“Alla Sicilia tendeva il cuor di Dante”

DANTE E LA SICILIA, UN AMORE PROFONDO

Di Francesco Bellanti

Dante non fu mai in Sicilia, ma amò la Sicilia di un amore profondo.

La quantità di riferimenti alla Sicilia nelle sue opere e soprattutto nel sacro poema è enorme, e non sono solo suggestioni letterarie di Virgilio, Ovidio, Lucano e altri poeti.

Vorrei qui ricordare, per esempio, il ricordo indiretto di Siracusa a proposito della tirannide di Dionisio, e quello di Agrigento nella presentazione di Empedocle fra gli spiriti magni del Limbo, e l’imponenza dell’Etna come fucina di Vulcano a proposito dei ciclopi nell’episodio di Capaneo, l’evocazione della eccezionale forza d’urto del mare tra Scilla e Cariddi per descrivere la terribile pena degli avari e prodighi, e infine l’altra evocazione del mugghiare del “bue cicilian” nell’episodio di Guido da Montefeltro.

Nel Purgatorio abbiamo la rievocazione del Paradiso terrestre, paragonato al bosco fiorito di Enna, dove la giovane e bella Proserpina, rapita da Plutone, “perdette… primavera”.

Sono evocazioni che trovano la loro inevitabile conclusione nella dichiarazione di amore che il poeta fa alla “bella Trinacria” con alcuni versi messi in bocca a Carlo Martello, nei quali, in un’aura favolosa, come un incanto, si presenta alla fantasia e alla poesia del Sommo la Sicilia.

E la bella Trinacria, che caliga

tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo

che riceve da Euro maggior briga,                           

non per Tifeo ma per nascente solfo,

attesi avrebbe li suoi regi ancora,

nati per me di Carlo e di Ridolfo,                          

se mala segnoria, che sempre accora

li popoli suggetti, non avesse

mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”.

(Paradiso, Canto VIII, vv.67-75)

Versi che furono rievocati da un altro grande poeta che amò la Sicilia, Giovanni Pascoli, docente all’Università di Messina, allorché tenne, il 18 febbraio del 1900, una conferenza sul padre della lingua italiana presso la Società Dante Alighieri della città dello Stretto.

Anche se nella Divina Commedia le sue convinzioni religiose lo spingono a condannare lo scomunicato Federico II all’inferno, perché eretico ed epicureo, l’imperatore Federico II di Svevia gode della sua massima considerazione. Il suo regno è espressione di civiltà, spirito etico, magnanimità.

La Scuola Siciliana federiciana è, per Dante, alle origini della nostra lingua e letteratura, e, anzi, ne è la linfa e l’impulso.

Dante nutre una grande ammirazione per “l’ultimo imperadore de li Romani”, che Pier delle Vigne chiama “il mio segnor, che fu d’onor sì degno”, per l’opera straordinaria svolta e lo splendore raggiunto dalla sua corte, e la celebra come centro di lingua, cultura, poesia.

Nella Scuola siciliana egli ricomprendeva tutta la poesia precedente al “Dolce stil novo”.

Già nella “Vita nova” Dante riconosce ai rimatori siciliani un primato sotto il profilo linguistico: “Quasi fuoro i primi che dissero in lingua di sì”, ovvero l’insieme dei volgari d’Italia. Nel “De vulgari eloquentia” il poeta passa in rassegna i dialetti italiani, e cerca quello che possa sostituire il latino, non più attuale, e conferire unità linguistica all’Italia: un volgare che sia illustre, da dar lustro a chi ne fa uso, cardinale, perché faccia da cardine alle altre parlate, aulico, in quanto degno di un regno, curiale, da potere essere usato in una curia. Non lo trova, ma tra tutte le lingue italiane egli considera il siciliano dei poeti della scuola federiciana il più illustre.

L’ammirazione per l’imperatore di Svevia si estende al figlio Manfredi (che a differenza del padre è invece salvato in extremis nonostante i suoi orribili peccati), che incontriamo nel terzo canto del purgatorio:

“Io mi volsi ver’ lui e guarda il fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso”.

(Purgatorio, Canto III, vv. 106-108)

E concludiamo queste veloci riflessioni sull’amore del Sommo per la terra di Sicilia con alcuni versi sublimi, quelli dedicati dal Poeta all’ultima regina normanna di Sicilia e imperatrice consorte Costanza d’Altavilla (in quanto moglie dell’imperatore Enrico VI) – che egli fa presentare a sé stesso da Piccarda Donati in Paradiso – colei che fu madre di Federico II di Svevia, re di Sicilia e Imperatore del Sacro Romano Impero, “l’ultima possanza”, il più grande dei siciliani.

“E quest’altro splendor che ti si mostra 

da la mia destra parte e che s’accende 

di tutto il lume de la spera nostra, 

ciò ch’io dico di me, di sé intende; 

sorella fu, e così le fu tolta 

di capo l’ombra de le sacre bende. 

Ma poi che pur al mondo fu rivolta 

contra suo grado e contra buona usanza, 

non fu dal vel del cor già mai disciolta. 

Quest’è la luce de la gran Costanza 

che del secondo vento di Soave 

generò ‘l terzo e l’ultima possanza”.

(Paradiso, Canto III, versi 109-120. Cielo della luna, anime che mancarono ai voti).

 

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