La nostra condizione di mortali in un’opera di Jusepe de Ribera

di Aurelio Porfiri

LE ULTIME REALTÀ

La meditazione della nostra condizione di mortali è certamente parte del nostro percorso come Cristiani. Questa meditazione ovviamente tiene conto della realtà terribile o gioiosa che ci attende, quella per cui saremo ammessi alla visione beatifica o all’eterno tormento.

Ci viene in mente questo contemplando il dipinto San Francesco in meditazione (palazzo Pitti, Firenze) di Jusepe de Ribera, conosciuto anche come José de Ribera (1591-1652), pittore di origine spagnola soprannominato “lo spagnoletto” per la sua bassa statura e influenzato dalla grande lezione caravaggesca.

Nel dipinto, seguendo appunto il grande Michelangelo Merisi, universalmente detto Caravaggio (1571-1610), sembrano illuminare soltanto due cose: il viso del santo e il teschio, come se il pittore avesse voluto “mettere in luce” il presente e il futuro, quello che siamo e quello che saremo.

Il presente ci parla di un Francesco che volge lo sguardo al cielo, laddove viene la sola salvezza, mentre del teschio non ci vengono mostrati gli occhi, come se essi oramai avessero perso la loro funzione in quanto la persona di cui quel teschio è oramai una rimanenza è già alla presenza di Dio o nel fuoco eterno.

La meditazione sulla morte, per quanto dolorosa, ci insegna che la scena di questo mondo è limitata e dobbiamo decidere cosa fare della nostra vita, una volta per tutte. Contemplando il dipinto dell’artista spagnolo, che ha deciso di ritrarre proprio quel santo che in modo più clamoroso è stato frainteso da una certa narrativa buonista e pacifista, siamo a vedere che la consapevolezza della nostra finitezza non è a discapito delle gioie che possiamo cogliere sempre nella nostra vita. Ci insegna solo che ogni giorno è un dono e che potrebbe essere, per quello che ne sappiamo, l’ultimo.

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