I Canti dell’infermità di Clemente Rebora

I Canti dell’infermità di Clemente Rebora

di Giuseppe Brienza

LE POESIE DAL LETTO DELLA MALATTIA DEL ROSMINIANO CLEMENTE REBORA (1885-1957), NEL 65° ANNIVERSARIO DELLA MORTE

Le poesie che il rosminiano Clemente Rebora (1885-1957) compose sul letto della sua ultima infermità, a Stresa (Piemonte), tra l’ottobre 1955 e il dicembre 1956, sono considerate un classico della letteratura italiana del Novecento. Da ogni singola poesia, infatti, si “carpisce” il succo del messaggio spirituale che si può ricavare da un malato pieno di dolori che vive la sofferenza alla luce della propria fede cristiana. Dove la poesia non è stata titolata dall’Autore, come titolo è stato utilizzato il primo versetto o il soggetto del discorso.

Seguendo il testo della prima edizione Garzanti (1988), partiamo col presentare come premessa generale alcuni pensieri, estratti dagli appunti o dalle lettere di Rebora, che possono giovare per comprendere lo stato d’animo col quale il rosminiano scrisse queste poesie, e perché scelse il linguaggio della poesia per cantare il proprio dolore: privato della Messa quotidiana, privato del ministero pastorale attivo, si appigliò al canto della Croce per dire ai fratelli che continuava a voler loro bene*.

«La misericordiosa bontà di Gesù Crocifisso mi tiene ancor sempre sacerdote attivo: non potendo più celebrare il Sacrificio dell’Altare, mi fa celebrare il Sacrificio della Croce».

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«Far poesia è diventato per me, più che mai, modo concreto di amar Dio e i fratelli. Charitas lucis, refrigerium crucis» (novembre 1955).

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«Il mio pregare è divenuto una invocazione muta, interna, di ogni momento».

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«Ogni vero poeta (e pochissimi sono) – e a lui si aggiunga ogni artista, o semplicemente artefice, ché veramente al Divino Creatore dovremmo riservare la qualifica di Artista – è unitotale, sia pur ristretta di numero l’opera sua; egli ha in proprio il suo non comunicabile genio personale innestato nell’elemento unanime e perenne della cultura e della civiltà del suo tempo; per cui, questo elemento universale – e quanto più è purificato d’ogni ingombro contingente – lo fa diventare un classico» (13 ottobre 1956).

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«… a me è parso avvertire questa mattina, mentre ero nel ringraziamento dopo la S. Messa … che la poesia … è uno scoprire e stabilire convenienze e richiami e concordanze tra il Cielo e la terra e in noi e tra di noi … La poesia … intesa in modo totale, ossia cattolico, è la bellezza che rende palese, come arcano riverbero, la Bontà infinita che ha sì gran braccia… uscendo da una lettura di poesia (e qui bisognerebbe dire delle altre arti, ciascuna col suo dono sublime, e della musica che nei grandi è quasi donazione di carità) ci si potrebbe sentire incoraggiati al bene e all’eterno…» (Lettera al fratello Piero, 12 novembre 1950).

 

*I testi sono pubblicati per gentile concessione della rivista “Charitas. Bollettino rosminiano mensile” [anno XCVI, n. 3, Centro Internazionale di Studi Rosminiani, Stresa (VB) marzo 2022, pp. 50-52].

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