Quel genio immenso di Alessandro Manzoni

di Francesco Bellanti

BREVI RIFLESSIONI PER UNA LETTURA DELL’OPERA DI ALESSANDRO MANZONI 

A parlar di Alessandro Manzoni, in quest’anno in cui ricorrono i 150 anni dalla sua scomparsa e in cui tutti diventeranno critici letterari magari senza averlo mai letto, si rischia di dir banalità, ma, non ritenendomi figlio di un Dio minore e avendo frequentato il grande scrittore nei licei per più di quarant’anni, indolore può essere l’azzardo.

Andiamo sul sicuro, intanto, nel dire che il nostro Don Lisander era figlio naturale non del nobile Pietro ma dell’altro ben più giovane nobile intellettuale e donnaiolo Giovanni Verri (fratello dei ben più celebri intellettuali illuministi Pietro, Alessandro e Carlo) e di Giulia Beccaria, figlia del grande Cesare. E anche che è  intellettuale e scrittore di statura europea, in contatto con i più grandi del suo tempo, come Rosmini, Goethe, e i grandi francesi, e che con il tuo celeberrimo romanzo ha posto le basi del romanzo moderno e della lingua e della letteratura italiana, senza il quale la cultura italiana dell’Ottocento sarebbe ben misera cosa.

Grande poeta e drammaturgo, sì, ma soprattutto per avere rotto le tre famose unità aristoteliche e per un’altissima poesia d’impegno civile e di originale pluralismo vocale (Il Cinque Maggio e la Pentecoste sono capolavori, sì). E straordinario scrittore naturalmente per avere scritto il romanzo per eccellenza della nostra letteratura.

I critici e i libri di letteratura italiana cominciano subito con la sua educazione illuministica parigina e poi con la sua conversione dall’Illuminismo ateo e materialista al cattolicesimo, ma questa storia a me non ha mai convinto del tutto, perché io, Don Lisander, l’ho visto sempre poeta e scrittore civilmente impegnato, e questa famosa conversione al cattolicesimo riguardava solo l’abbandono della retorica e della mitologia, e del linguaggio aulico. Voglio dire che, sì, la religione cristiana è la verità, il popolo romano era violento, oppressore, ma in fondo questo interesse per gli umili, i vinti, i popoli e le masse ignorate dalla storia, ecco, tutto questo erano idee illuministiche. E anche una letteratura tendente al vero, alla reale condizione storica dell’uomo, a ciò che è utile, interessante.

Certo, sia chiaro, Manzoni rappresenta il trionfo del Romanticismo, soprattutto quello primigenio, per questo interesse per il Medio Evo, tempo nel quale è nata l’Europa moderna, e per il Cristianesimo, senza il quale quel tempo, e anche quello dell’oggi, non avrebbero senso. Proprio così, Medio evo e Cristianesimo, l’Europa antica e moderna. Il tempo (il trionfo della borghesia nell’Ottocento), comunque, era maturo per passare da una letteratura delle grandi personalità a quella delle masse popolari e del mondo borghese, da una lingua neoclassica dalle forme classicheggianti alla lingua parlata dei ceti colti, da un pubblico ristretto alla moltitudine di coloro che sanno leggere, da una lingua esclusivamente letteraria a un lingua come mezzo di comunicazione tra genti della stessa nazione, e lui ha colto questo tempo. Geniale.

Ed ecco allora il miracolo del cattolicesimo popolare e democratico della Pentecoste, degli uomini eccezionali strumento di Dio, e del potente passo d Dio nella storia, del Cinque Maggio, delle regali vittime della storia nel Coro di Ermengarda. E tutto qui, come nei Promessi Sposi, è un inno ai popoli che si ribellano contro gli oppressori per riconquistare l’unità e la libertà perdute (e anche questo è Illuminismo).

E poi la politica. Anche qui la sua modernità. Era finito il tempo ingenuo in cui intellettuali di spessore come Ugo Foscolo credevano che Napoleone il francese sarebbe venuto in Italia a liberare gli italiani… la France, la grandeur. E no, il Nostro lo dice chiaro e tondo, né Franchi né Longobardi, né Francesi e né Austriaci, giovinò, datevi da fare, non sperate nei popoli stranieri, altrimenti sarete sempre schiavi, Latini. E il Romanzo di Renzo e Lucia diventa un esercito schierato in campo di battaglia contro lo straniero, mettendo in luce i soprusi dello straniero, gli Spagnoli sono come gli Austriaci, contro i semplici popolani della campagna lombarda, che nessuno mai aveva rappresentato in modo così serio, nobile e tragico.

Certo, il Grande Milanese non era un guerrafondaio, le rivoluzioni e le rivolte cruente mica ti affascinavano, le fa fallire tutte nei Promessi Sposi, soprattutto quella del sempliciotto Renzo, però le virtù più nobili sono quelle del popolo, la loro mentalità, i loro comportamenti, la loro religiosità. Il cattolicesimo, e la Provvidenza divina che tutto risolve, basta credere in essa alla fine, e non fare di testa propria. La Provvidenza.

Ma qui urge il chiarimento decisivo. Il grande intellettuale Manzoni poteva veramente pensare, come i popolani Renzo, Lucia, Agnese, che uno crede alla Provvidenza e, zac, subito in questa vita essa risolve tutto in bene? Dai, non scherziamo. Il genio cattolico di Manzoni poteva pensare invece alla reale presenza di Dio nella storia, che non era solo un’idea del Romanticismo, era anche il fondamento del Cristianesimo democratico. Solo nella prospettiva dell’eterno i buoni e i giusti saranno premiati e i malvagi puniti, perché il tempo dell’uomo non è il tempo di Dio. Il senso della vita terrena è anche nel mistero della volontà divina di far maturare nei buoni le più alte virtù e la più profonda consapevolezza. Sì, la “provida sventura”. Che è forse quello che non comprese Gramsci (una delle poche cose che non comprese in fatti di letteratura) quando parlava dei limiti della concezione della storia di Manzoni proprio per la sua idea della Provvidenza e del suo paternalismo, perché secondo lui Manzoni tratta i popolani come macchiette, con ironia bonaria, privandoli di una vita interiore, riservata ai soli potenti (al contrario di quello che faceva, per esempio, Tolstoj). Un colossale equivoco, perché invece nel Grande Lombardo si trovano i germi di una critica radicale del populismo, inteso nell’accezione corrente, e cioè un populismo di destra, quello che pensa che il popolo ha sempre ragione, e che il miglior approccio alle decisioni politiche sia quello di affidarsi direttamente al popolo attraverso un linguaggio semplificato che fa appello a passioni elementari.

Sì, lo dicevamo, la verità è che Manzoni non era un guerrafondaio, lui non credeva nella marmaglia preda degli istinti primitivi, acritici, irrazionali, una forza distruttiva, priva di autocontrollo, caratterizzata da un senso di onnipotenza. Don Lisander era un moderato, che male c’è? Detestava il Seicento lombardo di don Rodrigo, trionfo della violenza e dell’arbitrio, della prepotenza e dell’ingiustizia, di un’aristocrazia che veniva meno al suo compito storico di buon governo della società. E di quella corrotta società del suo tempo egli ha parlato per offrire alla nascente borghesia illuminata dell’Ottocento il modello della società futura da perseguire. Manzoni voleva una società senza conflitti di classe governata da un’aristocrazia illuminata e cristiana al servizio della collettività, in cui i ceti medi borghesi fossero mediatori tra questa aristocrazia e il popolo laborioso che doveva rivendicare i propri diritti senza violenza.

Insomma, Don Lisander era un liberale borghese che s’ispirava agli ideali cattolici per evitare le degenerazioni giacobine violente, un cattolico pessimista (forse con un po’ di inquietudine giansenista) che però vuole distaccarsi dai propositi reazionari della Chiesa della Restaurazione. Azzardiamo: il suo è un cristianesimo pascaliano unito a solido illuminismo. Che diffida della politica, del progresso, della rivoluzione, della violenza come forza che emancipa, e in definitiva anche della Storia.

Detto questo, non dobbiamo dimenticare di dire che la cosa più importante che resta di Alessandro Manzoni non è il suo pensiero politico o religioso, o la sua concezione del romanzo storico, ma qualcosa di più decisivo: la concezione della lingua. Dante ha inventato la lingua della poesia e Manzoni la lingua della prosa. La lingua fiorentina delle persone colte, non la lingua morta dei puristi, una lingua viva, letteraria ma arricchita dalla viva parlata, agile, duttile, plastica, poetica, scorrevole, lingua non solo strumento letterario ma mezzo di comunicazione dello Stato unitario che stava nascendo – e qui è l’originalità e la genialità -, lingua dell’educazione e del popolo dunque, che innescò un processo sì lungo e difficile, che si allontanò dal fiorentino, ma che a esso sempre ritorna nei momenti di smarrimento per rituffarsi nel suo brodo primordiale.

Per concludere, io ho sempre visto nel genio di Alessandro Manzoni la sintesi di due grandi scrittori russi venuti dopo, Tolstoj e Dostoevskij, e la più alta espressione di questa sintesi la trovo nella tragica vicenda della Monaca di Monza. Tolstoj idealizza un mondo ispirato alla semplicità dei Vangeli, la liberazione dell’uomo dal peccato, la natura e l’infanzia scevri dal male, la liberazione dello spirito attraverso la soppressione della carne, la morte corporea. Per Tolstoj la libertà è un bene solo se mossa da un’esigenza morale. Per Dostoevskij non esiste il male assoluto, l’uomo è un mistero che sperimenta in ogni istante il paradiso e l’inferno, un mistero, il più grande, che vale la pena di indagare, perché è l’unico motivo per cui vale la pena di vivere. Per Dostoevskij solo attraverso l’amore e la compassione di Gesù si può abbracciare con uno sguardo d’amore l’uomo, e comunque si deve cercare non la purezza ma la salvezza. E per la libertà e per il bene più alto si possono giustificare anche i crimini. Così i personaggi di Dostoevskij non pongono mai un freno ai loro desideri, e sperimentano l’esperienza del bene e del male. Le domande fondamentali di Tolstoj e le risposte esistenziali di Dostoevskij. Ecco, Manzoni era questo, in un solo corpo era l’anima dei due grandi russi. Solo così poteva nascere uno dei personaggi più complessi e problematici della letteratura di ogni tempo, che da sola vale un romanzo, la Monaca di Monza.

La vita della Monaca di Monza racchiude tutta la storia del Seicento e di ogni tempo, la sventurata costretta dalle leggi del secolo, dalla famiglia e dall’orgoglio paterno alla monacazione forzata, in due capitoli (che nel Fermo e Lucia erano sei) nei quali si dipana un avvincente percorso di ipocrisie e di imposizioni, di riti e di cadute rovinose, che non schiuderanno mai per la donna le porte della salvezza e della redenzione. Tragedia di un’anima che appare a Lucia e Agnese con due occhi dall’investigazione superba, quelli di un’infelice bambina vittima di un destino altrui, di una violenza subdola, del ricatto affettivo, complice poi di un omicidio e del rapimento di Lucia, che vive nell’amarezza per la libertà perduta, sventurata senza pace, in un continuo vagare senza meta verso desideri che non sarebbero mai stati soddisfatti, fin quando non vede dalla sua stanza fuori lo scellerato Egidio. E la sventurata rispose. La Signora dalla “bellezza sbattuta, sfiorita e scomposta”, che fu un tempo giovane fanciulla distrutta dalla volontà altrui, descritta in modo magistrale in tutti i suoi aspetti fisici e psicologici, in pagine tragiche, altissime e immortali. Quelle del genio immenso di Alessandro Manzoni.

 

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