La moderna Babele dell’antilingua

di Enzo Vitale

CONCETTI SEMPRE PIÙ CONFUSI E IMPRECISI SONO LO STRUMENTO PER FAR PASSARE INOSSERVATI COMPORTAMENTI E ATTEGGIAMENTI CHE MINANO LA MORALE DEL VIVERE COMUNE

Cosa hanno in comune espressioni come “cura di affermazione del genere”, “sesso assegnato alla nascita” oppure “persone che partoriscono”? A queste, poi, si aggiungono acronimi più e meno recenti quali il classico IVG (interruzione volontaria della gravidanza) o le più moderne “maternità solidale” o “gravidanza per altri” (miranti ad indicare il mettere al mondo un figlio “per contro terzi”). Tutte espressioni che, forti della loro “sensibilità” (corretto sarebbe scrivere “del loro essere politicamente corrette”) rappresentano diffuse forme espressive che sdoganano, a volte indirettamente, moderne forme di schiavitù, umane e intellettuali.

Le summenzionate espressioni hanno in comune un’idea, una volontà, ben precisa: far passare messaggi, modi di fare e di dire che, se presentati con i propri nomi, sarebbero mal tollerati ed osteggiati dai più.

Facciamo un esempio classico: un conto è dire IVG altro è “uccisione di un bambino nel grembo della mamma” (perché l’aborto in questo consiste). In altri casi, non potendo fare a meno di usare la parola aborto, si ricorre, inesorabilmente, alla contaminazione/concatenazione fra concetti che rimandano ad un’idea, ad un atteggiamento positivo, per far passare quello negativo. Stando all’esempio della IVG non è raro sentir parlare di “aborto terapeutico”: si accosta, in pratica, il concetto di terapia, che indica il curare, di “fare del bene”, ad un concetto che richiama alla morte, quasi a giustificare l’inammissibile. Il concetto di “terapia”, radice del “terapeutico” di cui sopra, trova tutti concordi nell’essere definito come «studio e attuazione concreta dei mezzi e dei metodi per combattere le malattie» se stiamo alla spiegazione offerta dalla Treccani. Se poi andiamo ad investigare sull’etimologia della parola terapia, dopo aver chiarito che viene dal greco therapeia che significa “cura, guarigione”, nel dizionario leggeremo: «Un termine di alta rilevanza tecnica, quale il sistematico combattimento di uno stato patologico, diventa vasto e comune, passando, nei suoi composti, più genericamente ad indicare qualunque azione o trattamento ausiliario della cura della persona, o, in questo senso, perfino qualsiasi piacevolezza». Addirittura, andando ancora più a fondo, scopriremo che l’originario significato di “terapia” è «“servizio” – è questo il significato originario del termine greco therapeía. E dunque è letteralmente “servitore”, colui che svolga la funzione del therápon». Quello di “aborto terapeutico” è l’esempio più facile da comprendere tanto diffuso e “contaminato”. Ma la distorsione concettuale, l’uso ambiguo di espressioni, frasi o altro per far passare volontà negative nel campo della bioetica è sempre più diffuso.

Tutte le volte che leggo o sento espressioni di questo tipo, rimpiango la tanto criticata scolastica, dove, all’inizio di ogni discussione e confronto era necessario “rivestire i concetti”, dare una chiara definizione alle parole utilizzate nel confronto perché solo chiarendo i termini usati si potrà avere speranza di arrivare ad una soluzione, alla verità, in un confronto. Diversamente solo confusione, ognuno pretenderà di aver ragione partendo da un significato particolare attribuito ad ogni singola parola. Proviamo ad immaginare, tanto per fare un esempio, se durante una partita di calcio, i giocatori delle due squadre avessero un’idea diversa di cosa significhi calcio di punizione, rigore, fuori gioco e via discorrendo: la partita non potrebbe andare avanti né, tanto meno, arrivare a conclusione.

Della diffusione delle frasi riportate all’inizio di questo breve, grande responsabilità è data ai mezzi di comunicazione: l’utilizzo non critico di espressioni e parole imposte da chi desidera – meglio dire pretende! – l’utilizzo di determinate parole per far passare concetti in modo ambiguo determina grande confusione tra chi, in modo acritico, accoglie certe espressioni.

Nel ballo dei concetti “deviati” ci sono anche parole molto più diffuse: pensiamo alla parola “mamma”. A parte la difficoltà di individuare chi/cosa sia una mamma nel momento in cui si fa ricorso ad una pratica di procreazione artificiale, non è difficile immaginare quanto possa essere fastidiosa questa dolce parolina nel momento in cui ci troviamo di fronte ad una coppia di uomini, uniti civilmente, e che hanno fatto ricorso alla maternità surrogata oppure all’adozione: sono sempre più i paesi nel mondo che lo permettono.

Si tratta, come già Italo Calvino aveva acutamente notato anni fa, di un vero e proprio progetto di antilingua che in tempi più recenti, proprio per dar ragione sul come in campo etico ci sia questo uso ambiguo dei termini, Pier Giorgio Liverani ne ha tirato fuori il famoso Dizionario dell’antilingua.

L’attenzione a ciò che leggiamo, su ciò che i media ci propongono deve essere alta. Non si può più accogliere acriticamente un messaggio, una sigla, un’espressione, un’affermazione senza chiedersi cosa comporti la sua accettazione, il suo sdoganamento nel linguaggio comune. Il rischio, troppo alto per farlo passare senza colpo ferire, è quello di ritrovarci a vivere in un mondo in cui il bianco è nero e il bene è male perché, come appunto affermava Calvino, «dove trionfa l’antilingua – l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato” – la lingua viene uccisa».

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