Lo storico Andrea Rossi: “la Chiesa cattolica ha difeso la dignità di alcuni dei “vinti” della Seconda guerra mondiale”

Di Giuseppe Brienza

Tra i prodotti editoriali di prossima uscita che inFormazione Cattolica ha già segnalato c’è il saggio storico di Andrea Rossi dal titolo: La fine di tutto 15 aprile-15 maggio 1945: una guida agli ultimi giorni dei collaborazionismi europei (D’Ettoris Editori, Crotone 2020, collana: Biblioteca di storia europea, pp. 120, € 13,90). Per presentare contenuti e prospettive di questa interessante ricostruzione storica abbiamo parlato direttamente con l’autore, rivolgendogli alcune domande.

Ci puoi spiegare perché e quanto è importante, dal punto della memoria storica e della sensibilità umana direi, ritornare sulla vicenda personale dei vinti della Seconda guerra mondiale?

Trovo che sia corretto il rimando non solo alla memoria storica, ma anche alla “sensibilità umana”, perché quanto accadde al termine della Seconda guerra mondiale è stato a lungo considerato il “dies irae” per tutti coloro che avevano, sia pure in modo diverso, combattuto assieme al dittatore Adolf Hitler fino alle estreme conseguenze. In realtà le storie degli sconfitti non erano tutte uguali, e assieme ad autentici fanatici che avevano attivamente collaborato al genocidio etnico e razziale nazista, c’erano centinaia di migliaia di uomini che per difendere i propri principi etici, o per amor di patria, o per convinzioni anticomuniste, si erano trovati dalla parte sbagliata della storia. A dimostrazione di questo stato di cose, va ricordato come la memoria nazionale di alcuni movimenti anticomunisti (penso soprattutto a quelli dei paesi baltici), dopo la caduta del muro di Berlino, ha accettato e compreso quella scelta, proprio perché dettata dalla necessità di opporsi ad un dominio, quello sovietico, che se era stato duro negli anni precedenti alla Seconda guerra mondiale, fu crudele e spietato al momento delle riconquiste territoriali del 1945.

C’è qualche personalità, in particolare, di cui parli in questo tuo ultimo libro che, per la sensibilità religiosa e umana, può essere segnalato ai nostri lettori?

Personalmente sono rimasto molto colpito dalla figura del generale ucraino Pavlo Shandruk, il quale, dopo aver combattuto con valore nelle guerre di indipendenza del 1919-1920, si arruolò nell’esercito polacco, diventando colonnello e partecipò alla difesa di Varsavia contro la Wehrmacht [espressione in tedesco che indica le Forze Armate nazionali] nel settembre 1939, ottenendo la medaglia “virtuti militari” una delle più importanti onorificenze militari polacche. Durante l’occupazione tedesca si ritirò a vita privata, salvo venire richiamato dai nazionalsocialisti all’inizio del 1945 con un compito arduo: dare un esercito al comitato di liberazione anticomunista ucraino. Shandruk riuscì nell’intento riunendo in una grande unità, successivamente denominata “1a Divisione ucraina”, gran parte dei volontari che prestavano servizio nelle forze armate tedesche; l’obiettivo a primavera del 1945, non era certamente quello d’impegnarsi in uno scontro suicida contro l’Armata rossa, ma quello di evitare il rimpatrio in Unione sovietica, cosa che effettivamente riuscì in Austria a maggio del 1945: al momento della resa all’ottava armata britannica, Shandruk ottenne di poter trattare direttamente con il vecchio commilitone Wladislaw Anders, che era il comandante del secondo corpo d’armata polacco, al quale comunicò che i suoi uomini non erano veri e propri ucraini, ma galiziani, quindi cittadini polacchi anticomunisti. Incredibilmente questa versione salvò la vita di decine di migliaia di soldati, diversi dei quali avevano al seguito le proprie famiglie, e permise la loro emigrazione in Canada, dopo un soggiorno in un campo di raccolta nei pressi di Rimini.

Quanto di falso e strumentale continua ad esserci propinato, riguardo al ruolo tenuto in questo delicato passaggio storico-politico, nella narrazione delle vicende del secondo dopoguerra?

La cosa che lascia maggiormente impressionati è che alcuni giudizi su come non tutti i “vinti” fossero da mettere nello stesso calderone dei collaboratori nazisti erano all’epoca perfettamente chiari negli alti comandi angloamericani. Il trattamento di favore da adottare nei confronti dei militari lettoni ed estoni, come anche quello che fu deciso nei confronti dei soldati ungheresi, dimostra che non esisteva, almeno fra gli alleati occidentali, una volontà punitiva generalizzata. Diverso ovviamente il discorso dei sovietici, i quali avevano promesso una punizione esemplare per tutti coloro che avevano collaborato con il Terzo Reich. Ovviamente in questo scenario, i militanti del nazionalsocialismo europeo occidentale, come i “collabos” [collaborazionisti] belgi e francesi, non potevano in alcun modo sperare in alcun tipo di misericordia, né a ovest, né a est. D’altronde difficilmente avrebbero potuto avere un ruolo nella guerra fredda ormai in atto già dall’estate del 1945.

La Chiesa cattolica ha avuto un ruolo nella difesa della dignità di alcuni deivintidella Seconda guerra mondiale?

Senz’altro. Nella vicenda degli ucraini senza alcun dubbio, in quanto si trattava di cattolici uniati, così come per quanto concerne i nazionalisti croati e sloveni ci furono azioni umanitarie volte ad alleviare la sorte di molti fuggitivi dalla Jugoslavia di Tito. Certamente in questo sforzo di generosa protezione ci furono anche errori di valutazione, in genere dovuti alla passione nazionalista di elementi della Curia vaticana, ma nel complesso non era possibile restare indifferenti rispetto a massacri avvenuti a guerra abbondantemente terminata, come quello dei croati a Bleiburg o degli sloveni a Kocevie. A distanza di tre quarti di secolo, probabilmente occorrerebbe una visione maggiormente oggettiva su quel tragico periodo di transizione, in cui un mondo era destinato completamente a finire, ed un mondo nuovo, che sarebbe rimasto a lungo diviso in due sfere di influenza, non si era ancora affermato.

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