Michela Murgia e l’allontanamento sostanziale dall’alveo del Cristianesimo

di don Dario Valentino Panico

L’ASSURDO ACCOSTAMENTO TRA IL PENSATORE DANESE KIERKEGAARD E LA SCRITTRICE SARDA MURGIA

Dopo la sua morte Michela Murgia ha cominciato a ricevere numerosi attestati di stima da parte del mondo cattolico. In molti casi, però, non si tratta semplicemente del riconoscimento dello spessore umano e intellettuale di una persona che aveva convinzioni diverse dalle proprie; infatti, oltre a sottolineare l’influenza che i suoi studi teologici hanno avuto nella sua produzione letteraria e rimarcare il suo passato da insegnante di religione e socia di Azione Cattolica, c’è chi l’ha definita credente e teologa cattolica.

In particolare mi ha colpito un articolo di Giuseppe Lorizio apparso su SettimanaNews in cui si afferma che Michela Murgia nel suo libro God save the Queeer è riuscita a cogliere ed apprezzare la capacità della teologia cristiana di non lasciarsi imbrigliare dal principio di non contraddizione per accogliere gli ossimori intrinseci alla rivelazione.

A tal proposito nell’articolo viene riportata una citazione delle Briciole di Filosofia di Kierkegaard in cui si afferma che “il paradosso è la passione del pensiero e i pensatori privi di paradosso sono come amanti senza passione: mediocri compagni di gioco”; secondo Lorizio la Murgia sarebbe una testimone di questa passione per il paradosso. Vorrei riflettere sulla validità dell’accostamento tra il pensatore danese e la scrittrice sarda e sull’effettiva capacità del pensiero di quest’ultima di costituire uno stimolo positivo per la teologia cattolica o addirittura una espressione di questa.

Per Kierkegaard il paradosso, come rileva anche l’articolo di Lorizio, è Cristo, è l’evento dell’incarnazione in cui l’Eterno entra nel tempo. Secondo il danese esistono due atteggiamenti che spengono la passione per il paradosso: uno consiste nel “rettificarlo” che è ciò che avviene quando anziché lasciarsi condurre dal paradosso ed esporlo per ciò che è, ovvero qualcosa che va oltre la ragione, lo si addomestica razionalizzandolo e in tal modo “la rettificazione elimina il paradosso e spiega che non esiste alcun paradosso” (Postilla conclusiva non scientifica); l’altro consiste nel confondere l’incomprensibilità col nonsenso e questo avviene quando l’uomo non accetta che il massimo che può raggiungere con la sua ragione è “comprendere che non si può comprendere” (Cf. Diario vol. VII) e, anziché far spazio alla fede nella trascendenza, battezza il paradosso come qualcosa di semplicemente illogico e quindi irrilevante o addirittura dannoso per la sua esistenza.

Ritengo che Michela Murgia oscilli tra rettificazione e rifiuto del paradosso cristiano e ciò si evince dal suo articolo apparso su La Stampa dal titolo: “I cattolici amano un Dio bambino perché rifiutano la complessità” in cui sostiene la tesi che “il cattolicesimo è l’unica tra le confessioni cristiane ad infantilizzare il suo Dio” ricoprendo la devozione di una retorica melliflua che non ha nulla a che vedere col Vangelo.

Trovo più che condivisibile la stigmatizzazione dell’eccesso di sentimentalismo che caratterizza l’approccio al mistero del Natale di molti cattolici ma mi lascia perplesso il seguito dell’articolo in cui si sostiene che è “mistificatorio” affermare che Dio si è fatto come noi per farci come Lui perché diventare come Dio non è alla nostra portata; Dio, dunque, si è fatto uomo non per divinizzarci ma perché ha presso sul serio la nostra umanità ed essere umani vuol dire “abitare la contraddizione, che è sempre un posto scomodo”.

In tal senso, secondo la Murgia, Dio ha preso sul serio anche l’umanità di Erode perché la contraddizione che caratterizza l’essere umano può voler dire anche essere paranoico, legato al potere, spaventato dall’idea di perdere ciò che si ha e disposto a tutto per preservarlo. In definitiva “se l’unica incarnazione che ci commuove è quella del neonato, è perché è più facile rendere la divinità bambina che l’umanità adulta davanti alle sue contraddizioni”.

Ritengo che si possa rispondere a queste obiezioni proprio a partire dal pensiero di Kierkegaard. Stando a quanto leggiamo nelle Briciole di filosofia la rivelazione avvenuta in Gesù Cristo pone l’uomo proprio dinanzi alle sue contraddizioni e alla loro origine perché ciò che gli viene rivelato è anzitutto la sua condizione ontologica di peccatore che consiste essenzialmente in una relazione sbagliata con l’Assoluto; la coscienza del peccato è definita da Kierkegaard “il nuovo presupposto” per la conoscenza della verità. Nel secondo capitolo di quest’opera egli afferma che Dio si è rivelato per amore dell’uomo, per stabilire con lui una relazione autentica:

“È per amore quindi che Dio si è deciso a questo passo fin dall’eternità; ma come il suo amore è la causa, parimenti l’amore deve essere il fine; perché sarebbe veramente una contraddizione che Dio avesse una causa di movimento e un fine che non fosse a essa corrispondente. Bisogna allora che l’amore si indirizzi al discepolo e il fine sia quello di guadagnarselo; perché solo nell’amore il diverso diventa uguale” (Briciole di filosofia)

Secondo Kierkegaard Dio sceglie la via della kenosi perché se si fosse manifestato nella pienezza della sua gloria l’uomo ne sarebbe stato soverchiato e  sarebbe stato, in un certo senso, costretto ad aderire a Lui; invece presentandosi in forma umana Dio pone l’uomo nelle condizioni di dover compiere una scelta libera e responsabile rispetto alla verità, si potrebbe dire una scelta adulta. Inoltre, per il pensatore danese il paradosso dell’incarnazione va di pari passo col paradosso della remissione dei peccati.

L’incontro con Cristo può far rinascere l’uomo ovvero collocarlo in una condizione esistenziale nuova che ha come orizzonte ultimo di senso l’imitazione del proprio Salvatore. La categoria “Imitazione di Cristo”, molto presente in Kierkegaard, preserva dal sentimentalismo perché mette in guardia dall’essere dei semplici ammiratori di Gesù (Bambino). Ma se è vero che chi vede Gesù vede Dio Padre (Cf. Gv 12,45), allora imitarLo  vuol dire divinizzarsi.

Diventare Dio vuol dire essere uomo come è stato uomo Gesù, ispirarsi alle sue scelte etico-esistenziali, avere la sua mentalità (Cf. 1Cor 2,16) e i suoi stessi sentimenti (Cf. Fil 2,5). Non si tratta, dunque, di non voler guardare in faccia le contraddizioni della natura umana ma di decidere di vivere la propria umanità all’interno di una contraddizione altra, scomodissima ma virtuosa e salvifica. Si tratta di essere consapevoli che in questo cammino di conformazione a Cristo siamo esposti a delle cadute da cui dovremo lasciarci sollevare dallo stesso Cristo e quindi accettare di essere per tutta la nostra vita dei peccatori pentiti e perdonati; si tratta di accogliere il paradosso assoluto che consiste soprattutto nel fatto  che Gesù è al contempo nostro modello e nostro Redentore, come scrive splendidamente Kierkegaard:

“Signore Cristo Gesù! Non per tormentarci, ma per salvarci Tu hai detto quelle parole: «Nessuno può servire a due padroni». Concedi allora che noi le accogliamo e possiamo ad esse conformarci, con la tua imitazione. Deh, aiutaci Tu tutti e ciascuno in particolare, Tu che sei ad un tempo il Modello e il Redentore: così che quando l’aspirante si accascia sotto il peso del Modello, il Redentore lo rialzi, e tuttavia nello stesso momento Tu sei il Modello per spingerlo ad aspirare senza posa. Tu, Redentore nostro, con la tua benedetta Passione e Morte, hai dato soddisfazione per tutti e per ognuno: l’eterna salvezza non può né dev’essere meritata, essa è già stata meritata da Te. Tuttavia Tu hai lasciato un’impronta di Te, Tu Modello Santo dell’uman genere e di ogni Singolo, così che salvati dalla tua Redenzione, in ogni momento, possiamo trovare fiducia e franchezza di aspirare ad imitarti” (Preghiere)

Alla luce di queste considerazioni ritengo poco felice il parallelismo tra Søren Kierkegaard e Michela Murgia, che le idee espresse dalla scrittrice nell’articolo preso in esame la allontanino sostanzialmente dall’alveo del cattolicesimo molto più delle le sue posizioni in materia di morale sessuale e familiare e non vedo come il suo pensiero possa fungere da stimolo per un teologo cristiano a meno che non si intenda lo stimolo ad andare in una direzione diametralmente opposta alla sua.

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