Con l’eutanasia l’essere umano è declassato a “cosa” sacrificabile

di Gianmaria Spagnoletti

LA DERIVA COMBINATA DI ABORTO, EUTANASIA E GUERRA CI MOSTRA CHE L’ESSERE UMANO NON È CONSIDERATO, SOLO RISCOPRENDO IL VALORE DELLA COMUNITÀ POTREMO USCIRE DA “SPARTA 4.0

La “dolce morte” continua a mietere vittime. L’ultima è la 23enne Shanti De Corte che ha “scelto” di porre fine alla sua vita il 7 maggio scorso, sebbene la notizia sia filtrata solo in questi giorni. Giovanissima, si era trovata appena 17enne nel bel mezzo dell’attentato terroristico all’aeroporto di Zaventem il 22 marzo 2016. Era sopravvissuta senza danni fisici, riportando però una ferita permanente nell’anima, che le numerose psicoterapie e terapie psichiatriche non erano riusciti né a guarire, né tantomeno ad attenuare. Ma dato che in Belgio è in vigore la legge sull’eutanasia, Shanti ha presentato la domanda all’associazione Leif che raccoglie coloro che vogliono «morire dignitosamente».

Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, la domanda è stata accolta e Shanti ha terminato la sua vita così. Per un quotidiano, un fatto del genere non fa quasi più notizia. La “notizia vera”, invece, è che la CEDU ha condannato il Belgio a modificare la sua legge sull’eutanasia in quanto «viola il diritto alla vita dei cittadini». Tuttavia, lo capisce anche un bambino che riformare una legge pessima è impossibile, dato che è dannosa “alla radice”.

Stupisce quantomeno che non ci sia nessuna reazione da parte della c.d. “opinione pubblica”, forse perché ipnotizzata dalla guerra in Ucraina o forse perché ormai ridotta a una specie di “Bella Addormentata”. Ma la morte di una 23enne, pur con alle spalle delle cure psichiatriche fallite, avrebbe dovuto suscitare nei medici e nella gente comune (oso pensare persino nei sostenitori della legge sulla “dolce morte”) un sussulto, un’ondata di commozione, magari accompagnata da interrogazioni e richieste di accantonare la legge, o quantomeno temperarla. Quando fu varata, nel 2002, i suoi sostenitori si dichiaravano sicuri che i “paletti” avrebbero tenuto, e che non ci sarebbero stati abusi. Dunque, si partì dicendo che l’eutanasia era riservata solo ai malati incurabili, e sarebbe finita lì. Poi ci si allargò ai malati cronici. Poi ai bambini affetti da malattie incurabili (ma col consenso dei genitori). Poi ai bambini ma senza consenso dei genitori. Poi a coloro che «sentivano di aver completato il percorso della propria vita». Poi ai depressi. Infine, si è arrivati a estenderla a chiunque ne faccia richiesta. In Canada, addirittura, si è arrivati a proporre la soppressione volontaria a chi non poteva permettersi costose cure mediche (la sanità è a pagamento come negli Stati Uniti) o lunghe liste di attesa per una operazione, o vive in condizioni di indigenza. Per non parlare poi della Gran Bretagna, dove è appena uscita la notizia che degli infermieri avrebbero accelerato la dipartita di alcuni pazienti durante il lockdown del 2020. Com’era lo slogan di gran moda? «Decido io». Se il Regno Unito ha seguito anche stavolta la falsariga dei casi Charlie Gard e Alfie Evans, allora siamo passati a «decido io al tuo posto». In Canada, un genitore che vuole sottrarre il proprio figlio al “MAID” (acronimo di “Medical Assistance in Dying”, assistenza medica alla morte) è una specie di Davide che si trova davanti un armatissimo Golia, deciso ad andare fino in fondo in nome dell’autodeterminazione. Non per nulla, persino i sostenitori della “dolce morte” cominciano a spaventarsi e a pensare che qualcosa sia “andato storto”. A questo punto anche i colleghi europei che parlavano di “paletti” dovrebbero dire, con un briciolo di realismo, “abbiamo sbagliato”. Ma secondo voi accadrà?

Non mi permetto di giudicare Shanti DeCorte, una persona che indubbiamente ha sofferto più di quanto poteva sopportare. Ma l’ideologia che le ha permesso di morire, quella sì. Siamo passati da «a tutto c’è rimedio, tranne alla morte», a «la morte è l’unico rimedio». Spesso ci dimentichiamo che la vita umana è piena zeppa di sofferenza. Tutti noi abbiamo conosciuto non solo malati gravi, ma anche reduci di due guerre mondiali, internati e deportati nei Lager, superstiti di tragedie inenarrabili, bombardamenti, naufragi, incidenti, che hanno dovuto fare i conti con quel trauma, e con il “senso di colpa del superstite” per il resto dei loro giorni. Non di rado si svegliavano di notte gridando, in preda agli incubi. Si chiama “Sindrome da disordine post-traumatico”: la stessa di cui soffriva Shanti DeCorte. Dopo la Prima guerra mondiale questo disturbo (inizialmente chiamato “shell shock”, “shock da cannoneggiamento”) riempì i manicomi. In seguito, si cercò di porre rimedio, ad esempio, con la psichiatria e la psicoterapia di gruppo. Ai Paesi anglosassoni bisogna rendere merito di essere stati all’avanguardia in questi tentativi: pensate che la clinica Tavistock (tristemente famosa per le terapie ormonali sui giovanissimi) nacque nel primo dopoguerra per aiutare i reduci che rientravano dal fronte letteralmente “impazziti”.

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