Quel Santo ‘irregolare’, morto giovanissimo, che macinava chilometri da un Santuario all’altro

Quando il mattino, salutato dal volo pazzo delle rondini, è ancora croccante e sembra prender fiato per risalire la china del cielo tenuto per mano dal sole, io, sola soletta, salgo la scalinata buia, intitolata a San Francesco di Paola, che conduce a San Pietro in Vincoli e lì, in compagnia dei sacerdoti regolari lateranensi, recito i salmi e assisto poi alla Santa Messa. Prima che la Chiesa apra, seduta su un gradino, osservo lo spettacolo di tre senzatetto che, risvegliati dal giorno, riassettano i loro giacigli, spazzando l’intorno e lasciando i luoghi puliti e lindi, come dovrebbero essere sempre. Sono tre e mi squillano un buongiorno fraterno. E’ pensando a loro, anche se ben diverso era il pellegrinaggio suo, che mi accosto a un “vagabondo di Dio” che abitava, a fine Settecento,  tra il Colosseo e il Rione Monti: San Benedetto Giuseppe Labre, francese, camminatore, uomo di fede luminosa, capace di passar le Quarantore davvero fisso in Dio, davanti al Santissimo. San Benedetto Labre è il Patrono dei “barboni” e quindi anche dei tre randagi che incontro ogni mattina, davanti alla Basilica dedicata alle catene del grande Apostolo…

E ora, per entrare a tu per tu, con questo Santo irregolare, morto giovanissimo, che aveva macinato chilometri a piedi, andando da un Santuario all’altro e che non riuscì a vivere negli Ordini dove fu accolto (Certosini prima e poi i Trappisti), seguitemi in Via dei Serpenti 2, dove ho una cara amica di nome Maria che, con le consorelle Oblate Apostoliche della  Pro Sanctitate (movimento spirituale fondato da Monsignor Guglielmo Giacquinta sepolto proprio alla Madonna dei Monti, dove è stato viceparroco e instancabile e amabile penitenziere), custodisce il luogo, divenuto la cappella del transito di Benedetto. Visto da fuori, il palazzo, color giallino, è uno dei tanti, affacciati su quello che un tempo era il Corso del Rione Monti e che ora annaspa senza turisti e con scarsi monticiani in abbandono, nella malinconia della malva e delle ortiche, che crescono tra la strada tutta rappezzata e il marciapiede frastagliato come una scogliera. Maria ci accoglie sorridente e ci accompagna in un viaggio nella santità di un piccolo-grande uomo di Dio, il quale fu davvero, come dovrebbe essere per tutti noi, pellegrino su questa terra.

Lasciato sulla sinistra il salottino dove abbiamo bevuto un buon caffè, è tempo di salire le scale per visitare prima il piccolo museo del Santo francese e poi la cappella del transito.C’è, nel museo, un breviario di Benedetto, c’è una tegola della sua casa natia ad Amettes, in Francia, c’è una mappa che racconta per filo e per segno tutti i pellegrinaggi compiuti da “Benoit”: a piedi, con un tozzo di pane, il saio, il rosario, in giro per l’Europa, da un monastero a un santuario, da una Chiesa all’altra: Santiago di  Compostella, San Michele Arcangelo sul Gargano, Montecassino, Valverde a Catania. E soprattutto la Santa Casa di Loreto, dove il Mistero era iniziato e dove Benedetto si recava, in letizia, ogni anno. Danziamo, Maria e io, tra tutti i cimeli che parlano della povertà di un uomo nato povero (con 14 fratelli) e che diventò ancora più povero, ma ebbe la grazia di posare per il Santo Volto di Cristo. Glielo chiese un pittore francese, un certo André Bley del quale si ricorda, in fondo, solo questo episodio. Il dipinto è qui e si può vedere da vicino. E ora, in punta di piedi, entriamo nella stanza che è diventata la cappella del Santo francese e che era, alle origini, una delle camere della casa del macellaio del Rione, che raccolse, morente, il Santo sui gradini della Chiesa intitolata alla Madonna dei Monti.

Entriamo, dunque, e su un letto di marmo, di marmo pure lui, giace Benedetto e sopra di lui un dipinto che raffigura una Madonnina dolcissima, vestita di rosa e d’azzurro, che sembra tendergli le braccia per accoglierlo nel Regno, come finale glorioso del suo umile andare terrestre.Morì, Benedetto, e il popolino romano che amava quello strano ragazzo, un poco straccione, che dormiva nei fornici del Colosseo e che viveva, senza chiederla mai, di carità, lo amò ancora di più, chiamandolo a gran voce “il Santo”. Era il 16 aprile del 1783, giorno della nascita in cielo di Benedetto e giorno in cui, ogni anno, Maria e le sue consorelle aprono le porte ai tanti suoi devoti, che giungono qui da ogni dove. E che Benedetto sia ancora vivo nella memoria cattolica è facile capirlo. anche facendo una visitina alla Madonna dei Monti, dove sull’estrema sinistra, quasi a ridosso dell’Altar maggiore, c’è il monumento funerario del Santo che dorme in una teca di cristallo piena di biglietti segreti forse preghiere, forse ringraziamenti per grazie ricevute o chissà che cosa…

Ecco, il mio pellegrinaggio alla sorgente viva di Benedettosi conclude e mentre penso ai miei amici di San Pietro in Vincoli, penso a un altro senzatetto che fu caro, carissimo a tutto il Rione Monti (dove abito anche io). Si chiamava Angelo, aveva gli occhi color cielo e quando mi incontrava “Come vaaalllei?”, mi diceva (come a tutti), e indicandomi mio figlio piccolo, voleva sempre darmi un euro perché gli comprassi il latte. Ai Monti, fino a  una ventina d’anni fa, si respirava un’aria di paese, in semplicità di verdura lessa, oggi con tutti i localini hipster e le pizze modaiole non so più e chissà se capirebbero ancora San Benedetto Labre…

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