“Vescovelli” superbi e comunione sulla lingua

“Vescovelli” superbi e comunione sulla lingua

di Angelica La Rosa 

NON SIA TOLTO IL SEGNO DELLA RIVERENZA: IN DIFESA DELLA COMUNIONE SULLA LINGUA E IN GINOCCHIO

Nel cuore della liturgia cattolica batte un mistero insondabile e sacro: la Santissima Eucaristia, vero Corpo, Sangue, Anima e Divinità di nostro Signore Gesù Cristo.

Intorno ad essa si raccoglie l’intero edificio della fede, come ha ricordato il Concilio Vaticano II: “Nel divino sacrificio dell’Eucaristia, si attua l’opera della nostra redenzione” (Sacrosanctum Concilium, n. 2).

In questo contesto, la questione della modalità della Santa Comunione non è un fatto marginale, né una semplice questione disciplinare: essa tocca il cuore della nostra relazione con il mistero e con Dio stesso.

In tempi recenti, alcune autorità ecclesiastiche, tra cui qualche ignorante vescovello diocesano, hanno assunto la grave decisione di osteggiare (se non proibire) la Comunione sulla lingua, spesso anche vietando che venga ricevuta in ginocchio.

Di fronte a tali disposizioni, non possiamo rimanere in silenzio. Con filiale rispetto, ma con ferma coscienza, ci sentiamo obbligati a esprimere dissenso, fondato sulla dottrina, sulla tradizione e sul magistero della Chiesa, che evidentemente questi vescovelli non conoscono…

La prassi di ricevere la Santa Comunione sulla lingua e in ginocchio è radicata nella tradizione millenaria della Chiesa. San Tommaso d’Aquino, il “Dottore Angelico”, nella sua “Summa Theologiae” (III, q. 80, a. 13) afferma che “Il Corpo del Signore non viene toccato che dal sacerdote consacrato. […] È quindi una consuetudine che la Comunione sia data solo sulla lingua del fedele, e non da lui stesso, per evitare ogni rischio di profanazione”.

Tale consuetudine non è soltanto una questione liturgica, ma un’espressione visibile di quella adorazione dovuta all’Eucaristia. Riceverla in ginocchio è un atto esteriore che manifesta una disposizione interiore: l’umiltà del cuore davanti al Re dei re.

Papa Benedetto XVI, nel libro-intervista “Luce del mondo”, dichiarava che “Il modo migliore per esprimere la nostra riverenza è quello di ricevere la Comunione in ginocchio e sulla lingua”.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la Santa Sede non ha mai abrogato la possibilità di ricevere la Comunione sulla lingua. Anzi, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, con lettera del 24 luglio 2009, afferma che “La possibilità di ricevere la Santa Comunione sulla lingua è sempre rimasta valida e i fedeli non possono essere privati di questo diritto”.

Inoltre, nella Istruzione “Redemptionis Sacramentum” del 25 marzo 2004, si legge che “Ogni fedele ha sempre il diritto di ricevere, a sua scelta, la Santa Comunione in bocca” (n. 92).

Come si può dunque giustificare un divieto assoluto da parte di qualche ignorante vescovello diocesano, quando il diritto universale riconosciuto dal Magistero romano protegge questa modalità?

Un vescovello diocesano, pur avendo autorità in materia liturgica, non può annullare ciò che il diritto liturgico universale garantisce.

Non è una questione di nostalgia o di estetica cari catto-comunisti. È una questione di dottrina, di fede, di adorazione, che voi aborrite.

In un’epoca in cui la fede reale nella Presenza Eucaristica è in crisi, come dimostrano numerosi studi e sondaggi, l’atteggiamento del corpo contribuisce a educare e rafforzare quello del cuore. L’uomo, infatti, non è solo spirito: è corpo e anima. E ciò che fa il corpo, incide sull’anima.

Il venerabile Papa Pio XII, nella sua enciclica Mediator Dei (1947), ammoniva: “Non è lecito ai singoli né anche al clero, innovare alcunché nella liturgia. Ogni arbitraria azione è indegna del carattere sacro delle azioni liturgiche e contraria alla loro natura”.

Anche Papa Giovanni Paolo II, nella “Ecclesia de Eucharistia” (2003), si mostra chiarissimo: “L’Eucaristia è un dono troppo grande perché possa essere lasciato a interpretazioni soggettive e ad arbitrio, anche da parte di ministri del culto” (n. 52).

Come abbiamo denunciato su Informazione Cattolica negli scorsi anni, durante la pseudo pandemia da Covid-19, molti hanno giustificato il divieto della Comunione sulla lingua come misura sanitaria.

Tuttavia, anche in quel contesto straordinario, la Santa Sede non ha mai emanato un obbligo universale in tal senso. Al contrario, il cardinale Robert Sarah, allora Prefetto del Culto Divino, ha ribadito nel 2020: “Anche durante la pandemia, nessun sacerdote può negare la Comunione sulla lingua a chi la chiede. La fede non può essere controllata dalla paura”.

È triste dover constatare che provvedimenti d’emergenza sono divenuti per alcuni prelati una “norma permanente”, minando la libertà liturgica riconosciuta dal diritto della Chiesa.

Potremmo continuare con approfondimenti biblici e patristico sulla sacralità della Comunione, con riflessioni sulle conseguenze spirituali e pastorali del divieto, ricordando il diritto dei fedeli alla forma veneranda di ricevere l’Eucaristia, con le testimonianze di santi e pontefici.

Ma per certi vescovelli tutto ciò potrebbe essere controproducente. Potrebbero intestardirsi di più e rifugiarsi nel vizio capitale dell’orgoglio. E noi non vogliamo contribuire alla loro perdizione eterna…

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