Il concetto della legge di Dio nell’Antico Testamento: la Torah

di Pietro Madeo

ALLA TORAH SI AGGIUNGONO, COME TESTI DI RIFERIMENTO, QUELLI CHE NARRANO LA VITA DEI PROFETI E DEI RE DI ISRAELE, NONCHÉ ALCUNI SCRITTI AGIOGRAFI. IL COMPLESSO DI QUESTE SCRITTURE SI CHIAMA “TANACH”, ACRONIMO DI “TORAH”, “NEVIIM” (OSSIA PROFETI) E “CHETUVIM” (OVVERO SCRITTI)

Occupandoci, dello sviluppo lento e flebile del giudeo-cristianesimo, non può certamente trascurarsi ciò che rappresentava il diritto nel giudaismo antico e più in particolare la legge di Dio, la Torah, nell’Antico Testamento.

La Torah, baricentro dell’ebraismo, è composta dai cinque libri trasmessi, secondo la tradizione ebraica, da Dio al popolo di Israele tramite il profeta Mosè. Questo testo è conosciuto come la Bibbia ebraica, o Pentateuco, definito dal mondo cristiano Antico Testamento.

Alla Torah si aggiungono, come testi di riferimento, quelli che narrano la vita dei Profeti e dei Re di Israele, nonché alcuni Scritti Agiografi. Il complesso di queste scritture si chiama Tanach, acronimo di Torah, Neviim (ossia Profeti) e Chetuvim (ovvero Scritti).

La Torah è, per gli ebrei, non solo un libro di riferimento da studiare, ma anche un codice di leggi da rispettare e un cosmo entro cui situare l’esistenza.

Oltre alla Legge scritta (Torah), gli ebrei hanno tramandato la legge orale (Mishnah), a sua volta trascritta in sei trattati e commentata nei secoli (dal I e II secolo dell’era volgare), fino a costituire un altro fondamentale testo della cultura ebraica che è il Talmud: un ricco compendio di domande, risposte e commenti di rabbini e maestri, raccolti nei secoli, con cui gli ebrei si confrontano anche oggi per interpretare e dare risposte ad ogni problematica della vita.

Nell’ebraismo la Legge, è solo quella divina, e Dio ha parlato solo nella Torah. Non c’è Legge, pertanto, all’infuori delle mitzvòt (precetti): non può esistere, nella storia d’Israele, un sovrano legislatore.

E’ importante sottolineare il carattere religioso di tale filo di continuità, ossia il fatto che il diritto ebraico non è scindibile dall’osservanza religiosa. Se si intendesse, infatti, con tale espressione qualsiasi elaborazione giuridica fatta dal popolo ebraico – o da parte di esso -, anche fuori o contro l’osservanza della Torah (e quindi, per esempio, anche il moderno diritto israeliano), ciò porterebbe a dilatare eccessivamente la nozione in esame, facendone in definitiva perdere i contorni distintivi.

Si può pertanto definire come diritto ebraico l’aspetto precettivo della religione ebraica, identificabile essenzialmente nella cd. halachah (via, strada), ossia quella parte della Torah (= insegnamento: termine ebraico, com’è noto, con cui si indicano quelli che, nella tradizione greca e cristiana, sarebbero poi diventati i primi cinque libri della Bibbia, il cd. Pentateuco) in cui Dio esprime, in modo imperativo, una coattiva regola comportamentale, e che si contrappone cosi alla cd. haggadah (= racconto), ossia quella parte, quantitativamente maggioritaria, di Scritture (anche esterne alla Torah) in cui il testo risponde a varie esigenze narrative (storiche, omiletiche, simboliche, poetiche, sapienziali ecc.), ma non a propositivi normativi.

Il diritto ebraico è quindi quello scaturente dalla halachah, ossia dall’insieme di norme (mitzvôt = precetti) formulate nei cinque libri della Torah. Esse possono essere studiate essenzialmente da tre distinti punti di vista:

– Antropologico: riguardo alla genesi, in un determinato contesto storico, di un dato divieto (p. es., l’obbligo della circoncisione, il tabù del sangue ecc.). Si tratta di un tipo di analisi, evidentemente, che non riguarda il ragionamento giuridico;

– attuativo: riguardo alla interpretazione e applicazione del precetto al giorno d’oggi. È un’analisi connessa all’attuazione concreta della norma, per la quale il diritto è studiato come attualmente vigente, ai fini della sua concreta e possibile attuazione;

– giuridico: riguardo all’inserimento della norma nel suo contesto storico. Un’analisi collegata alla precedente, ma da essa distinta, in quanto scevra di funzioni pratiche. Alla Torah, fons fontium, va poi affiancata la cd. Mishnah (= ripetizione, ossia il testo in cui, secondo la tradizione, tra il II e il III secolo, fu messa per iscritto la Legge orale che, insieme a quella scritta, sarebbe stata consegnata a Mosè sul monte Sinai).

E’ di fondamentale importanza, ai fini dell’intellezione del senso della halachah, il commento alla Mishnah (ghemarà) che sarebbe stato elaborato, tra il IV e il VI secolo, dalle Accademie rabbiniche (yeshivòt) di Palestina e Babilonia, poi confluito nelle due grandi raccolte del Talmùd (Palestinese e Babilonese). Ma, pur assumendo il testo talmudico altissima importanza ai fini della corretta interpretazione del senso dell’‘halachah, esso resta comunque sempre un’elaborazione umana, non di origine divina (come la Torah e la Mishnah), e pertanto oggetto di libera interpretazione e contraddizione.

Perduta, nel 70 d.C., la sovranità nazionale in Terra d’Israele, il popolo ebraico sceglie di perpetuare, nelle terre dell’esilio, la propria identità nazionale, osservando -attraverso la cosiddetta ortoprassia, ossia il rispetto minuzioso e quotidiano delle mitzvòt -, pur nella diversità delle latitudini, delle lingue e dei costumi, una medesima Legge, quella della Torah, nuova “patria ambulante” del popolo d’Israele.

 

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