Xi Jinping si appresta a scardinare tutte le regole: nemmeno i vecchi alleati sono salvi

di Chiara Masotto*

IL 16 OTTOBRE, DATA DEL XX CONGRESSO DEL PARTITO COMUNISTA CINESE, IL SEGRETARIO GENERALE XI JINPING CHIEDERÀ IL TERZO MANDATO, IN ROTTURA CON LA TRADIZIONE INAUGURATA DA DENG XIAOPING E SEGUITA DA TUTTI I SUOI SUCCESSORI

Xi Jinping si prepara a scrivere la storia: il 16 ottobre, data del XX congresso del Partito Comunista Cinese (PCC), chiederà il terzo mandato, in rottura con la tradizione inaugurata da Deng Xiaoping – e seguita da tutti i suoi successori – di non andare oltre il secondo. Gli ultimi mille giorni di Xi Jinping non sono stati facili: tra la politica Zero Covid e il suo impatto – nefando – sull’economia cinese, le possibili sanzioni americane su Taiwan, i guai dell’alleato Putin in Ucraina, la steccata da parte delle Nazioni Unite sul trattamento degli Uiguri nello Xinjiang e una piccola purga interna, il Presidente si è dovuto districare tra numerose questioni la cui ombra potrebbe minacciare i risultati del prossimo congresso del Partito Comunista Cinese questo ottobre. Enfasi su “potrebbe”, perché il Presidente è già corso ai ripari.

Xi Jinping dichiarò la vittoria nella guerra al Covid già alla fine della prima ondata, quando il mondo occidentale si confrontava ancora con un numero inaccettabile di morti e faticava a trovare una via d’uscita. Questa vittoria entrò subito nella propaganda ufficiale del partito e Xi Jinping ha puntato su di essa per legittimare la sua ricerca del terzo mandato questo ottobre. La strategia Zero Covid, che punta ad eliminare il virus, ha già mietuto una vittima illustre, la crescita economica del Paese, pesantemente rallentata dai continui lockdown e dai rallentamenti nell’import ed export di merce.

Questo rallentamento di per sé non è di buon auspicio per la leadership cinese, che basa il suo mandato sulle sue capacità di rendere realtà il “sogno cinese”, l’idea di una Cina prospera e potente i cui cittadini possono raggiungere standard di vita sempre più alti, ma è giustificabile se è il prezzo da pagare per salvare milioni di vite. Numeri alla mano, la performance del partito in questo senso potrebbe non essere così brillante: una decina di giorni fa la Cina registrava casi in cento città e 65 milioni di persone – più o meno la popolazione della Francia – sono sottoposte a qualche forma di lockdown.

Dopo Shanghai, l’ultima megalopoli di stazza e importanza comparabile ad andare in lockdown è Chengdu, famosa per i suoi panda e la cultura delle sale da tè. La città aveva già subito il contraccolpo del terremoto nello Sichuan, che ha diminuito le forniture energetiche con i conseguenti effetti sull’economia, e il nuovo lockdown fa presagire ulteriori difficoltà economiche. Mentre le misure imposte si fanno sempre più restrittive, il consumo di carburante crolla e i voli internazionali scendono ai minimi storici, gli imprenditori si preparano al peggio: a Shanghai il lockdown è stato rimosso lentamente, e numerosi quartieri sono usciti dall’isolamento per rientrarci pochi giorni dopo a causa dell’emergere di nuovi casi. Se da Chengdu fuoriuscisse la notizia di malcontenti e proteste come a Shanghai, per il Partito sarebbe causa di imbarazzo.

Probabilmente è per questo che le direttive su come gestire il lockdown sono contrastanti, con Xi Jinping che continua a premere per l’eliminazione dei casi e Li Keqiang che invece fa pressione per far arrivare sostegni alle imprese. Che sia il segno di una spaccatura all’interno della leadership? Spaccatura o meno, nell’ultima settimana i giornali cinesi non hanno riportato aumenti di casi.

Xi Jinping salì all’onore per le cronache, diventando un papabile candidato per il ruolo che oggi ricopre, principalmente per i suoi contributi ideologici. Non che la performance economica non sia importante, ma il suo contributo maggiore è stato il tentativo di conciliare la natura ideologica del Partito – comunista – con la realtà in cui esso si trova. Dai tempi dell’apertura di Deng Xiaoping (nella foto sotto), il PCC e l’Esercito di Liberazione Popolare hanno avuto un ruolo di rilievo nell’economia, che ha portato molti baroni e principi della politica ad accumulare ricchezze e potere.A questo accumulo sono seguite numerose voci di corruzione e abuso di potere, potenzialmente letali per la leadership del Partito. Le idee di Xi Jinping sul ruolo che i cadetti del Partito devono ricoprire – sono funzionari statali, non manager – e come devono farlo – lavorando al servizio dei cittadini, non abusando del loro potere per accumulare ricchezze – presero forma inaugurando la più grande campagna anticorruzione nella storia del PCC, la campagna “contro le tigri e le mosche”, che nel 2012 investì più di mille cadetti del Partito a tutti i livelli.

La campagna anti corruzione è esplicativa su Xi Jinping il politico: ci parla della sua propensione a scardinare le regole non scritte della politica cinese – prima di questa campagna l’immunità giudiziaria dei membri del Partito era considerata un dato di fatto, una regole non scritta ma accettata da tutti-, e dell’idea di Partito che vuole dare – unito, ideologicamente stretto attorno al suo leader.

L’epurazione di mille e più cadetti non è un semplice cambio della guardia: è un momento di svolta, il segnale urbi et orbi che solo chi ha i requisiti per scrivere il nuovo capitolo del Rinascimento cinese parteciperà all’impresa. Quest’ottica ci aiuta a decifrare le condanne emesse verso cinque ufficiali dello Stato profondo – Gong Dao’An, Deng Huilin, Liu Xinyun, Fu Zhenghua e Wang Like-, tutti collegati a Sun Lijun, vice Ministro per la sicurezza arrestato nel 2020. Xi Jinping si appresta a scardinare tutte le regole, di nuovo, e lo accompagneranno in questo nuovo capitolo solo quanti dimostreranno di essere all’altezza. Nemmeno i vecchi alleati sono salvi.

Le vittorie all’estero sono un balsamo per la reputazione interna, si sa. La settimana scorsa il Presidente cinese si è recato in Kazakistan, Paese in cui annunciò il suo piano per la Belt and Road Initiative, e dal 15 al 17 settembre sarà in Uzbekistan per l’incontro della Shanghai Cooperation Organization (SCO), il forum per la sicurezza fondato dalla repubblica Popolare Cinese che riunisce la Federazione Russa, il Kazakistan, Kirghizistan Tagikistan e Uzbekistan e ha tra i membri osservatori Iran e Bielorussia. In questa sede incontrerà il Presidente Putin per la prima volta da quando è cominciata l’offensiva russa in Ucraina.

In occasione della sua visita in Kazakistan, il Presidente Xi ha dichiarato ad un giornale che i due Paesi devono “fare pressione per creare un ordine internazionale più giusto ed equo”, parole che hanno trovato eco nelle parole di Yang Jiechi, uno dei più importanti diplomatici di Pechino, nel suo incontro con il diplomatico russo Andrey Denisov.

Cina e Russia sono sempre più isolati nel sistema internazionale: Mosca si è resa un paria con l’invasione dell’Ucraina e promuove qualsiasi forma di sostegno riceva, mentre Pechino paga il prezzo della politica Zero Covid e soffre il contraccolpo dello sdegno internazionale per il trattamento riservato agli Uiguri. Pechino, pur avendo evitato mosse in grado di costarle sanzioni da parte dell’Occidente, continua a fornire a Mosca supporto diplomatico ed economico sotto forma di incremento negli scambi commerciali.

Pechino e Mosca sentono che le maglie intorno a loro si stanno stringendo: la Federazione Russa è impegnata in un conflitto che l’ha isolata e ne sta assorbendo le risorse, e Pechino assiste al mondo intorno a sé che si riorganizza contro di lei, lentamente sì, ma anche inesorabilmente. La rinnovata attenzione sulla Belt and Road è la risposta cinese all’Ipef, l’iniziativa economica lanciata da Washington per arginare controbilanciare la Repubblica Popolare. Tra gli Stati invitati a partecipare all’accordo balza all’occhio l’assenza di Pechino, cosa per cui la Repubblica Popolare ha già protestato, dichiarando che l’Ipef è una struttura anti cinese mascherata da accordo economico. All’Ipef si accompagna il QUAD, la struttura per la difesa promossa dal Giappone che unisce alle flotte indiane, australiane e nipponiche la potenza di fuoco americana.

Incombono anche le possibili sanzioni americane legate a Taiwan: le attività cinesi nello stretto sono aumentate e portano mezzi cinesi sempre più vicini alle zone controllate da Taipei, aumentando esponenzialmente il rischio di collisione e di incidenti le cui conseguenze sarebbero inevitabili. Taiwan non è l’Ucraina: qui la possibilità che Washington e i suoi alleati scendano in campo è reale, come lo è la possibilità che Pechino si impegni in una guerra che potrebbe non vincere.

Bilanciare la necessità di dare un forte messaggio patriottico all’interno del Paese ed evitare conflitti è sempre più difficile, ma è un gioco a cui Xi Jinping e colleghi non possono sottrarsi: la difesa del sogno cinese, altro contributo ufficiale di Xi Jinping all’ideologia del Partito, passa anche dal recupero della provincia ribelle, o almeno dal dimostrare che l’intenzione è quella. Il rischio sempre più concreto è che Pechino si impegni in un chicken game sempre più serrato e che, pur di dimostrare di avere le intenzioni più serie, si chiuda in una situazione dove o perde la faccia o perde la guerra. Entrambe le alternative sarebbero nefande.

 

* Laureata in “Mediazione linguistica cinese – inglese
e in “
Studi Europei e Internazionali
con focus sull’Asia Nordorientale

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