Declino, rovina e disfacimento nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa

Declino, rovina e disfacimento nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa

di Francesco Bellanti

PUBBLICHIAMO LA SECONDA PARTE DEL BREVE SAGGIO DEL PROFESSORE FRANCESCO BELLANTI SUL GATTOPARDO DI GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA, MENTRE È IN PROGETTO UNA SERIE IN SEI EPISODI PER NETFLIX CON UN CAST DI GRANDI ATTORI DOPO IL CAPOLAVORO DI LUCHINO VISCONTI DEL 1963.

Storia e critica di un grande libro che però ha anche dato un’immagine sbagliata della Sicilia

 

LEGGI QUI LA PRIMA PARTE

La vicenda editoriale del Gattopardo è essa stessa un romanzo. Diamo solo qualche cenno. Consulente editoriale alla Mondadori, Vittorini, basandosi sul giudizio nemmeno troppo negativo di tre lettori – che giudicarono il libro con “errori di montaggio”, “abbastanza buono, non privo di spunti felici”, ma redatto in uno stile “convenzionale e risaputo”, costituito da un insieme di bozzetti con “una loro vivacità aggraziata e brillante: ma il libro come tale non regge” – rifiutò la pubblicazione ma segnalò alla Mondadori di tenere d’occhio il romanzo. Siamo nel 1956. L’anno dopo, alla Einaudi, Vittorini respinse il dattiloscritto per i famosi Gettoni della casa editrice, e scrisse una lettera a Tomasi. Nella lettera, Vittorini stroncava il dattiloscritto (peraltro mancante di due capitoli rispetto alla versione completa, Le vacanze di padre Pirrone e Il ballo), affermando anche che la collana dei Gettoni aveva un programma saturo per i successivi quattro anni, non negando, tuttavia, il talento dello scrittore e la validità dell’opera. Elio Vittorini aveva tutte le sue sante ragioni per rifiutare il romanzo, lui era un innovatore sul piano stilistico, il romanzo gli apparve di carattere saggistico-sociologico, prolisso, un libro un po’ fuori stagione insomma, e con una visione del mondo reazionaria.

Qualche tempo dopo, Vittorini spiegò con più chiarezza le ragioni del suo rifiuto. In una intervista disse che il Gattopardo “…è una seducente imitazione dei “Viceré” di De Roberto, a livello della prosa dei cosiddetti “rondeschi […] Io preferisco al Gattopardo non solo il libro di Calvino […] ma anche la ristampa dei racconti di Romano Bilenchi, e anche “Il soldato” di Carlo Cassola, e anche “Il ponte della Ghisolfa” di Testori. Sono tutti e quattro tanto più vitali e tanto più nella nostra storia. Ci dicono qualcosa di ancora non risaputo. Non lasciano il tempo che trovano. Mentre il “Gattopardo”, e lo dico non senza rispetto, lo lascia proprio tale e quale lo trova, il tempo”. 

È una condanna, a mio avviso, più ideologica che letteraria, che lo scrittore siracusano, un intellettuale – è noto – innovatore e sempre al passo coi tempi, confermò in seguito in una lettera a Davide Lajolo, ribadendo il carattere di introspezione psicologica che, innegabilmente, lo stesso Tomasi aveva attribuito al suo Gattopardo: “Seguendo passo passo il filo della storia di don Fabrizio Salina, – scriveva l’autore di Uomini e no – il libro non riesce a diventare (come vorrebbe) il racconto di un’epoca e, insieme, il racconto della decadenza di quell’epoca, ma piuttosto la descrizione delle reazioni psicologiche del principe alle modificazioni politiche e sociali di quell’epoca”. 

Su questo famoso “rifiuto” intervenne subito Leonardo Sciascia, che sul quotidiano palermitano L’ora pubblicò una lettera in cui affermava: “Chi conosce “Conversazione in Sicilia” e tutti i libri di Vittorini, chi conosce la sua personalità umana e culturale, trova perfettamente logico il suo rifiuto rispetto al “Gattopardo”. Possiamo ritenere il “Gattopardo” un libro bellissimo o un libro mediocre: ma dobbiamo riconoscere che Vittorini, rifiutandolo, è in una posizione di assoluta coerenza. L’ha rifiutato manoscritto per la pubblicazione; e continua a rifiutarlo. Perché non dovrebbe? O che, dopo Garibaldi, di cui proverbialmente in Italia non si può dir male, siamo tenuti a fare i conti anche col “Gattopardo?”” E in un’intervista posteriore, mentre riconobbe che il Gattopardo è un bel romanzo, continuò ad avere riserve su un’opera che esprimeva una visione troppo immobile della società siciliana, che fungeva da alibi per la classe aristocratica cui apparteneva lo stesso Tomasi. I fatti hanno dato ragione a Tomasi, sosteneva sempre Sciascia, ma sono le idee che muovono il mondo.

Insomma, la descrizione di una Sicilia in cui nulla accade, nulla può cambiare, una Sicilia lontana da ogni idea di rinnovamento, non poteva non irritare coscienze, come quella di Sciascia, segnate da una grande tensione civile, dall’idea che la letteratura deve affermare principi di etica anche alla politica, all’economia, alla scienza, alla religione. Le vicende dei decenni successivi alla pubblicazione del romanzo confermarono le perplessità di Sciascia: il libro non piacque, soprattutto a sinistra. Mentre Bo – “libro eccezionale” – e Montale – Tomasi, disse, è un “poeta narratore”, il libro è “formalmente quasi perfetto” – sostenevano che il Gattopardo era un capolavoro, la critica di sinistra in genere mosse dure critiche all’opera dello scrittore siciliano. Per Gianfranco Contini, il Gattopardo – che, non dimentichiamolo, ebbe immediatamente un successo internazionale e fu tradotto in quasi tutte le lingue del mondo – è un’opera da bancarella, un piccolo libro insomma (ma Contini non ebbe simpatie nemmeno per Pirandello, che considerava un umorista), mentre l’Unità allora – chissà perché – accolse benevolmente il libro nient’affatto progressista del Principe di Lampedusa, giudicandola opera matura da collocare nel filone meridionalista. Il Gattopardo è per Goffredo Bellonci “romanzo lirico e storico”, per Leone Piccioni “una delle sorprese più belle nel campo della nostra narrativa”, – per un entusiasta Giuseppe De Robertis “narrativa impregnata di poesia” e per Carlo Salinari il romanzo “si eleva sulla media della produzione narrativa italiana dei nostri giorni”. Toni celebrativi ebbero anche Luigi Russo direttore di Belfagor, Geno Pampaloni, Giorgio Barberi Squarotti. Tutto rose e fiori, allora? Non propriamente. Tanta critica di sinistra e marxista stroncò l’opera di Lampedusa, Sanguineti e Alberto Asor Rosa in testa. Quest’ultimo, nelle sue storie della letteratura italiana, dedica appena un cenno all’opera.

Il romanzo, è noto, fu pubblicato per i tipi Feltrinelli per una felice intuizione di Giorgio Bassani che ebbe il dattiloscritto incompleto da Elena Croce, figlia del grande filosofo (la vendetta del destino, Benedetto Croce non era certo stato tenero con gli scrittori siciliani, anche lui giudicò Pirandello un umorista e Il fu Mattia Pascal “il trionfo dello stato civile”) e che si recò personalmente a Palermo per cercare il manoscritto originale e recuperare le parti mancanti. A Palermo, Gioacchino Lanza Tomasi – è una sua precisa testimonianza, né abbiamo motivo per non credergli – affidò all’autore de Il giardino dei Finzi-Contini il manoscritto del ’57. Bassani se ne servì per ritoccare le bozze delle sette parti già composte e per inserire la parte V, Le vacanze di Padre Pirrone, non presente nel dattiloscritto, e infine il testo fu, secondo le parole medesime del Lanza Tomasi, “controllato sul manoscritto del ’57 per le varianti (nel passare dal dattiloscritto all’ultimo manoscritto l’autore ha apportato migliaia di correzioni e aggiunte che Bassani ha spesso riportato nella sua edizione); integrato premettendo i sommari dell’indice analitico alle singole parti; rivisto radicalmente dal curatore nella punteggiatura”. Questo fu il testo della prima edizione del 1958, tradotta poi in quasi tutte le lingue, che non fu mai messa in discussione fino al 1968, quando, in seguito alle divergenze riscontrate da Carlo Muscetta, ordinario di letteratura italiana a Catania, fra il manoscritto del ‘57 e il testo stampato, il romanzo venne rivisto e pubblicato, nell’edizione che è diventata standard, nel 1969. Questa edizione condotta sul manoscritto originale è in fondo quella indicata come definitiva nelle ultime volontà da Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Romanzo storico o romanzo intimista?

Il Gattopardo – sgombriamo subito il campo dagli equivoci – non è un romanzo storico. Nel libro, per esempio, non si fa cenno dei Fasci siciliani, l’autore mostra di non capire le leggi del capitalismo, né le forze fondamentali che, oggi come allora, muovono la storia, gli interessi finanziari ed economici delle grandi potenze europee che hanno governato il processo unitario italiano. Il Gattopardo è un romanzo intimista, che esprime un senso cosmico della stanchezza del vivere, della dimenticanza e della pace, un distacco dalle illusioni, dai sogni e dalla lotta, un bisogno di assolute certezze che né la storia e nemmeno i sentimenti riescono a dare. È un romanzo intimista e autobiografico: la storia di una nobile famiglia in declino e una desolata riflessione sulla morte e sulla vita, la ricerca del tempo perduto segnata dal nichilismo, dal pessimismo, dalla sublime indifferenza. È manchevole di determinazione morale, e spesso si perde nell’interesse saggistico-sociologico. 

Il Gattopardo è un romanzo intimista e decadente perché vi si esaltano i sentimenti e la memoria, e si svalutano i processi storici, e tutto viene giudicato da un pensiero astratto, quello dell’autore, Tomasi di Lampedusa, che era anche un genio troppo bene educato sul piano letterario per essere autentico. L’esaltazione dei sentimenti e della memoria, del ricordo, è cosa estremamente rispettabile in operazioni letterarie di grande penetrazione psicologica e conoscitiva ma non in opere che si vuole far passare per storiche. In Tomasi di Lampedusa manca il distacco dal protagonista del romanzo e dalla sua storia. La scrittura, infatti, non è la scrittura di un romanzo storico o neorealista: è una scrittura semplice ma complessa, una scrittura letteraria e borghese, non vecchissima ma nemmeno modernissima perché alta, l’unica probabilmente capace di descrivere la malinconia di un mondo in sfacelo. 

È una prosa quasi sempre varia e sonora, musicale, ora felpata ora battente: una bella scrittura. Il romanzo, tuttavia, è poco scorrevole sul piano narrativo, procede per bozzetti, è poco equilibrato fra le varie parti, spesso prolisso, talvolta, verso la fine, affrettato. La luce impietosa dell’ironia, spietata, critica, alla ricerca di ragioni, non sempre governata dal distacco del narratore, anche per il riferimento costante di fatti del passato a quelli di anni recenti, in una trama densa di allusioni e di giudizi che percorrono la narrazione, dà al romanzo un tono di furore mai placato, un rancore mai sopito. Il ritmo saggistico del discorso è fondato su un calcolo critico della parola molto accurato, guidato da una lucidità razionale di eccezionale impegno, che costituisce in ogni momento uno strumento di ragionamento, di spiegazione, di sistemazione critica della realtà. È una realtà dominata dall’alto, lo sguardo è amplissimo, ma l’autore mai raggiunge il distacco dai fatti narrati. 

Questo è un giudizio estetico. Sul piano dei contenuti, esprime il fatalismo, la rassegnazione, il pessimismo, il senso vuoto di superiorità dei siciliani, visti, però, dal ristretto punto di osservazione di una classe sociale – la nobiltà filoborbonica siciliana – che, come detto, non ha mai contato nulla nel panorama europeo. Con tutti questi difetti, il Gattopardo non può essere considerato un capolavoro. È, comunque, nonostante tutti questi difetti, un buon libro, che esprime un’idea della Sicilia e del mondo e induce alla riflessione, e per questo va letto. Ed è questa la ragione per cui, da moltissimi anni, da sempre, gli studenti di chi scrive se lo ritrovano, in quinto anno, alla fine del loro ciclo di studi, tra i libri da comprare.

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