Il Papa e il dialogo che vuole Dio

Il Papa e il dialogo che vuole Dio

di Padre Giuseppe Agnello*

IL PAPATO È CROCE E RESURREZIONE


Doménica scorsa abbiamo festeggiato e meditato la Divina Misericòrdia; in questa terza Doménica di Pasqua, con la terza apparizione di Gesú agli apòstoli, la vediamo all’òpera per riabilitare Pietro in quel ministero che è croce e risurrezione (mi riferisco al papato), e che esige dal primo degli apòstoli una professione di amore che deve superare quella del discèpolo prediletto; e quella di tutti gli altri apòstoli: «Mi ami tu piú di costoro?» (Gv 21, v.15). Il tempo che viviamo, in attesa del conclave che ci darà un nuovo successore di san Pietro, un nuovo vicàrio di Cristo in Terra, può èssere fecondo per meditare su ciò che è o non è il papato; su ciò che Dio si attende da esso, che è molto diverso da ciò che si attende il mondo; su come sia sempre il Vangelo ad avere l’última parola nella vita del credente, perché ci insegna che la dignità, la gràzia, la potestà, il posto che ricopriamo nel mondo, il nutrimento spirituale, non ce li diamo da soli: sono invece i doni del Risorto, che ci chiama a condivídere con Lui l’amore per la verità. Questa meditazione su ciò che la liturgia oggi ci offre come “pasto”, può infine giovare a innalzare le giuste preghiere a Dio, per chièdergli un successore di Pietro secondo il modello della Chiesa primitiva, visto che per noi fedeli “primitivo” vuol dire “originàrio ed autèntico”, non antiquato e superato.
Gesú è «la Via, la Verità e la Vita» (Gv 14, v.6) e ha donato agli Apòstoli lo Spírito Santo, che non è un animale domèstico che ubbidisce al suo padrone, ma è Dio nella terza Persona della Trinità, che rende sapienti e invincíbili coloro che gli obbedíscono. Nella prima lettura, dagli Atti degli Apòstoli, abbiamo sentito queste parole: «Bisogna obbedire a Dio, invece che agli uòmini…E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spírito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbedíscono» (At 5, v.29 e v.32). A parlare è Pietro, con la forza del salvato e perdonato; con la forza del Risorto che, alla destra del Padre, è «capo e salvatore di tutti»; con la forza dello Spírito Santo che non dà il dono del diàlogo, ma il dono dell’annúncio ardente e coraggioso. Il diàlogo nella Chiesa si deve anzitutto avere con il Signore, con il Vivente che è tutto amore: amore quando ci osserva faticare senza la sua gràzia, e ce la offre come ristoro e successo; amore quando ci prepara il pasto (pane e pesce), e ce lo dà alle sue condizioni; amore quando ci addolòrano le sue parole, perché scàvano nelle ferite che ci làscia addosso il peccato, e le pulíscono e disinfèttano. Il dolore per la passione e morte di Gesú, seguito dalla giòia per la risurrezione del Maestro e Signore, hanno acceso un fuoco nella Chiesa primitiva, che è il fuoco della verità. Gli apòstoli lo ricévono per primi a Pentecoste, sotto forma di fiammelle; ma in questa terza apparizione del Risorto, Pietro lo riceve anche come profezia: «“In verità, in verità io ti dico: quando eri piú gióvane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vècchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi”. Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: “Séguimi”». Questo fuoco non divora e non consuma, ma spinge a donare la pròpria vita fino a non temere di pèrderla per fare víncere Cristo. Il martírio e la forza di andargli incontro, nel servízio amorévole di pàscere (cioè nutrire) gli agnelli e le pècore di Gesú Cristo, è indubbiamente dono dello Spírito Santo e il papato ha un gran número di papi màrtiri: san Pietro (1° papa), san Clemente I (4°), sant’ Evaristo (5°), sant’Alessandro I (6°), san Telèsforo (8°), sant’Eleutèrio (13°), san Vittore I (14°), san Callisto I (16°), san Ponziano (18°), san Fabiano (20°), san Cornèlio (21°), san Sisto II (24°), san Giovanni I (53°), san Silvèrio (58°), san Martino I (74°). Ecco i Romani Pontéfici che la stòria ci ha consegnato come esempî di màssima santità: il loro amore per la Verità che è Cristo, per la fede che è adesione alla sua vita divina, li ha portati all’effusione del sàngue, cioè al farsi ammazzare pur di non rinunciare alla professione della vera fede in Gesú. Come i primi apòstoli, questi papi, non hanno temuto le minacce e i divieti di predicare nel nome di Gesú; non si sono impegnati ad èssere diplomàtici nell’annuciare chi è e che cosa esige l’Agnello Immolato; non hanno dialogato con il mondo, per restarne ingabbiati o bloccati. Il diàlogo con Dio e l’obbedienza a quel “Séguimi” sono il requisito per sapere lèggere la realtà e dare glòria a Dio. Oggi abbiamo un’idea del diàlogo malata, che non è affatto dono dello Spírito Santo, perché chi diàloga, ama il diàlogo piú di Gesú Cristo; ama il mezzo piú del fine. Il mondo consídera il diàlogo come la ricerca di ciò che ci accomuna senza inquietarci e infastidirci. Se dialogheremo senza andare mai al nòcciolo delle questioni e alla sostanza dell’èssere, che è Cristo Signore «capo e salvatore» (At 5, v.31) di tutti, allora il mondo ci batterà le mani, e i nostri diàloghi saranno un farsi carezze a vicenda. Se invece il nostro diàlogo sarà anzitutto con Dio e il nostro annúncio conseguente sarà ardente di vera carità, ciò che seguirà sarà la persecuzione. E nella persecuzione, la giòia; come abbiamo sentito: «Fécero flagellare [gli apòstoli] e ordinàrono loro di non parlare nel nome di Gesú. Quindi li rimísero in libertà. Essi allora se ne andàrono via dal Sinèdrio, lieti di èssere stati giudicati degni di subire oltraggî per il nome di Gesú» (At 5, v. 40 – 41). Il Vangelo di oggi ci mostra un Gesú che prima di confermare Pietro custode della fede rivelata (gli dice infatti dopo ogni sua risposta di pàscere, cioè nutrire, con questa fede rivelata il gregge a lui affidato), si accerta che egli ami di piú Lui stesso, anziché il primato. Se infatti un papa amasse il primato piú di Gesú Cristo, comanderebbe senza servire e nutrire nessuno. Se infatti un papa amasse il diàlogo di piú di Gesú Cristo, parlerebbe a tutti ma senza giovare a nessuno. Se poi amasse apparire al passo coi tempi, senza piú seguire Gesú Cristo nella sua imitazione che abbràccia ogni tempo, il martírio non sarebbe piú una possibilità concreta, ma una vuota parola relegata a ciò che è “primitivo” nel senso àteo del tèrmine. Il Vangelo e le letture di oggi, dunque, ci inségnano, in tempo di conclave pròssimo, a desiderare il papa che da sempre dice: «Bisogna obbedire a Dio, invece che agli uòmini» (At 5, v.29).
A noi, píccoli fedeli che restiamo a guardare, sperare e pregare da lontano, viene invece l’insegnamento che lo Spírito Santo, se àbita in noi, non ci impegnerà mai in diàloghi stèrili, dove ognuno piace a sé stesso, ma ci farà dire ogni cosa per amore di Cristo, che «è degno di ricévere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, glòria e benedizione» (Ap 5, v.12).

III Doménica di Pasqua, anno C, 4 Màggio 2025
At 5,27-32.40-41; Sal 29; Ap 5,11-14 ; Gv 21,1-19.

* L’autore aderisce ad una riforma ortografica della lingua italiana 

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