Cristianesimo e religioni non cristiane: i criteri del dialogo interreligioso

di Sara Deodati

ECUMENISMO”, “DIALOGO” E “DIALOGO INTERRELIGIOSO” SONO TERMINI CHE CARATTERIZZANO, SOPRATTUTTO A PARTIRE DAL CONCILIO VATICANO II, IL DELICATO TEMA DEL RAPPORTO TRA LA MISSIONE DI SALVEZZA DELLA CHIESA E L’ESISTENZA DELLE RELIGIONI NON CRISTIANE (EBRAISMO, ISLAM, INDUISMO, BUDDISMO). ALLA LUCE DELL’ENCICLICA DI GIOVANNI PAOLO II REDEMPTORIS MISSIO (1990) PRECISIAMO I CRITERI NECESSARI ALLA CORRETTA CONDUZIONE DELL’ECUMENISMO

Nel celebrare l’odierna XXXIII Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei che coincide, come solito, con l’inizio della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (17-23 gennaio 2022), vale la pena rimettere a fuoco, a partire dai testi del Concilio Vaticano II fino all’enciclica di San Giovanni Paolo II Redemptoris Missio (7 dicembre 1990), i criteri necessari alla corretta conduzione del dialogo ecumenico e interreligioso.

L’ecumenismo, come noto, ha come base fondamentale l’incontro e la conoscenza reciproca tra la Chiesa cattolica e le chiese e comunità cristiane. La parola dialogo, che fa da bussola a tali rapporti, derivando dal greco dia-logos, ha il senso generale di una conversazione fra due o più “parti”. Quando si parla di ecumenismo si intende quindi il dialogo che si conduce tra le chiese e comunità cristiane, laddove per dialogo interreligioso si intende quello condotto tra la “parte” cristiana e le religioni non cristiane. Da quanto detto, risulta chiaro che ecumenismo e dialogo interreligioso non sono affatto sinonimi tra loro. Il primo riguarda infatti il dialogo tra cattolici e cristiani separati (cioè protestanti ed ortodossi), mentre il secondo le relazioni tra cattolicesimo e religioni non-cristiane (il Concilio Vaticano II menziona esplicitamente l’ebraismo, l’islamismo, l’induismo e il buddismo).

Il tema del dialogo appare in termini espliciti nel discorso tenuto da San Paolo VI il 29 settembre 1963, all’apertura del secondo periodo conciliare. Nell’enciclica Ecclesiam suam (6 agosto 1964) Papa Montini afferma quindi che il dialogo è fondamentale in quanto costituisce lo spazio entro cui si muove la Chiesa. Il motivo di una tale affermazione risiede in un aspetto teologico fondamentale: Dio per primo ha iniziato a dialogare con l’uomo e proprio attraverso il dialogo Egli si è autorivelato e autocomunicato. Infatti proprio la Parola sta all’inizio della creazione, diventando strumento essenziale di rivelazione e atto creativo (cfr. Gen 1,3-4). Paolo VI parla inoltre di un dialogo che definisce l’origine e l’essenza del mistero cristiano, cioè del dialogo della salvezza (colloquium salutis) che Dio stabilisce con l’umanità mediante la rivelazione e la chiamata alla fede.

Nell’impostare il dialogo interreligioso i credenti hanno sviluppato una riflessione che, pur non presentando ancora uno statuto epistemologico ben definito, è stata denominata “teologia delle religioni”. Tale disciplina occupa oggi un posto importante, cercando di elaborare risposte riguardanti la posizione delle varie religioni di fronte al messaggio cristiano. In effetti, se ogni dialogo si basa sull’aspirazione di verità di coloro che vi partecipano, occorre ricordare come, nella costituzione conciliare Lumen gentium (21 novembre 1964), al numero 8, è ribadita l’affermazione secondo cui la Chiesa di Cristo sussiste (subsistit in) nella Chiesa Cattolica.

Il documento Congregazione per la dottrina della Fede, Dominus Jesus (Dichiarazione circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa), del 6 agosto 2000, ha chiarito, al numero 16, che, con l’espressione “subsistit”, il Concilio Vaticano II volle affermare «che la Chiesa di Cristo, malgrado le divisioni dei cristiani, continua ad esistere pienamente soltanto nella Chiesa Cattolica» e, malgrado «“l’esistenza di numerosi  elementi di santificazione e di verità al di fuori della sua compagine”, ovvero nelle Chiese e Comunità ecclesiastiche che non sono ancora in piena comunione con la Chiesa Cattolica», «bisogna affermare che “il loro valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità che è stata affidata alla Chiesa Cattolica».

Altra tesi non accettabile, diffusa sempre nel post-Concilio con il pretesto di favorire una malintesa idea di ecumenismo, è quella secondo cui l’unità della Chiesa ancora non si sarebbe realizzata. Infatti, la presenza di uomini che non accettano la Chiesa Cattolica o che da essa si sono separati non comprometterebbe l’unità della Chiesa cattolica stessa.

Come accennato, il dialogo interreligioso è un impegno che la Chiesa cattolica ha sviluppato costantemente a partire dal Concilio Vaticano II, sulla base del precedente Magistero, soprattutto quello di Giovanni XXIII il quale, come noto, convocò tale universale assise superando non poche resistenze, il 25 dicembre 1961. Per quanto si debba parlare di «svolta epocale» del Concilio quando si tratta del rapporto della Chiesa con le religioni, è importante osservare che nessuno dei documenti conciliari tratta formalmente del dialogo interreligioso. Le indicazioni sul dialogo con i credenti di altre religioni si inseriscono del resto nel contesto dello sforzo di dare una valutazione più positiva delle religioni non cristiane sfuggendo alla secca alternativa tra la religione vera e quella falsa sulla quale è sempre stata imperniata l’apologetica cattolica (che, comunque, nelle sue finalità essenziali non è certo superata).

Nella Dichiarazione Nostra aetate (Nel nostro tempo), pubblicata il 28 ottobre 1965, si parla in termini espliciti della necessità di un dialogo fraterno esclusivamente in relazione alla religione ebraica (cfr. n. 4). Nel 1960, comunque, viene istituito il “Segretariato per l’unità dei cristiani”, al fine proprio di agevolare i rapporti ed i lavori che si sarebbero avuti durante il Concilio, nel quale era prevista la presenza di rappresentanti delle varie chiese separate. Questi saranno in effetti sistematicamente interpellati durante l’elaborazione di tutti i documenti conciliari, con possibilità di esprime il loro parere, benché nessuno di essi partecipi direttamente al dibattito.

Nella Nostra aetate il tema del dialogo si innesta direttamente su quello riguardante le religioni, focalizzandosi sulla questione determinante della salvezza perché, si sostiene, anche in tutte le culture/religioni diverse dal Cristianesimo, possono trovarsi “segni” dell’azione di Dio, cioè elementi di verità e di bontà che vengono dal Verbo e costituiscono una praeparatio evangelica che previene la successiva (e necessaria) azione missionaria. Insegna a tal riguardo tale Dichiarazione: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». In ciascuna religione, a partire da questo insegnamento, i credenti sono incoraggiati ad intravedere un “raggio di luce divina”, con un implicito riferimento al prologo di San Giovanni: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9).

Nelle antiche religioni e tradizioni spirituali dei vari Continenti, in particolare, è possibile rinvenire messaggi e tradizioni che possono favorire la comprensione tra le persone e i popoli. Frequentemente si costatano persino provvidenziali sintonie con valori espressi anche nei rispettivi libri religiosi. Nel Buddhismo storico, specificamente, sono apprezzabili ad esempio i principi del rispetto per la vita, della contemplazione, del silenzio e della semplicità; nell’Induismo si rinviene un positivo senso della sacralità, del sacrificio e del digiuno e, infine, nell’islam il riconoscimento dell’esistenza di un Dio unico, secondo una religiosità che fa riferimento ad Abramo e rende culto a Dio con la preghiera, l’elemosina e l’astensione dal mangiare, dal bere e dai rapporti sessuali nel periodo del ramadan.

Nonostante questa luce variamente effusa su tutti, la Chiesa è chiamata comunque ad annunciare la Verità del Dio incarnato e la sua rivelazione. Essa, pertanto, non può venir meno alla sua naturale vocazione di annuncio. Condurre gli uomini verso il Dio che parla nella Bibbia rimane, infatti, la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro.

Il documento del Magistero più recente che meglio ha chiarito, sulla scia del Vaticano II, i termini ed i possibili sviluppi di un dialogo interreligioso inteso come parte integrante della missione evangelizzatrice della chiesa è la lettera enciclica di Giovanni Paolo Redemptoris Missio, “circa la permanente validità del mandato missionario” (RM). In tale documento il dialogo è inteso come «metodo e mezzo per una conoscenza e un arricchimento reciproco» (n. 55) e non più in contrapposizione con la missione ad gentes della Chiesa, che ha per lo più come suoi destinatari uomini che non conoscono Cristo e il suo vangelo e, nella loro grande maggioranza, appartengono ad altre religioni. Alla luce dell’economia di salvezza, afferma la RM, la Chiesa non vede un contrasto fra l’annuncio del Cristo e il dialogo interreligioso: «Occorre, infatti, che questi due elementi mantengano il loro legame intimo e, al tempo stesso, la loro distinzione, per cui non vanno né confusi, né strumentalizzati, né giudicati equivalenti come se fossero intercambiabili» (n. 55).

Le altre religioni costituiscono quindi una sfida positiva per la Chiesa, stimolandola sia a scoprire e a riconoscere i segni della presenza del Cristo e dell’azione dello Spirito sia ad approfondire la propria identità. Diversi sono comunque gli atteggiamenti circa la relazione del cristianesimo con le altre religioni, i quali possono essere sostanzialmente ricondotti a tre:

  • tutte le religioni sono uguali;
  • il cristianesimo è l’unica religione: le altre solo errore o corruzione;
  • il cristianesimo è la vera religione, presentando le altre solo “scintille della Verità”.

In questa luce l’enciclica Redemptoris missio ribadisce l’imperativo della missione, ridiscutendo però i modelli secondo cui può essere concepita: ad una concezione della missionarietà che mette al centro la Chiesa subentra infatti una visione dell’annuncio imperniata sul regno, per la quale il fine dell’azione ecclesiale non è in primo luogo quello di far entrare nuovi membri, ma quello di promuovere i valori oggettivamente orientati al regno di Dio già presenti e operanti in mezzo ai popoli. Accanto ad aspetti positivi, queste concezioni possono però rivelarne di ambigui. Anzitutto, passano sotto silenzio il mandato di Cristo a Pietro: il regno di cui parlano, infatti, si fonda su un «teocentrismo», perché – si afferma – il Figlio di Dio fatto uomo non può essere compreso da chi non ha la fede cristiana, mentre popoli, culture e religioni diverse si possono ritrovare nell’unica realtà divina, quale che sia il suo nome. Per tali visioni privilegiano il mistero della creazione, che si riflette nella diversità delle culture e credenze ma tacciono sul mistero della Redenzione. Inoltre, il regno, quale essi lo intendono, finisce con l’emarginare o sottovalutare la Chiesa, per reazione a un supposto «ecclesiocentrismo» del passato (cfr. RM n. 17).

Se la Chiesa, alla luce dell’insegnamento del Concilio Vaticano II riconosce come parte essenziale del suo annuncio il dialogo e la collaborazione con le persone e le comunità appartenenti alle diverse tradizioni religiose umane, ritiene allo stesso tempo essenziale che nella prassi pastorale o dei fedeli siano evitate tutte le forme possibili di sincretismo e di relativismo. Appare quindi fondamentale seguire criteri orientativi nel modo di impostare e condurre il dialogo interreligioso.

I documenti della Chiesa, infatti, più che elaborare una teologia o una teoria del dialogo si sono preoccupati negli ultimi decenni di dare delle indicazioni per un dialogo fattivo e concreto fra persone e comunità di fedi differenti. In primo luogo, alla luce di questi criteri ed indicazioni, prima di decidere di dialogare con esponenti di altre religioni, occorrerebbe che sia assicurato il criterio della “reciprocità” nel rispetto del diritto, individuale e collettivo, all’espressione della rispettiva fede. Per questo mentre la Chiesa promuove il dialogo tra le diverse religioni, ricorda ugualmente la necessità che sia effettivamente assicurata a tutti i credenti la libertà di professare la propria religione in privato e in pubblico, nonché la libertà di coscienza. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, evitando ogni forma di fondamentalismo religioso.

Sulla base di questi due principi generali, è possibile formulare le seguenti forme di dialogo interreligioso ispirate ciascuno ad un preciso criterio:

  1. dialogo della vita, basato sul rispetto reciproco: persone e comunità di differenti fedi religiose si sforzano di vivere in uno spirito di apertura e di buon vicinato, condividendo i loro problemi e preoccupazioni e, quando possibile, operino uniti per il loro superamento comune;
  2. dialogo delle opere, basato sul criterio di reciproca promozione della solidarietà umana: i credenti collaborano in vista dello sviluppo integrale e della liberazione dei rispettivi popoli;
  3. dialogo degli scambi teologici, fondato sul principio della doverosa conoscenza dei rispettivi contenuti religiosi: dialogo nel quale i rappresentati delle varie chiese e comunità, con l’ausilio dei rispettivi esperti, cercano di approfondire la comprensione delle eredità religiose di ciascuno, e di apprezzarne i valori spirituali reciproci.
  4. dialogo dell’esperienza religiosa, fondato sulla riconosciuta comune necessità dell’uomo di ringraziare e adorare Dio, in virtù del quale ciascun credente e comunità, pur radicata nelle proprie tradizioni religiose, condivida le rispettive ricchezze spirituali, per esempio per ciò che riguarda la preghiera e la contemplazione, la fede e le vie della ricerca di Dio o dell’Assoluto.

In conclusione, riassumendo le riflessioni sopra presentate, si può dire che il dialogo interreligioso tocca il cuore di ogni religione. Dio solo, infatti, può scandagliare il mistero del cuore umano poiché Egli lo ha creato «a sua immagine e somiglianza» (Gn, 26).

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