Cannibali e finestre di Overton

a cura di Angelica La Rosa

ARRIVA «FACCIAMOLI MANGIARE QUESTI BAMBINI. IL PROGETTO GOOD FOOD», DI ALDO MARIA VALLI

Può un comportamento raccapricciante divenire plausibile e poi addirittura doveroso? Certo che sì, lo sappiamo: basta agire su marketing culturale, social media e linguaggio. Ma se portassimo tutto all’estremo?

«Facciamoli mangiare questi bambini. Il progetto Good Food» probabilmente stupirà i lettori di Aldo Maria Valli, giornalista e titolare del popolare blog “Duc in altum”.

Per l’autore di “Facciamoli mangiare questi bambini” (Hong Kong, Chorabooks, Cartaceo € 16,63, Ebook € 6,99) non è la prima incursione nella narrativa. Ricordiamo il romanzo «L’ultima battaglia», il racconto «La finestra» e quel misto di saggio e racconto che è «Come la Chiesa finì». Ma qui siamo in presenza di qualcosa di diverso, una sorta di fumetto noir che ricorre in abbondanza al sarcastico e al grottesco per dipingere il nostro mondo di idee sballate trasformate in dogmi.

La novella nera narra di come, in nome dell’eco-sostenibilità e della lotta alla sovrappopolazione, un gruppo di pseudointellettuali al servizio di oscuri Maestri cerchi di imporre la propria visione inumana facendola passare per responsabile. La Chiesa, che si è autoannullata, sostiene il tutto. Ma un aiuto inaspettato arriverà da lontano.

Dalla Presentazione (dal titolo “Cannibali e finestre di Overton”) leggiamo:

Prendete un oscuro professore di antropologia di un’oscura università. Aggiungete un oscuro progetto voluto da un oscuro Maestro. Metteteci un’oscura tenuta agricola, un’oscura artista e altri oscuri personaggi. Che pietanza ne verrà fuori? Certamente qualcosa di molto oscuro. Ma in che senso? Beh, se lo chef fosse uno Stevenson, potremmo avere un romanzo gotico alla «Dr. Jekyll e Mr. Hyde». Se fosse una Mary Shelley, ecco un horror alla «Frankestein». Se fosse un Huxley, avreste una distopia alla «Brave New World». Invece da un apprendista cuoco come il sottoscritto ne salta fuori un fumetto che, strizzando l’occhio un po’ a P. G. Wodhouse («Jeeves», «Il castello di Blandings») e un po’ a David Lodge («Il professore va al congresso», «È crollato il British Museum») mette in pentola generose dosi di satira, ci spruzza sopra l’aceto del sarcasmo, ci butta dentro una manciata di umorismo nero, qualche goccia di irrisione e… Ecco servito «Good Food!».

Lo ripeto: è un fumetto. Una specie di barzelletta. Per passare qualche ora in compagnia e ridere (amaramente) insieme. Nessuna pretesa, da nessun punto di vista. Il che non toglie che anche le barzellette, a volte, possano contenere piccole verità.

Il Good Food, il buon cibo in questione, è qualcosa di innominabile. Eppure, nel mondo immaginato nel fumetto, in un futuro non troppo lontano, è sufficiente l’iniziativa di un manipolo di squinternati perché un comportamento inizialmente inconcepibile diventi semplicemente estremo e poi, nell’ordine, accettabile, ragionevole e perfino raccomandabile.

Se la successione vi dice qualcosa, avete colto nel segno. Trattasi della cosiddetta finestra di Overton, il meccanismo che deve il nome al suo teorizzatore, Joseph P. Overton, e che vediamo spesso applicato.

Per capire in che consiste, possiamo immaginare di trovarci in una stanza con un’unica finestra entro la quale è contenuto lo spettro delle idee socialmente accettabili. Tutto ciò che si trova all’interno della cornice costituita dalla finestra è ammissibile; ciò che si trova al di fuori della cornice è intollerabile. Ma la finestra ha una particolarità: anziché essere fissa, si sposta lungo una rotaia e può quindi scorrere, da destra verso sinistra o viceversa. Dunque ecco che i valori, le idee e i comportamenti che in un dato momento si trovano fuori dalla cornice possono, in un altro momento, essere invece al suo interno. Ciò che prima era inaccettabile, può così diventare accettabile. Tutto dipende da dove si trova la finestra. Ovvero, tutto dipende da chi la muove e da come la fa scorrere.

In genere l’esempio è quello fornito dagli Stati Uniti degli anni del proibizionismo, quando per un certo periodo fu considerato ragionevole introdurre il divieto di vendere alcolici. Poi però la finestra si spostò, ed ecco che lo stesso divieto da ragionevole divenne assurdo, tanto che oggi è considerato inammissibile.

Ora, finché si parla di consumo di alcolici si è in un campo ancora piuttosto soft, ma se provassimo con qualcosa di ben più hard?

L’idea mi è venuta leggendo «Coraggio! Manuale di guerriglia culturale», nel quale François Bousquet, a dimostrazione del fatto che qualunque idea o comportamento può essere sottoposto alla finestra di Overton, propone l’esempio del cannibalismo. Sissignori, ho detto cannibalismo.

Bousquet, che a sua volta precisa di aver preso ispirazione da un blogger, dà istruzioni piuttosto sintetiche ma chiare (oltre che drammaticamente esilaranti). Si incominci con l’organizzare un bel convegno sul cannibalismo, con la partecipazione di etnologi famosi. Si scelga una location attraente. Nel programma del congresso si citi un caso esotico. Si faccia in modo che il congresso abbia risonanza e successo. Si manovri in modo tale che gli atti del congresso siano pubblicati da un ateneo prestigioso e il tema, uscito dai soli circoli specialistici, entri nel dibattito pubblico. Si arruolino a tal fine artisti, divi del cinema, influencer e altri personaggi famosi che dichiarino quanto è bello e utile praticare il cannibalismo. Ci si accerti che a tali personaggi si opponga un noto reazionario, uno di quei conservatori impresentabili, bacchettone e pure sovranista. Si sfrutti la disputa per dimostrare che essere contro il cannibalismo è da insensati tradizionalisti. Ci si applichi al lavoro di attenuazione lessicale (abbandonata la parola cannibalismo, si adotti, per esempio, antropofilia). Si manovri perché una drag queen alla Conchita Wurst o una band pro LGBTQI vincano l’Eurofestival della canzone e nell’occasione dichiarino di essere anche a favore dell’antropofilia. Si renda noto che George Clooney, il Dalai Lama e Lady Gaga sono antropofili. Si parli del cannibalismo sexy, pop, trendy. Il cursore ormai si è spostato notevolmente, la finestra di Overton ha viaggiato ed ecco che da un giorno all’altro i più famosi conduttori televisivi si proclamano antropofili, il legislatore depenalizza il cannibalismo e la Walt Disney acquista i diritti della serie «Hannibal» per trarne una versione da destinare ai bambini, con protagonista un giovanissimo criminale antropofago. Vittoria!

Più o meno, «Good Food!» racconta di come un’idea inconcepibile e raccapricciante possa diventare, attraverso opportuni passaggi, un diritto-dovere, riconosciuto e tutelato in quanto nuova frontiera del comportamento più ecosostenibile. Con un particolare, e cioè che nel mio fumetto mi sono spinto ben oltre la semplice antropofagia.

Direte: esagerazioni assurde. Lascio a ciascuno la valutazione. Comunque, l’ho detto subito: il mio è un fumetto, una barzelletta. E nei fumetti i personaggi mica si attengono alle regole della fisica sperimentale. No, loro si allungano, si accorciano, si spiaccicano ma si rialzano, cadono e rimbalzano, possono cambiare forma e colore, infischiandosene del buon senso. E io ho fatto lo stesso.

Comunque. Neanche il tempo di terminare il mio racconto ed ecco che, compulsando il web, scopro che è tutto un fiorire di libri, film e serie tv sul cannibalismo. Non solo. Ecco che in California vengono presentati progetti di legge per estendere l’accesso all’aborto e addirittura di consentire l’uccisione di bambini nati vivi dopo tentativi di aborto falliti. La finestra di Overton è in movimento e il vecchio detto secondo cui la realtà supera la fantasia rischia di trovare conferma molto più velocemente di quanto possiamo immaginare.

Chiudo con un’annotazione che dovrebbe essere superflua, ma non si sa mai. Non state a cecare sulla cartina la località di Brainy, la contea del North Nowhereshire, né Benbecula nelle Isole Blatand o il Monte Kinabalu o la tenuta di Arivunculoola eccetera. E non compulsate il web alla ricerca di un etnologo e antropologo di nome Goodenough o di un certo Tristan Boring che insegna Joie de vivre o di un’eccentrica artista che si chiama Abaigeal O’Sullivan. Il tutto appartiene unicamente a questo fumetto, un po’ ingenuo e un po’ grottesco. Prendere o lasciare. Se prenderete, e vi farete quattro (amare) risate con me, ne sarò felice. Se lascerete, vi capirò.

Dunque, ecco a voi «Good Food!» E, come direbbe qualcuno, buon pranzo!

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