Esclusivo. Il Padreterno, Montanelli (ed io). Altro che statue…

Firenze. 22 febbraio 1994. Presentazione de «La Voce», quotidiano nuovo di zecca, ultima creatura di Indro Montanelli dopo lo strappo con l’editore del «Giornale» Silvio Berlusconi. Ad accompagnare il giornalista, accolto da star in una sala strapiena dell’Ospedale degli Innocenti, Beppe Severgnini e Giuliano Prezzolini, figlio del grande Giuseppe. Tra i presenti, anch’io; ventenne, universitario fuori sede venuto su a pane, latte e Montanelli. Quella serata fiorentina, neanche a dirlo, fu un successo. Giocava in casa l’Indro nazionale, e man mano che scorgeva tra la folla qualche vecchio conoscente, complice il suo indice minatorio, andava trasformando la presentazione del quotidiano in uno show. Con ficcanti, regolari, esilaranti conti da saldare (fortunatamente Youtube conserva traccia della serata: vedi qui). Ma il meglio per me doveva ancora venire.

Una passeggiata sognante

Finita la serata, rifiutato il taxi e oramai svuotate le scarpe dai sassolini, Montanelli volle arrivare a piedi a Il Latini, storica trattoria del centro. A piedi! Per noi che lo avevamo aspettato sul retro, significava una lunga passeggiata col maestro. Eravamo dodici, per l’appunto, quasi tutti ragazzi di “Controcorrente Giovani”. «Ora o mai più», dovetti pensare, tanto che presi inavvertitamente la scena e gli raccontai tutto quello che avevo immagazzinato in anni di letture montanelliane. Il bello è che ci stava. Trabboccante di verve e di saggezza. Una giovane giornalista del «Mattino» mi chiese se per caso fossi suo nipote vista l’immediatezza con cui lo trattavo, e visto – me lo confessò lei – il suo terrore per l’intervista che Montanelli dopo cena avrebbe dovuto rilasciarle. Non sapeva, la poverina, che la mia era l’incoscienza d’un innamorato. Scandagliavo il mio eroe in cappotto di cammello e bastone: quella sera non poteva esserci spazio per la timidezza.

«Ecco, è proprio la chioccia con dietro i pulcini», andava commentando un divertito Severgnini, mentre si procedeva lentissimamente, tre passi e una sosta per il doveroso aneddoto. Intanto l’abbagliante Rinascimento fiorentino ci sorprendeva ad ogni angolo. E quando all’altezza del Campanile di Giotto un indigeno molto ingenuo tentò di aggraziarsi Montanelli con un: «Solo noi fiorentini siam riusciti a creare codeste bellezze», venne fulminato da un’occhiataccia e da un severo: «Sì, ma te e me, un ci s’entra per nulla».

Che significa ricordare quella lontana serata di 26 anni fa, oggi che addirittura si teorizza una “sanificazione della storia”, che si giustifica chi imbratta le statue e le butta giù, oggi che si legittima una violenza stupida e cieca?Significa tentare di far luce sulla coscienza tormentata di un gigante dal cuore afflitto. Un lato di Montanelli su cui si è soliti glissare.

«Dormire avvinghiato ad un mostro»

Per capire qualcosa di più sull’uomo di cui oggi si invoca la damnatio memorie, non c’è niente di più veritiero (e potente) di un passo dell’autobiografia uscita postuma:«I conti con me stesso» (Rizzoli, 2009).

Montanelli si fotografa alla notizia che suo zio Bibi, colpito da trombosi, è in coma. «Ora è lì, e non lo riconosco, tanto l’agonia lo stravolge. Invidio il dolore di mia madre, che lo accarezza e lo bacia in fronte: è un dolore semplice, autentico e disinteressato, come tutti i suoi sentimenti. Il mio, no. Non ho pena per lui. Ho pena per me, che non so come fare a meno della sua adorazione senza riserve. Ed è su di me che mi accorgo a un tratto di piangere, e mi odio».In questo passaggio, il cui dramma l’odierna furia iconoclasta e manichea non può riuscire a cogliere, Montanelli non avrebbe potuto declinare meglio le parole dell’Apostolo: «Io faccio non quello che voglio ma quello che detesto». Ma la sua confessione continua. «Nel pomeriggio, tornato a casa, scrivo un articolo per il “Corriere”. Lo scrivo con l’abituale concentrazione, che non s’incrina nemmeno quando mi telefonano che zio è spirato, e lo detto allo stenografo. Colette ha ragione quando dice che sono un mostro. Ma stanotte… Stanotte sarà una delle tante notti in cui mi sveglio di soprassalto, per l’improvvisa coscienza di dormire avvinghiato a un mostro».

“Disturbo maniaco depressivo”. Per Montanelli questa è stata la diagnosi dei medici. Non è un mistero che ogni nove mesi, ciclicamente, il principe dei giornalisti sprofondava nel buio e rimaneva bloccato in balìa delle sue coronarie di carta velina. Sì, taluni vollero vedere in quei black-out il bussare alla sua porta di Qualcuno.

L’umiltà d’inginocchiarsi

Ma “Montanelli e la fede”, vexata quaestio, nodo gordiano, è il titolo di un tema destinato a rimanere abbozzato. Il fenicottero di Fucecchio provava a chiudere il cerchio scherzandoci su: «Invidio i credenti, io la fede non ce l’ho, non mi è stata data. Sarà stato un disguido». Che teologicamente è una bestemmia. O una boutade. Le cose non sono così semplici, né così comode. La fede arriva col battesimo, punto. Quindi va accolta, “lavorata”; è un lavoro duro, complicato, testardo. La fede va anche elemosinata. Non ci sono scorciatoie. Per nessuno. Sul tema, caldissimo, Marina Corradi (figlia di quell’Egisto Corradi intimo amico del Nostro)sostenne che a Montanelli sarebbe mancata l’umiltà di implorare la fede. Di inginocchiarsi. Perché l’uomo non è grande che in ginocchio, e Montanelli, che non aveva mai avuto bisogno di chiedere altro, non è stato disposto a vendere il campo per tenersi il tesoro. Anzi, a chi gli chiedeva se degli altri uomini si sentisse fratello, tra il sarcastico e l’aspro rispondeva: «Io sono figlio unico». …Diavolo d’un Montanelli! Di provocazioni non ancora pago: «Se c’è un Aldilà, non potrà essere il Padreterno a chiedermi perché non ho creduto, ma sarò io a esigere spiegazioni da lui». Insomma, va bene «il brutto carattere delle persone di carattere» (sì, è ancora lui), ma qui saremmo a un passo dall’indifendibile se non fosse chiarissimo che dietro la spavalderia di certe parole si nascondeva la fragilità dell’uomo. Con quell’esigere spiegazioni da Dio, Montanelli, da primadonna qual era, ha sparato a salve. Ne sarà consapevole ora, certissimamente, mentre in un angolo del Cielo, Borsalino in testa e Olivetti sulle ginocchia, starà scrivendo le sue impressioni sul “Direttore”.

Un peccatore prevedibile

Eppure erano stati tanti a dirgli che gli mancava soltanto la confessione, ché l’assoluzione per lui era assicurata. «Se era originale come giornalista – diceva di lui il vescovo Maggiolini – come peccatore era prevedibile e normale fino alla desolazione». E l’episodio del madamato nell’Abissinia del ‘35 non  lo rese certo meno prevedibile, checché ne dica quel dogmatismo rabbioso che nega lo spazio per le cadute e le risalite; per il Peccato, la Grazia, la Redenzione; che aggredisce un uomo morto da anni (perché “l’amore vince” solo quando dicono loro); che inneggia a quella pratica dell’utero in affitto che ogni giorno fa nuove schiave (sì, schiave).

Avevano tifato per lui praticamente tutti: da padre Gheddo al cardinal Tonini, e prima ancora l’arcivescovo di Milano Schuster con la sua assistente suor Enrichetta Alfieri, l’“Angelo di San Vittore”, beatificata nel 2011 e a cui Montanelli deve la fuga dal carcere. Perfino Papa Wojtyla lo invitò a pranzo. E poi Maddalena, la madre amata, che non smise mai di pregare per lui.

Eppure, nulla. Nessun ripensamento, almeno all’apparenza. Però… quel rigore, quello stile (che stile!), l’onestà, la disciplina, il coraggio. Di questo anche l’uomo di fede sente il fascino, la necessità. Oggi, pensare Montanelli escluso dalla salvezza è quasi impossibile. Mortificherebbe l’immagine di un Dio misericordioso, che per la contabilità spiccia dei peccati non ha mai nutrito alcun interesse. E che è molto, molto meno “giusto” dei purissimi #antifa.

Certo, nessuno conosce i pensieri del Signore, sovrastano l’uomo come la terra il cielo. Due cose soltanto so: ho riconosciuto in Indro Montanelli un uomo vero, e credo in un Dio che si è fatto uomo vero. Mi basta. Ma questi sarebbero discorsi infiniti. E Montanelli non superava mai le due cartelle.

Valerio Pece

 

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