Lo straziante ricordo di Costanza Rossi da parte di Pietro Ichino

di Pietro Ichino

ALLA MOGLIE, SCOMPARSA NELLA NOTTE DEL 9 MAGGIO, IL DOTTOR PIETRO ICHINO HA DEDICATO LE PAROLE DAVVERO EMOZIONANTI CHE VI PROPONIAMO

“Sono nato a Milano il 22 marzo 1949; ho sposato Costanza Rossi nel 1973”, scrive sul suo sito il noto giurista, giornalista e politico Pietro Ichino.

Proprio alla moglie, scomparsa nella notte del 9 maggio, il dottor Pietro Ichino ha dedicato le parole davvero emozionanti che vi proponiamo.

Riguardando indietro a questi ultimi due anni nei quali la malattia ha infierito più duramente su Costanza, e di riflesso su chi la assisteva, non ho solo una memoria di sofferenza: è stato forse il periodo più ricco e intenso di tutto il nostro matrimonio.

Pensieri dell’ultima notte trascorsa accanto a mia moglie, 9 maggio 2020 – Costanza ha sofferto per circa otto anni di una PSP-Paralisi Sopranucleare Progressiva (o sindrome di Richardson), che ne ha lentamente menomato, fino ad azzerarle, tutte le facoltà vitali.

In questi due ultimi anni nei quali la mia vita è stata legata a quella di Costanza ancor più di quanto non fosse stata nei precedenti, per tutte le svariate necessità dell’assistenza diurna e soprattutto notturna, in molti mi hanno chiesto come facessi a sopportare questo grande sacrificio. All’inizio confesso che anch’io ne fui spaventato. Mi parve un caso in cui non si poteva applicare la grande regola secondo cui a cercare il bene nascosto in ogni situazione difficile, lo si trova sempre. Provai a impegnarmi in questa prova con uno spirito sportivo: “vediamo quanto tempo resisto”. Poi, pian piano, mi sono accorto dei tesori che questa situazione nascondeva. Mi ero impegnato a essere per Costanza le gambe che aveva perduto, gli occhi al posto dei suoi che non funzionavano più, e nell’ultimo periodo anche le braccia e le mani per lavarsi, pettinarsi, vestirsi, portare il cibo alla bocca; questo ben presto ha creato tra me e lei, dopo 45 anni di matrimonio, un’intimità che non avevamo mai vissuto.

Ogni volta – e potevano essere decine in una giornata – che lei mi chiedeva di spostarsi dal letto o dalla poltrona alla carrozzella e viceversa era un abbraccio stretto, e qualche volta ci fermavamo a metà strada abbracciati così, indugiando a dondolarci come in un ballo cheek to cheek. Abbiamo scoperto la delizia nuova, mai sperimentata prima, del leggere insieme ad alta voce per lunghe ore serali libri stupendi, che letti insieme diventano ancora più belli. Ma l’intimità maggiore era quella delle sveglie notturne per una delle tante necessità, anche solo per aiutarla a cambiare posizione nel letto: accadeva che non ci riaddormentassimo subito, ma restassimo a lungo abbracciati nel letto parlando sottovoce di tutto quello che più ci stava a cuore, dai problemi di figlie e nipoti a quello che sarebbe stato di noi nelle prossime settimane e mesi.

E, a differenza di quel che accade di giorno – perché di giorno non si riesce a parlare della morte – nel buio della notte riuscivamo a parlare serenamente del tempo che ci era lasciato da vivere insieme e di quello che sarebbe seguito, nel quale lei non sarebbe stata più qui, ma che lei provava a immaginare con me, così in qualche modo lasciando in esso un segno della sua presenza. Riguardando indietro a questi ultimi due anni nei quali la malattia ha infierito più duramente su Costanza, e di riflesso su chi la assisteva, non ho solo una memoria di sofferenza: è stato forse il periodo più ricco e intenso di tutto il nostro matrimonio, che pure, nell’arco dei quasi cinquant’anni della sua durata, è stato straordinariamente ricco di vita e di lavoro comune.

Così quella regola del cercare il bene nascosto in tutte le pieghe della vita, che in questo nostro ultimo caso pareva subire una evidente eccezione, o pareva addirittura non poter essere menzionata senza assumere il significato di un’irrisione alla sofferenza, si è invece rivelata ancora una volta tangibilmente vera. Se mi è consentito utilizzare una parola grossa, la “fede” in quel bene nascosto si è rivelata non solo frutto di speranza, non solo immaginazione di una consolazione promessa altrove, ma conoscenza – nel senso più profondo del termine – di qualche cosa di molto concretamente tangibile.

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