dell’origine. E senza origine, non vi è né identità, né futuro.

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