Nessuno ha saputo parlare della morte come Giacomo Leopardi

Nessuno ha saputo parlare della morte come Giacomo Leopardi

GIACOMO LEOPARDI E L’ESPERIENZA DEL NULLA

A cura di Francesco Bellanti

 

Il Coro di morti nello studio di Federico Ruysch

Sola nel mondo eterna, a cui si volve
Ogni creata cosa,
In te, morte, si posa
Nostra ignuda natura;
Lieta no, ma sicura
Dall’antico dolor. Profonda notte
Nella confusa mente
Il pensier grave oscura;
Alla speme, al desio, l’arido spirto
Lena mancar si sente:
Così d’affanno e di temenza è sciolto,
E l’età vote e lente
Senza tedio consuma.
Vivemmo: e qual di paurosa larva,
E di sudato sogno,
A lattante fanciullo erra nell’alma
Confusa ricordanza:
Tal memoria n’avanza
Del viver nostro: ma da tema è lunge
Il rimembrar. Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
Che di vita ebbe nome?
Cosa arcana e stupenda
Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
Qual de’ vivi al pensiero
L’ignota morte appar. Come da morte
Vivendo rifuggia, così rifugge
Dalla fiamma vitale
Nostra ignuda natura;
Lieta no ma sicura;
Però ch’esser beato
Nega ai mortali e negaa’ morti il fato.

Nessuno, come nel Coro di morti nello studio di Federico Ruysch, inserito nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, ha saputo parlare della morte come Giacomo Leopardi.

Il poeta della vita e della giovinezza, della rimembranza e dell’infinito, sicuramente deve essere stato aiutato dal tempo e dallo spazio, perché Recanati in quegli anni era – così diceva spesso il poeta – qualcosa che si avvicinava più alla morte che alla vita, anche se, sembra una contraddizione ma non lo è, tutto ciò che si avvicina alla morte si avvicina alla vita.

Nessuno, infatti, come le mummie di questo Coro altissimo, ha saputo parlare meglio della vita. Ora, torniamo a Recanati, e immaginiamo la vita di Leopardi nel suo “natio borgo selvaggio”. Doveva essere un tempo senza tempo, quello di Recanati, qualcosa al di sopra del tempo, uno spazio indistinto. Quei pomeriggi silenziosi, sereni, quelle notti in cui solo ogni tanto rimbombava da lontano un canto per i sentieri solitari.

Ecco, lui ha cercato di porsi al di sopra del tempo, di elevarsi al di sopra dello spazio. Per un breve momento, con questo Coro, gli è capitata sicuramente la ventura di andare sempre più in alto, fino a vedere il formicolio indistinto degli uomini che con velocità siderale si incrociavano e si allontanavano; ha visto i morti dentro i sepolcri, ha contemplato tutte le epoche passate e future come in un sogno anche se fugace. Ha visto la Terra nello spazio lontana: solo così si può vedere il senso della vita e della morte.

Noi sovente pensiamo alla morte come a uno spirito, un’immagine evanescente, inafferrabile, un fantasma d’aria e di luce, un’ombra, come uno spettro inconsistente, un fumo, un sogno o un bagliore, una nebbia riempita di vuoto o un vuoto riempito di nebbia. Insomma, pensiamo alla morte come un vuoto che però ha una vaga ricordanza e una sostanza, magari senza più passione e coscienza, senza luce, tuttavia qualcosa che fugge e non sta mai ferma, senza voce, che emana forse un sibilo lontano, indistinto, come quello dei vampiri. I morti a cui pensiamo sono qualcosa di simile, forse, alle larve omeriche che hanno ancora un desiderio di vita. I nostri morti sono ancora troppo attaccati alla vita.

I morti di Leopardi, invece, conoscono il tempo ma lo consumano, non lo vivono, e non hanno desiderio di tornare a vivere. I suoi morti non hanno nessuna nostalgia, nessun rimpianto, perché ormai l’esistenza non può più lambirli. Non sanno più che cosa sia realmente la vita.

Nella morte non c’è nulla di vivo, c’è solo un eterno torpore, nulla che porti dolore, solo un languore infinito che lentamente decade nel sonno, nelle tenebre dove degrada l’indifferenza del sonno eterno. La morte governa l’intero universo, è il suo segno distintivo, questo ci dice Leopardi. L’essere delle cose ha come suo unico fine la morte. Tutto nel cosmo si affretta verso la morte, tutto corre rapido verso la fine. Ma quello che i viventi chiamano caos e distruzione in realtà è ordine e vita, trasformazione. Tutto quello che è processo di decadimento, distruzione e annichilimento, è la legge universale dell’eterna palingenesi cosmica. La morte è la quiete altissima che riempie lo spazio immenso dell’universo, ma è anche l’eterno mutamento senza voce e senza luce.

Solo così è stato possibile per Leopardi in questo Coro dare voce ai morti. Egli lo aveva detto nel suo “Parini”: i grandi scrittori hanno per destino di condurre una vita simile alla morte. Egli ha potuto cantare la morte e fare parlare i morti perché era, come dicevamo, come un morto a Recanati. Il giovane Leopardi era come una fantasima astrale, una larva, come quelle che cantano la canzone; egli non viveva, consumava l’esistenza, non aveva fiamma vitale o speranza o desiderio o piacere o affanno o gioia. La vita per lui era già un punto acerbo lontano, una cosa arcana stupenda. Leopardi faceva parte dei morti, non aveva più desiderio, nemmeno della morte.

Non provava più nemmeno il tedio, perché il tedio appartiene ai vivi ed egli apparteneva ormai alla immensa, silenziosa, moltitudine dei morti. Il Coro leopardiano scaturisce da questa immersione nell’“altro” da cui solo è possibile il miracolo della conoscenza. Il Coro, per questo motivo, è la prova più alta della sua poesia e di tutta la poesia moderna. La sua grandezza è nel ritmo desolato e nudo, nell’atmosfera rarefatta e metafisica. Il canto è impersonale e piatto, indeterminato, vago, senza emozione. È il canto dell’inessenza, pacato, dal ritmo lento, è un coro altissimo e sgomento dove le parole senza emozioni sembrano appena increspare la superficie del silenzio e del nulla.

Che cosa è accaduto? In tutti i cimiteri del mondo, in tutti i sepolcri, in tutti i luoghi dell’universo, in fondo al mare, sotto la neve e la sabbia, a cielo aperto, il tempo si ferma e per un quarto d’ora i morti cantano una canzoncina. È un inno laico, ateo, ma come una preghiera, una litania. I morti cantano l’unica cosa eterna, la morte. Sono parole di una folla anonima in tutti gli angoli della Terra, parole di una moltitudine senza volto e senza nome, senza vincoli di affetto e di sentimento. I morti cantano la morte. La morte è al centro dell’universo e tutte le cose create girano attorno a lei, la morte è il principio e la fine, il destino dell’universo. Eppure, tutte le parole dei morti messe assieme sembrano provenire da remote lontananze, si quietano in un debolissimo sussurro, una cantilena quasi impercettibile, prima di sprofondare di nuovo nella grande notte. Questo andamento cantilenante, questo ritmo lento e martellante, è l’ineffabile, l’indicibile, l’inimmaginabile che diventa determinatezza e poesia. Un miracolo.

Questo Coro è la prova più alta della poesia di Giacomo Leopardi, questo incedere solenne di endecasillabi e di settenari, in una stanza libera, sono voci che sembrano provenire dagli oscuri recessi del cosmo, da antri misteriosi e lontani, dagli abissi del tempo, dalle profondità sconfinate, voci silenziose e desolate in cui sono spenti tutti i sogni.

Leopardi è il primo poeta moderno che ha detto che cosa è realmente la morte. Ci sono poeti, come Dante Alighieri e John Milton, che si sono creati mondi immaginari oltre la vita per insegnarci un percorso o una morale religiosa, ma non sono entrati dentro la pura essenza della morte come ha fatto Leopardi. Leopardi, infatti, ha saputo esprimere la condizione di pura indifferenza, di assoluta impassibilità verso cui ci spinge un universo privo di qualsiasi significato.

Le mummie diventano il simbolo dell’indifferenza che sommergerà i vivi, e, dopo l’inaridirsi e lo spegnersi di ogni illusione, rappresentano il sentimento del nulla. Le mummie sono la morte, cantano la non vita, il tempo spogliato di qualsiasi attesa, di ogni gioia, di ogni speranza, di ogni felicità o dolore. Cantano il nulla, perché questa è la morte, il puro, incontaminato nulla, il puro, incontaminato esistere senza mutamento, il perpetuarsi dell’esistere senza spazio e senza tempo, il rifluire per l’eternità nel ritmo impassibile dell’universo. I morti di Leopardi esprimono l’angosciosa e arcana fissità del niente, l’immutabilità del non essere. La morte è un ineluttabile scivolare nel non essere, un cadere in un sonno profondissimo ed eterno. Questa è allora la ignuda natura: l’esistenza priva di movimento, di vita, l’esistenza ridotta a un essere statico, senza più passione o mutamento, senza sentimento, rifluita nella durata indifferente dell’universo. La morte è l’esistere spogliato di ogni speranza, di ogni sogno, di ogni dolore, di ogni attesa; il puro esistere senza tempo e mutamento, l’assenza suprema e il non essere, privo di suoni e di colori, privo di immagini, il mistero imperscrutabile del nulla.

Nella morte dilegua e trova una pace spenta il nudo indifferente esistere dei morti come parte della materia universale. La nuda natura della morte è questo, è la profonda notte in cui l’arido spirito non ha speranza e desiderio, ed è sciolto dalla paura e dall’affanno. I morti consumano le età vuote e lente di un tempo senza tempo, senza rilievo umano: quello dell’astratta durata cosmica.

Poi, però, all’improvviso i morti hanno un debole ricordo che sembra scuotere la loro indifferenza: vivemmo. Forse è la confusa ricordanza che rimane nei singoli oggetti delle vite precedenti, secondo taluni sensisti, in quanto sono composti, questi oggetti, di particelle di altri oggetti assunti, come essi, nella perpetua metamorfosi di tutte le cose. È l’unico senso che può avere la vita oltre la morte, come di un torpore in cui palpita una residua vibrazione di sensibilità, il senso di un barlume di vita lontana di un tempo remoto che sembra opporsi all’incantata fissità dell’eterno. Ma più che una memoria, è questo il senso di un dileguare, il prolungarsi dell’attimo della loro morte. In questa lirica Leopardi ha voluto cantare non soltanto la morte che conclude il vivere, ma anche quella consustanziata ad esso: continuano nei morti la frustrazione e lo stato d’insensibilità che conseguono al tramonto delle illusioni.

Leopardi è la voce del nulla che rivela attraverso i morti la condizione stessa del vivere, il mistero incomprensibile e assurdo che egli vede dentro di essa. Come per i viventi è la morte un dolore incomprensibile, un incubo spaventoso, allo stesso modo per i morti è la vita a essere un punto acerbo che interrompe – atroce e provvisorio – la quiete eterna del nulla; la vita è una cosa arcana e stupenda, cioè paurosa, nel senso che dà uno stupore sbigottito. Leopardi ha cercato di vedere la vita dal punto di vista della morte. E che cos’è la vita? È, lo abbiamo detto, una lieve increspatura del nulla. È un punto acerbo, la vita, doloroso, ma lontano, molto lontano, un sussurro impercettibile, una sospensione provvisoria e precaria di una condizione eterna di non esistenza, di nullità e di quiete.

Certo, a noi piace pensare alla vita come a una pura, vaporosa, fantasima astrale che vaga di mondo in mondo, di tempo in tempo, sola e sperduta nell’universo. Che, nell’eterno ciclo della trasformazione dell’universo, prima o poi ritorna. Ma questa è pura immaginazione, ci dice Leopardi, è l’immaginazione che rende felici. Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni e e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita. È Shakespeare. Tutta la vita è un sogno, è detto anche in Pedro Calderón de la Barca. Qui i morti dicono che la vita è una cosa arcana e stupenda, una confusa ricordanza di una paurosa larva e un sudato sogno, come quello di un lattante, questo è il ricordo che i morti hanno della vita. I morti rifuggono dal pensiero della vita come i vivi rifuggono dal pensiero della morte. Ma il rimembrare è lontano dal timore, la ignuda natura dei morti è sicura, al riparo dall’antico dolore, se non lieta, perché il fato nega la felicità a tutti, morti e mortali.

La morte è l’unica cosa eterna e reale, in un universo destinato alla distruzione e che nell’eterno processo di distruzione e di ricreazione trova il suo ritmo. È questa la condizione del suo esistere, in cui si consumano sempre in modo incessante il nascere e il morire. La vita appare allora una cosa arcana, una parvenza assurda e lontana, un sudato sogno, un sogno fugace. Il nascere e il morire non sono un destino, non sono una necessità dell’universo. Finora noi abbiamo parlato di morte. Ma il morire implica il nascere, il vivere. E la vita è solo un accidente del nulla.

Il nulla. Leopardi con questo Coro non ci parla solo del nulla, ci insegna anche l’esperienza del nulla. Leopardi non è un mistico indiano o un avatara o un Buddha. Tuttavia, egli ci dice con estrema chiarezza che la comprensione del nulla e l’esperienza del nulla sono due cose diverse. L’esperienza del nulla, in realtà, non è qualcosa che si insegna, è qualcosa che uno apprende da sé. Però, per tuffarsi nell’esperienza del nulla, si deve prima comprendere il nulla. E allora, per prima cosa, egli ci dice, i più grandi filosofi e mistici sono i poeti, perché solo i poeti hanno l’immaginazione per potere pensare il nulla. Solo i poeti hanno il canto per potere cantare il nulla. I mistici e i filosofi non comunicano l’esperienza del nulla. Non hanno voce. Solo i poeti cantano il nulla. Solo il genio canta il nulla, solo il genio lo comprende. Solo i poeti possono cantare il nulla, perché solo i poeti hanno l’immaginazione e la voce per potere trasformare quello che sembra impossibile, assurdo e fantastico, nel nulla dei morti che parlano ed esprimono la nullità del tutto. Solo l’alta fantasia e la poesia dei poeti possono cantare ciò che appare assurdo e inconcepibile, perché l’anima riceve vita, anche se passeggera, dalla stessa forza con cui essa sente la morte eterna di ogni cosa e di sé stessa.

Perché nel Coro dei morti, i morti in realtà non cantano perché sono diventati nulla, è il genio che canta perché solo lui vede la verità. Il genio diventa un morto e parla per i morti, perché i morti non hanno niente da dirsi. Il genio dà voce ai morti. Egli dà loro voce e li risveglia, tenta di esprimere il loro punto di vista di annientati. Il punto di vista del nulla. Il canto del genio che vuole cantare il nulla è un canto di morti. I morti cantano nel canto del genio. Possono parlare in quanto hanno voce nel canto del genio. Il loro canto penetra in ciò che appare assurdo e va oltre il limite umano, perché solo il canto del genio è il canto della verità. Il genio si pone anche se in modo provvisorio al di fuori del niente, solo così può esprimere il niente. Perché solo il genio – nel momento più alto della sua immaginazione e della potenza del suo canto – può giungere alle estreme vicinanze del niente.

Il genio, solo al culmine della sua sapienza, in un istante fugace, giunge alle estreme vicinanze del nulla e vede al di là di ogni illusione la verità, cioè la nullità di tutte le cose, e con la straordinaria potenza del suo canto canta l’infinita vanità del tutto, la nullità eterna e infinita di tutte le cose, la provvisorietà di tutte le esperienze e di tutti i fenomeni, e dunque della forza del suo stesso genio che gli consente di vedere la nullità del tutto. Per la prima volta nella storia dell’umanità, un uomo, un poeta, un genio, si è trasformato in un morto e come morto ha parlato della morte. Il genio è Giacomo Leopardi.

Ma la morte, il nulla, sono solo gli annientati o anche i non nati? Il male più grande è essere nati, dice Leopardi. Il non essere, il niente dei non nati, è il bene maggiore. Tuttavia, anche i non nati consumano le età vuote e lente, e la loro ignuda natura non è lieta ma sicura. Anche per i non nati la vita è una cosa arcana e stupenda, perché la vita non è un destino, nulla necessariamente vi conduce, nulla la fa pensare o la aspetta, nulla la prepara o la inventa. Anche i non nati – cioè i morti che non sono ancora nati – vedono la vita come un punto acerbo lontano, vogliono rifuggire dalla fiamma della vita come i viventi rifuggono dalla morte. Ignota è la vita per i morti come ignota è la morte per i viventi. Il punto di vista dei non nati è identico dunque a quello degli annientati. I non nati e gli annientati non differiscono perché niente si indirizza per necessità verso l’essere e niente impedisce a qualcosa di esistere.

La vita non è un destino. Il meccanismo infernale di creazione e distruzione dell’universo non ha come suo scopo la vita. La natura opera al di là del bene e del male. L’unico suo scopo è la conservazione di sé stessa. La vita non è una necessità ma un caso. Che l’essere giunga in mezzo al nulla è un puro caso. La vita è il caso che accade in mezzo al nulla. L’esistenza è l’incontro casuale del nulla con le cose. La creazione è questo incontro, un sorgere nel niente. Il nulla che incontra le cose è la materia, lo spazio e il vuoto galattico, la forza immane che crea astri e pianeti e galassie e mondi infiniti e governa l’eterno processo di creazione e di distruzione dell’intero universo. Perciò, come solo la materia è eterna e infinita, allo stesso modo il nulla della morte è eterno e infinito.

Certo, a noi piace pensare che la possibilità dell’essere, cioè della vita, il suo sorgere nel nulla, è anch’esso un processo infinito ed eterno. Vogliamo dire che la vita è eternamente possibile. Come è possibile che in una durata eterna e infinita possa ripresentarsi nelle stesse condizioni. In realtà, dice Leopardi, l’eterno ritorno è una bella favola, un’illusione. La vita invero è solo un punto nello spazio sterminato e infinito del nulla. Cosa arcana è la vita, senza spiegazione e ragione alcuna, non c’è niente che giustifichi l’esistenza. La vita è un mistero, un mistero eterno. Il sorgere dell’esistenza in mezzo al nulla è senza necessità. La vita è il non nulla, la negazione del niente che esce in modo provvisorio, per puro caso e accidente, dal nulla. La vita non è dunque una vittoria dell’essere sul nulla, ma un miracolo, un miracolo precario e casuale dell’essere da parte del nulla. Un oceano di nulla è prima della vita, un oceano di nulla segue la vita, in mezzo a questo sconfinato oceano di nulla sorge, accade l’esistenza.

Solo il nulla allora è eterno e infinito. Il nulla della morte. La morte. Solo la morte è eterna e infinita. La morte si distende senza confini sul vuoto e sulla solitudine dei mondi, in tutti i più lontani recessi dell’universo. La condizione naturale di tutte le cose è il nulla. La vita, cioè questo agghiacciante, spaventoso mistero, questo arcano incomprensibile dell’esistenza universale, è quello che il nulla, per puro caso, incontra di diverso da sé. E però solo nella morte è svelato questo arcano. I morti si danno una risposta. La risposta è uno stupore, una domanda. I morti non si stupiscono del nulla e della morte, perché la nuda natura dei morti spogliata dell’esistenza è sicura. Lo stupore dei morti è per l’esserci delle cose, l’esserci della vita, del movimento vitale.

I morti, al di là dei sogni e delle illusioni, al di là del bene e del male, al di là della vita, nel momento più alto della loro sapienza, che è la sapienza del genio che dà loro voce, si domandano il perché dell’esistenza universale, del suo essere, di quel punto acerbo che di vita ebbe nome. Oh, povero nulla! Questo nulla che non trascina o esclude necessariamente la vita. Esposto sempre alla sia pure remota minaccia dell’accadimento dell’essere. Sì, con Leopardi abbiamo compreso il nulla. Anche se ragioniamo come certi filosofi moderni che, nel tempo del dominio della tecnica, cominciano ad avere la voce, come i poeti, per cantare l’esperienza del nulla. Sì, ora possiamo immergerci nell’esperienza del nulla. Dei poeti del nulla.

 

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