A 3 anni dalla morte ricordiamo il piccolo “gladiatore”

Portiamo avanti la battaglia in difesa della Vita in ogni suo stadio, senza paura e sollecitando l’intervento delle istituzioni civili ed ecclesiastiche.

Di Maria Bigazzi

Sono passati tre anni dalla morte del piccolo Alfie Evans, una vicenda che ha colpito molti cuori e aperto gli occhi a molte persone.

Ripensare a ciò che Alfie e la sua famiglia hanno vissuto riempie di tristezza infinita. Eppure, dopo tre anni, la cultura della morte e del “best interest” che uccise Alfie, continua a vivere tra le persone, e ancora oggi vi sono casi di bambini ma anche di adulti (come il caso di RS), che si trovano a fronteggiare con un potere che li priva di ogni mezzo di difesa per giungere a eliminarli definitivamente.

Alfie aveva pochi mesi quando dovette trasferirsi all’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool, in quanto affetto da una malattia rara, una patologia neurodegenerativa del gruppo delle epilessie miocloniche progressive, per cui il piccolo necessitava di cure che provvedessero al suo sostentamento. A lui, come anche nel caso attuale della piccola Pippa Knight, altra vittima del potere sanitario, era stata negata la tracheostomia, un’operazione chirurgica che permette a un soggetto che presenta gravi patologie di respirare nuovamente o in modo corretto.

Va sottolineato però che al bimbo non venne fatta una diagnosi completa, in quanto l’ospedale aveva già deciso che era nel suo miglior interesse rimuovere la ventilazione, lasciando il bambino “morire in un modo pacifico e dignitoso” (sic!).

Contrariamente a quanto detto dai medici, Alfie, nonostante la gravità del suo stato di salute e delle cure non somministrate correttamente, ha continuato a vivere per ancora un anno, fino a quando l’ospedale rivolgendosi alla Corte, ha decretato che doveva essere lasciato morire staccando tutti i sostegni.

L’ospedale inoltre non ha seguito tutte le procedure previste, in quanto prima di ricorrere alla Corte è necessaria la mediazione per tentare di redimere il conflitto tra le due parti, attraverso l’utilizzo di tutti i mezzi a disposizione.

L’Alder Hey Children’s Hospital non ha proceduto secondo quanto detto, ma ha incolpato i genitori di aver fallito nella mediazione, mentre era l’ospedale stesso ad aver scelto come mediatore un attivista membro di un’organizzazione a favore dell’eutanasia, quella falsa “dolce e pacifica morte” cui miravano fin dall’inizio per Alfie.

Una storia intrisa di errori voluti e fatti poco chiari su cui l’ospedale ha portato avanti la sua battaglia contro la vita innocente. Una convinzione a dir poco diabolica per l’odio che ha caratterizzato tutta la vicenda di cui ha parlato il mondo intero.

Ma a far riflettere sono le parole utilizzate da Anthony Hayden, giudice dell’Alta Corte, il quale il giorno 20 febbraio 2018 autorizzò il distacco del supporto che aiutava il piccolo Alfie a rimanere in vita, affermando che il bimbo aveva bisogno di pace, quiete e privacy, in modo che potesse “concludere la sua vita come l’ha vissuta, con dignità”.

E proprio il termine “dignità” deve saltare agli occhi del caso Alfie Evans, in quanto da parte del nosocomio e della Corte, essa non gli è mai stata riconosciuta se non a parole. Infatti la dignità che ha ogni persona e che caratterizza la vita umana dal concepimento fino alla morte naturale, non consiste certamente nel maltrattare un innocente e privarlo della vita stessa.

A dimostrarlo sono le testimonianze dei genitori, ma per chi ancora avesse dei dubbi vi sono fotografie scattate e condivise dal papà di Alfie, Thomas Evans.

Oltre ai tubi per la ventilazione per mesi mai cambiati e trovati con la muffa, a indignare sono le foto che dimostrano il modo con cui il piccolo veniva trattato dal personale dell’ospedale.

Le poche volte che i genitori lo hanno dovuto lasciare solo in ospedale per seguire il caso legale, lo hanno poi ritrovato bagnato, con bruciature sul braccio, saliva e sangue alla bocca e ferite dentro al labbro.

Il papà aveva riportato che dopo aver chiesto spiegazioni del sangue e delle bruciature, non gli era stata data alcuna risposta, mentre da parte del personale sanitario non vi fu nessun interessamento sulla vicenda. “Non sappiamo nemmeno come gliele hanno procurate”, affermò Thomas pieno di dolore.

Questo per l’ospedale e i giudici sarebbe la dignità con cui doveva morire Alfie?

Eppure riuscirono nel loro intento, quello che tanti considerano la scelta giusta, ovvero eliminare i più deboli con la scusa dell’accanimento terapeutico, quando tutti i medici sanno che è loro dovere provvedere a tutte le cure necessarie per preservare la vita fino alla sua morte naturale.

Alfie venne dipinto come un essere privo ormai di qualsiasi capacità cognitiva, considerato indegno di vivere e già ritenuto morto ancora prima dell’iniqua sentenza.

Sul protocollo di morte di Alfie si leggono i vari passaggi che dovevano essere svolti per procedere al distacco di tutti i macchinari che lo sostenevano in vita. Una morte che come ben si evince, gli fu procurata da un sistema pregno di una cultura malthusiana che odia la vita e che considera la malattia come la normale e giusta selezione della popolazione.

Sono da rileggere alcuni stralci di quello che prevedeva il protocollo: “Tutti i monitoraggi del battito cardiaco di Alfie e della sua respirazione saranno disconnessi. Il tubo del respiratore sarà disconnesso dal ventilatore e verrà rimosso. Da quel momento lo staff medico continuerà ad osservare la situazione di Alfie e il livello di conforto e ad attendere ai suoi bisogni e a quelli della sua famiglia, con discrezione, ma pronto a fornire con sollecitudine supporto e conforto.

Una volta che tutti i segni di vita esterni siano cessati, un dottore esperto esaminerà fisicamente Alfie per constatarne la morte e trascrivere l’ora del decesso. Dopo che la morte sarà stata confermata la famiglia potrà lavarlo, vestirlo e passare del tempo con lui, prima di trasferirlo in una camera apposita dove tutta la famiglia potrà avere accesso. Il dottore che avrà confermato la morte di Alfie dovrà contattare il medico legale per tutti gli adempimenti connessi al rilascio del certificato di morte”.

Da sottolineare l’ipocrisia di tale documento, in cui il personale sanitario avrebbe dovuto fornire conforto e attendere ai bisogni della famiglia, quando dallo stesso staff Alfie veniva lasciato salivare sangue senza alcun intervento.

Come si può leggere, al bambino è stato tolto il diritto alla Vita, il primo di tutti i diritti senza il quale nessun altro può avere valore. E tale violazione ha portato ad uccidere senza altre possibilità il piccolo Alfie e ad attendere la sua morte, ma non la morte naturale, bensì la morte procurata come ben afferma il protocollo.

L’ospedale e l’organo giudiziario hanno ritenuto di essere i soli a decidere sulla sua vita, non permettendo neanche ai genitori di trasferirlo in un altro ospedale che potesse continuare le cure necessarie.

E invece il piccolo “gladiatore”, come lo chiamava suo papà, ha dato la più grande dimostrazione di quanto la vita sia infinitamente importante e sacra.

Alfie ha vissuto quattro giorni senza ventilatore e senza essere “svezzato”, lasciando così che un’infezione polmonare lo aggravasse maggiormente. Eppure ha resistito fino a quando non gli vennero somministrati dei farmaci ad insaputa dei genitori, per gridare al mondo intero che la Vita è sacra e non ci appartiene, ma che solo Dio può stabilirne l’inizio e la fine naturale.

La vita del piccolo Alfie ha cambiato il mondo perché ha dato l’esempio più grande sacrificandosi per la vera libertà, quella che ancora oggi viene privata a tanti piccoli come lui, come è accaduto per Charlie Gard, Isaiah Haastrup, Pippa Knight e tanti altri bimbi vittime di un sistema che promuove l’eliminazione dei deboli.

La sofferenza può trovare un senso solo nella croce, come ci ha dimostrato Gesù Cristo che è morto per la nostra salvezza e libertà dal peccato. Così i piccoli come Alfie hanno offerto la loro vita a Dio per la nostra conversione, perché con il loro esempio possiamo intraprendere con coraggio la battaglia per la Vita e contro la sempre più dilagante cultura della morte che considera la persona completamente priva della propria dignità.

Perché si possa parlare di dignità della persona e perché questa torni ad essere al centro dei programmi sociali, scientifici e culturali, “è essenziale […] che l’uomo riconosca l’originaria evidenza della sua condizione di creatura, che riceve da Dio l’essere e la vita come un dono e un compito: solo ammettendo questa sua nativa dipendenza nell’essere, l’uomo può realizzare in pienezza la sua vita e la sua libertà e insieme rispettare fino in fondo la vita e la libertà di ogni altra persona” (Enciclica Evangelium Vitae).

Sull’esempio del piccolo “gladiatore”, portiamo avanti la nostra battaglia in difesa della Vita in ogni suo stadio, senza paura e sollecitando l’intervento delle istituzioni civili ed ecclesiastiche.

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