Gli splendori di Patmos: l’Apocalisse di San Giovanni, visione di un mondo giusto

Gli splendori di Patmos: l’Apocalisse di San Giovanni, visione di un mondo giusto

NELL’APOCALISSE DI SAN GIOVANNI LE VISIONI DEL TRONO REGALE, DEL SIGNORE DIO ONNIPOTENTE (“PANTOCRATOR”) E DELLA CORTE CELESTE (Ap 4,1-11) COSTITUISCONO ALTRETTANTE RAPPRESENTAZIONI DEL MISTERO DEL MONDO CHE VERRÀ

Di Sara Deodati

L’Apocalisse di Giovanni (dal greco apokálypsis, disvelamento, togliere ciò che copre) è indirizzata alle chiese dell’Asia Minore del I sec d.C. Dal testo emergono complessi conflitti derivanti dall’incontro-scontro all’interno delle comunità di giudei e greci che credono in Gesù, con riferimento soprattutto alla conservazione, evoluzione o “superamento” dell’originaria identità giudaica.

Nell’ambito della letteratura apocalittica, questo libro attribuito a san Giovanni si presenta come il racconto dello “svelamento” del mistero di Dio che interviene nella storia umana, al fine di rendere operante e portare a definitivo compimento, in Gesù, il suo disegno di salvezza. L’Apocalisse è quindi un insieme di visioni escatologiche, ricevute dall’evangelista Giovanni nell’isola di Patmos. Il grande annuncio del Cristo Risorto che ne consegue non consiste, però, in una descrizione minacciosa della fine catastrofica del mondo, bensì in un testo di consiglio, di ammonizione e di consolazione.

La struttura dell’Apocalisse sinteticamente si può dividere nelle seguenti tre sezioni:

  • le “cose che Giovanni ha visto” (cap. 1),
  • le “cose che sono” della situazione interna alla Chiesa (capp. 2-3)
  • le cose che “dovranno accadere presto” (i tre settenari), che annunciano una lettura della storia alla luce del piano di Dio che le organizza (capp. 4-22).

Con il capitolo 4 si apre il terzo grande segmento dell’Apocalisse. Se i primi tre capitoli hanno descritto la Chiesa al tempo degli Apostoli, da questo capitolo si considerano “le cose che devono avvenire in seguito”, con un netto stacco fra il capitolo 3 e il 4, poiché da questo punto in avanti non vi è più alcun riferimento nel testo alla Chiesa terrena. Una volta che i santi saranno rapiti in cielo il Signore tornerà a occuparsi del popolo di Israele e inizierà allora la tribolazione, ossia un periodo di sette anni in cui Cristo si occuperà del popolo giudeo in relazione al suo rifiuto del Messia: coloro che si rivolgeranno al Signore durante la tribolazione saranno salvati e accederanno al suo regno glorioso sulla terra, coloro che lo rifiuteranno saranno distrutti. Il cap. 4 porta proprio all’inizio della tribolazione, con Giovanni che fa guardare il mondo e la storia dalla prospettiva di Dio, nell’ambito di una prospettiva universale e cosmica. Nel cielo l’evangelista vede un trono che è il trono di Dio, visione che si arricchirà di un secondo elemento, il rotolo e l’apparizione dell’angelo banditore (5,1). Se finora la visione era ispirata a solennità e serenità, ora l’angelo che convoca da tutte le regioni chiunque sia incapace di aprire il libro e i suoi sigilli, apporta una drammatizzazione a tutta la scena.

Riguardo al genere letterario, l’Apocalisse appartiene al genere definito “apocalittico”, molto diffuso negli ambienti giudaici e cristiani, utilizzato per consolare i fedeli nei momenti di difficoltà, per spiegare loro il senso degli avvenimenti, infondendo speranza nel futuro.

La letteratura apocalittica è caratterizzata da due elementi fondamentali: il tema degli ultimi tempi, nei quali trionferà il bene e il male sarà distrutto e il ricorso a simbolismi dal regno animale, dall’astrologia e dal mondo dei numeri, finalizzati a descrivere la storia passata e presente, proiettandola all’attesa del compimento delle promesse dell’alleanza ed ai tempi della fine (escatologia).

In tutto il testo di Ap 4,1-11 i simboli sono moltissimi: dai ventiquattro Vegliardi ai quattro esseri Viventi, dal mare trasparente al trono, quest’ultimo il vocabolo più ripetuto che indica la potenza assoluta di Dio chiamato “colui che siede”.

Il capitolo 4 si concentra, come detto, sul simbolo del trono e presenta la scena della corte celeste a cui Giovanni viene ammesso. L’immagine che inaugura questa seconda parte è quella della porta, oltre la quale Giovanni vede e contempla il trono di Dio.

Nel v. 1 la voce che Giovanni sente gli suscita il desiderio di salire là da dove proviene, per avere conoscenza delle cose che devono accadere: è la voce di Cristo risorto e glorioso che lo invita ad ascendere verso il cielo per contemplare i decreti di Dio sul mondo. La frase «dopo di ciò vidi» introduce con una certa solennità la nuova visione: «ed ecco, una porta aperta nel cielo». Quest’ultima è da immaginare come una porta monumentale in quanto porta del mondo divino che rappresenta la possibilità di accedere alle realtà divine e alla gloria di Dio. Finalmente si può entrare in relazione con Dio stesso.

Nei vv. 2-3 lo Spirito Santo si impossessa di Giovanni in un modo speciale ed egli è subito in grado di vedere il Dio eterno seduto sul suo trono in maestà e splendore. L’espressione «subito fui rapito» indica sia la potenza della parola di Gesù sia la libertà spirituale di Giovanni che non si oppone al comando di Cristo. L’immagine del trono presente in questi versetti non è una immagine sconosciuta all’Antico Testamento che spesso parla del cielo come trono di Dio (Is 66,1) o del suo trono celeste (Sal 11,4).

Colui che sta seduto, dice Giovanni, è simile nell’aspetto alla pietra di diaspro e di sardio, con il trono è circonfuso di un’iride che richiama alla mente il verde smeraldo. Del Sovrano, dunque, ha scritto il biblista don Giancarlo Biguzzi (1941-2016), «non sono detti nome e identità ma la sessione maestosa sul trono e, attraverso la somiglianza con tre pietre preziose, ne è detto prima l’aspetto e poi il nimbo splendente» (Gli Splendori di Patmos. Commento breve all’Apocalisse, Edizioni Paoline, Milano 2007, pp. 54-55).

Appare evidente che il richiamo alle pietre preziose e al loro splendore rimandi alla muta e misteriosa bellezza della natura che, a sua volta, seppure non adeguatamente, esprime l’indicibile magnificenza del Creatore.

 A sua volta l’arcobaleno, che è segno del patto tra Dio e l’uomo, ne riflette la bontà e, allo stesso tempo, l’armonia della creazione. Il colore smeraldo dell’arcobaleno simboleggia la pace e il congiungimento tra il piano fisico e quello spirituale.

Nel v. 4 sono citati i ventiquattro Vegliardi (presbyteros, termine greco che indica una funzione ecclesiale e non l’età), personaggi di non facile identificazione, individuati talvolta con figure celesti (angeli o stelle) o con uomini glorificati (dodici patriarchi e dodici apostoli). Le vesti bianche e le corone d’oro che li caratterizzano manifestano la loro dignità di santi che sono stati giudicati e ricompensati da Dio.

Nel v. 5 la visione che vede l’uscita dal trono di «lampi, voci e tuoni; ardevano davanti al trono sette fiaccole accese, che sono i sette spiriti di Dio» ricorda la Teofania del Sinai (Es 19,16). La tempesta è simbolo della potenza e della maestà di Dio che rivela e dispiega la sua azione salvifica. Le sette fiaccole rappresentano i «sette spiriti» che indicano la potenza di Dio, la sua onniscienza e intervento negli avvenimenti della storia.

Nel v. 6 subentra un nuovo elemento simbolico, il mare che, mentre di solito nella Bibbia rappresenta il male, qui si presenta limpido come il cristallo inteso come allusione al dominio assoluto di Dio su tutte le potenze del mondo. La presenza dei quattro esseri Viventi attorno al trono non è di facile spiegazione. Essi sono identificabili tanto come esseri angelici, quanto con gli stessi evangelisti o, persino, possono rappresentare autentici simboli o schemi da riempire, alla stregua ad esempio della natura, quale universo creato e retto da Dio nella sua molteplice varietà.

La descrizione del v. 7 corrisponde al modo in cui Cristo è presentato nei Vangeli. Sant’Ireneo vede nei quattro animali i simboli dei quattro evangelisti (uomo-Matteo; aquila-Marco; toro-Luca; leone-Giovanni) ma, con certezza, si può affermare che si tratta di esseri creati poiché adorano incessantemente Dio (v. 8).

Nei vv. 8-11 la triplice acclamazione di santità e dignità «esprimono ed enfatizzano la gloria e il potere del Creatore onnipotente la cui manifestazione escatologica sulla terra è prossima».

Nel v. 11 il canto finale esplicita il tema di tutta questa pagina. L’adorazione dei quattro esseri Viventi e dei ventiquattro Vegliardi è il riconoscimento che il Signore è degno di ricevere la gloria, l’onore e la potenza: perché è il creatore di tutto e tutto sussiste grazie a Lui. La visione prepara a ciò che segue. Dio è visto come onnipotente Sovrano dell’universo, assiso sul trono di gloria, circondato da creature adoranti e pronto a inviare il giudizio sulla terra.

L’inno conferma che tutto il capitolo costituisce una grande allegoria della creazione, con una cosmologia interpretata in chiave teologica.

Dal momento che ha individuato una struttura, avrebbe dovuto tenerne conto nel commento.

Il messaggio teologico del brano finora commentato dell’Apocalisse ruota attorno alla rivelazione dell’uomo redento che può finalmente entrare in relazione con Dio. Il cielo, quindi, che fino allora gli era stato celato, diviene ora accessibile. Il Creatore ha deciso di farsi conoscere, di rivelarsi all’umanità, grazie all’incarnazione del Figlio unigenito che ci ha rivelato il Padre (Gv 1,18). Si può anzi affermare che la porta che si è aperta nel cielo sia Cristo stesso. Non a caso nel Vangelo di Giovanni Gesù si autodefinisce così: «Io sono la porta» (Gv 10,7).

 Chi legge il libro dell’Apocalisse vede che l’argomento trattato non è solo la fine del mondo, bensì il cammino della Chiesa in mezzo alle difficoltà che le si presentano nella sua missione di portare le genti a Cristo. Dio non vi è descritto, né si può vedere, ma soltanto intuire, come da lontano, così come si possono avvertire la sua presenza e la sua potenza. Si può capire quindi chi è Dio per noi (il suo ruolo nella storia), osservando ciò che lo circonda, ovvero la creazione, gli eventi della comunità, la liturgia.

Tre sono i concetti teologici che emergono dal brano in esame:

  • il trono,
  • la corte celeste,
  • il Pantocrator.

Il trono è simbolo di regalità, di comando, di signoria, di potente governo, di dominio sulla storia umana da parte di «Colui che è seduto sul trono» (v. 9). È interessante notare che il trono non è mai vuoto, ma vi è Uno seduto che, però, non viene nominato. Evoca comunque un dominio spaziale e temporale senza limiti nello sviluppo della storia della salvezza.

Alla visione del trono si aggiunge poi e si subordina la descrizione della corte divina, grandiosa visione celeste con tutto il capitolo proteso a creare più un’atmosfera di venerazione che di narrazione. Ma la figura centrale dell’intera visione è chiaramente Dio intronizzato in grande splendore. Nel v. 8 viene presentato con tre titoli: Signore, Iddio, Onnipotente (Pantocrator). Dio è dunque eterno e immortale, vive da sempre e per sempre. Egli è quindi il Pantocratore, che detiene il potere assoluto e unico ed al quale tutto è sottomesso. Dio è il Signore della storia e nulla sfugge alla sua provvidenza divina. Alla fine, la sua potenza creatrice e il suo amore infinito porteranno Dio a reintegrare ogni cosa e a creare un mondo nuovo (Ap 21,5).

Si può affermare in conclusione che Giovanni, in Ap 4,1-11, abbia voluto presentare, pur in maniera complessa e allegorica, una visione della creazione non come il momento iniziale con cui Dio ha dato inizio a tutto, ma come la continuazione del mondo. Esso, infatti, continua ad esistere, perché Dio, momento per momento, lo tiene in vita. Egli crea e provvede, regge e governa l’intero universo. Intorno al Suo trono c’è la storia e la natura, tutto è retto da lui. E tutta questa realtà riconosce Dio degno di lode e di onore, perché da Lui vengono e per Lui sono sostenute tutte le cose. Questa è la rivelazione iniziale della prima tappa che, nel capitolo 5, sarà completata con la seconda, che è la redenzione, che avviene per merito dell’Agnello di Dio immolato per tutti noi.

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