Il legislatore contro natura produce situazioni limite, incoerenti e persino drammatiche

ALCUNE BREVI CONSIDERAZIONI SUL FONDAMENTO DEL DIRITTO NATURALE CLASSICO

Di Daniele Trabucco

Esistono regole immutabili e perenni deducibili dalla natura dell’uomo o meglio dai fini cui essa tende, oppure ha ragione il grande giurista neopositivista, Norberto Bobbio (1909-2004), quando, nella sua opera del 1965 dal titolo “Giusnaturalismo e positivismo giuridico”, considera vago il concetto di “natura”, concludendo che “una convivenza fondata sui principi del diritto naturale è quella in cui regna la massima incertezza?”.

Per rispondere a questa domanda non si possono, in primo luogo, non rilevare le intrinseche contraddizioni proprie del positivismo giuridico quale teoria secondo la quale il diritto è quello posto, in un dato momento storico, da una autorità legittima titolare del potere politico (ius in civitate positum).

Un legislatore, svincolato da principi e riferimenti normativi meta-giuridici, può creare situazioni limite, incoerenti e persino drammatiche.

Si corre, in altri termini, il rischio di cadere in quella categoria dell’assolutismo giuridico, coniata dal prof. Paolo Grossi, funzionale a descrivere l’ordinamento giuridico nato con la Rivoluzione francese del 1789 ed i Codici ottocenteschi: un ordinamento nel quale il diritto si identifica con la legge e con la sua effettività.

Alvecchio pluralismo giuridico proprio del mondo antico e medievale il pensiero moderno ha sostituito, per riprendere ancora Grossi, un “monismo rigidissimo” grazie al “ruolo smisurato della legge” e all’opera “incontrollata del legislatore, questo personaggio ideale del palcoscenico giuridico, ingombrante e onnipresente”.

In secondo luogo, laddove il pensiero contemporaneo ha cercato di negare l’esistenza di una natura (in senso filosofico e non biologico) dell’uomo è incappato in una vistosa contraddizione. Escludendo che l’essere umano la possieda con obiettivi ben precisi, è caduto nell’indifferentismo per cui è irrilevante, per la persona umana, essere quello che è oppure un’altra cosa: un sasso, un serpente, un oggetto inanimato.

In tale evenienza si dovrebbe allora spiegare: a) come puó un ente essere diverso (ossia un non-essere) da quello che è; b) perchè, al verificarsi del punto a), l’ente non è in grado di conseguire i fini propri della natura di ció in cui si riconosce (un uomo, infatti, non sarà mai in grado di strisciare come un rettile, nè di procreare con un altro uomo).

Il venerabile Papa Pio XII (pontefice dal 1939 al 1958) scriveva a questo proposito: “Tutti sanno quanto la Chiesa apprezzi il valore della ragione umana, alla quale spetta il compito […] di porre correttamente in luce (rite exprimendam) la legge che il Creatore ha impressa nelle anime degli uomini” (PIO XII, Humani Generis, 12 agosto 1950, in A.A.S., 1950).

Questa legge naturale è, dunque, oggetto di conoscenza e, nel contempo, espressione dell’obbligazione morale inerente alla natura stessa dell’uomo. Coi soli lumi della ragione l’uomo può, quindi, conoscere il dover-essere che gli è proprio e, nel medesimo tempo, il fondamento ultimo di questa legge, cioè Dio, custode dell’ordine morale.

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“Questa legge naturale è, dunque, oggetto di conoscenza e, nel contempo, espressione dell’obbligazione morale inerente alla natura stessa dell’uomo. Coi soli lumi della ragione l’uomo può, quindi, conoscere il dover-essere che gli è proprio e, nel medesimo tempo, il fondamento ultimo di questa legge, cioè Dio, custode dell’ordine morale.”

La solita fallacia dell’affermazione del conseguente: IL fondamento ultimo non esiste se non come assioma religioso.
Saluti da un matematico apostata