Il rapper Martin Basile: “anche nella musica bisogna ripartire dalle basi: i classici latini”

MARTIN BASILE, RAPPER GENOVESE IN ATTIVITÀ DAL 2007, È FRA I PIÙ ORIGINALI CANTANTI ITALIANI CONTEMPORANEI DI QUESTO GENERE MUSICALE. CLASSE 1992, SCRIVE E PRESENTA DAL VIVO TESTI IN RIMA RIGOROSAMENTE ITALIANI E INFARCITI DI CITAZIONI COLTE E LATINE, PROVENIENTI DA AUTORI CLASSICI

Di Giuseppe Brienza

In controtendenza con la maggioranza degli altri rapper o, meglio, trapper (l’attuale involuzione/degenerazione del rap) italiani, il genovese Martin Basile coniuga ritmi coinvolgenti e adatti ai giovani con testi conditi da un’ironia intelligente, non di rado purtroppo impoverita da riferimenti sessuali espliciti, ma che alla fine veicola valori, identità e cultura (anche linguistica). Lo abbiamo intervistato in esclusiva per inFormazione Cattolica.

Perché hai deciso nei tuoi testi di parlare dell’Italia come patria di cultura e di latinitas?

Appartengo ad una delle prime generazioni che hanno la possibilità di sviluppare le proprie attitudini e costituire la propria cultura in modo così autonomo e personalizzato. Oggi se vuoi imparare a sostituire una lampadina non hai scuse: hai a disposizione infiniti strumenti e forme per imparare. Lo stesso vale per le aree più complesse dello scibile umano. Basta avere un minimo di intraprendenza. Tutto questo, a mio avviso, è uno dei doni più preziosi e disinteressati che l’umanità ha imparato a fare a sé stessa. E ci ricorda ogni giorno quanto l’unica condizione necessaria e sufficiente del progresso sia potere riporre la propria fiducia in un altro essere umano.

 Naturalmente c’è il rovescio della medaglia: la maggioranza delle persone è ancora troppo pigra per approfittare di questa fortuna. Credo che la storia del rap italiano sia imbevuta di questa pigrizia. Tendenzialmente i rapper italiani hanno sempre imitato, senza capirne davvero i contenuti, una forma espressiva che già di per sé aveva origini povere e, quindi, radici relativamente giovani. Innestarla nella cultura italiana, dalla tradizione ricchissima, avrebbe potuto dare risultati grandiosi. Invece è stato fatto in modo ridicolo. I rapper e i trapper scrivono stupidaggini credendo di essere provocatori, originali e interessanti, solo perché sono troppo ignoranti per accorgersi di essere indietro di decenni. Per questo ho pensato di ripartire proprio dalle basi: i classici latini.

Come hai vissuto il Dantedì del 25 marzo scorso? Dedicherai qualche citazione a questa prima Giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, un piccolo passo avanti nel recupero delle nostre radici linguistiche e letterarie?

Dobbiamo a Dante Alighieri la lingua che parliamo tutti i giorni, e non tanto per dire. Dante ha preso un insieme di parlate regionali, le ha combinate e ha aggiunto di suo pugno tutte le parole che mancavano per poter parlare degli argomenti più disparati. E se è vero che pensiamo come parliamo (basti ricordare il classico esempio degli eschimesi che hanno 50 parole per identificare i diversi tipi di neve), il modo in cui in Italia si pensa dipende in buona parte anche da lui. E non solo: per secoli l’Italiano è stato considerato da tutto il mondo la lingua più adatta alla poesia. Detto ciò, in realtà io sono più fan di Petrarca.

Hai scritto che nel periodo storico che stiamo vivendo «sonetti e distici elegiaci hanno lasciato il passo alla trap e all’indie». Ci puoi spiegare?

Le forme si evolvono. Può sembrare una lamentela, ma in realtà è un fatto del tutto inevitabile e, aggiungerei, positivo. Opporsi al cambiamento è opporsi alla vita, ed è una prerogativa di alcuni gravi disturbi della personalità, clinicamente riconosciuti. Nessuno, per fortuna, ha il controllo sul mondo circostante e quindi bisogna accettare che le cose cambiano, mutano, evolvono.

Ci puoi fare alcuni nomi del rap, dell’hip hop o del panorama musicale contemporaneo cui ti sei particolarmente ispirato?

La mia ispirazione principale è, da tempo immemore, Dargen D’Amico. Credo che con i suoi primi album sia stato capace di superare qualsiasi stereotipo e scrivere delle canzoni davvero intelligenti, divertenti e profonde allo stesso tempo. Quello che sento mancare nei pochi rapper che oggi tentano di scrivere cose intelligenti è che, a differenza sua, sono noiosi.

Hai un rapporto personale o riservi qualche posto nella tua musica alla Fede o alla figura di Gesù Cristo?

Personalmente considero qualsiasi religione un insieme di precetti filosofici raccontati più o meno sotto forma di storie. Fatta questa premessa, ci sono alcuni tratti della filosofia di Gesù Cristo con cui non posso che concordare. In particolare, ho sempre applicato il principio del porgere l’altra guancia e lo trovo molto frainteso. A scuola, all’ora di religione, veniva raccontato in un modo che sembrava stupido, quasi masochista. Per me porgere l’altra guancia non significa subire passivamente le cattiverie e la violenza altrui, ma avere la consapevolezza che l’unico modo per migliorare la convivenza civile è fare capire al prossimo che insieme si può collaborare, invece di scontrarsi. Spesso invece che cercare un punto di contatto, le persone reagiscono rispondendo al fuoco o, ancor peggio, usando la violenza per primi, per paura di essere presi di sorpresa. L’unico modo per prevenire la violenza è proprio superare quella paura. Devo dire che molti personaggi storici, così come di attualità, pur dicendosi cristiani, hanno avuto proprio questo atteggiamento di violenza preventiva, soprattutto verso il “diverso”.

Ci incuriosisce “Kalokagathia”, titolo del tuo doppio EP del 2014. Cos’è, cosa significa?

La kalokagathia era l’ideale di perfezione umana per gli antichi greci. È riscontrabile nei poemi omerici, in cui tutti i personaggi belli sono anche buoni, mentre i malvagi sono brutti. In una certa misura è un concetto sopravvissuto fino ai giorni d’oggi e, addirittura, insito indissolubilmente nella natura umana. Degli studi hanno dimostrato, ad esempio, che le persone di bell’aspetto tendono ad avere condanne meno severe in caso di processi penali. Io intendo la kalokagathia in un senso diverso, però. Innanzitutto, per mia indole ho sempre inteso l’etica come una categoria estetica. Sostanzialmente non scelgo di comportarmi in un determinato modo per motivi utilitaristici o nemmeno, al contrario, seguendo una serie di precetti morali che credo veri sempre. Il mio agire è spesso dettato da motivazioni di natura estetica: è bello, quello che voglio fare? Chiaramente qua si dovrebbe aprire una parentesi su che cosa è il Bello. Ma per farla molto breve, per me un comportamento bello è un comportamento di cui essere orgoglioso, dettato dalla propria personalissima individualità. Mentre talvolta trovo da evitare un comportamento che aderisce superficialmente a dei precetti condivisi, ma applicati ciecamente.

Come ti ha trattato e ti tratta la critica?

Leggo di rado delle reali opinioni su quello che scrivo. Più spesso mi imbatto in commenti sul mio personaggio, da chi più o meno lo ha capito. Mi rendo conto che spesso è difficile comprendere l’ironia insita nelle mie canzoni, visto che fa riferimento a due universi distanti tra loro. Pochi hanno una conoscenza approfondita di entrambi. E quindi spesso chi conosce il mondo del rap non possiede gli strumenti linguistici o filosofici per capire che la mia è una critica a quel mondo. Allo stesso modo, chi proviene da un universo più intellettuale non sa cogliere i topos e gli stereotipi del rap, che mi diverto a decontestualizzare.

Hai scritto che il nostro pianeta sta attraversando «un periodo di decadenza», è una frase metaforica o lo pensi davvero?

A dire il vero, era una battuta. Sono profondamente convinto che l’umanità stia facendo grandi passi avanti. Sia sul piano tecnologico che, un po’ più lentamente, su quello della consapevolezza. Purtroppo, dal secondo mi aspetterei un po’ più di solerzia. Ma ok, pazienterò.

Ci puoi parlare della tua partecipazione con il grande poeta cristiano Davide Rondoni al Festival internazionale della poesia?

L’occasione di presentare una canzone rap in un contesto del genere è stata un onore. Sento che finalmente si sta facendo qualche passo nel riconoscere alla forma della canzone rap la dignità letteraria che merita. Tra l’altro il festival internazionale della poesia è un contesto a cui sono particolarmente affezionato, perché anni prima, ha ospitato un concerto del grande Dargen D’Amico che ricordo con grande emozione. Tra gli altri esponenti della cultura hip hop che ci sono passati c’è anche il mio amico Amir Issaa, impegnato particolarmente nella dimensione educativa ed inclusiva del rap. Davvero una bella iniziativa!

Cosa ci puoi dire riguardo alla interdizione governativa che ancora irragionevolmente perdurerà fino a giugno sulle attività artistico/musicali?

Dubito di parlare a nome di altri, ma nel mio caso un periodo di ritiro e riflessione è stato positivo. Ho preso questa situazione come uno stimolo per studiare di più e sviluppare nuovi progetti. Non nego che però ci sono stati momenti in cui sarebbe stato facile perdersi d’animo. La cultura in linea di massima non è mai considerata quanto dovrebbe né dalla politica, né dalla gente comune. Questo periodo ha messo a repentaglio le occasioni di condivisione culturale per molti. Comunque nulla è compromesso.

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