Lettera a una studentessa sul viaggio verso Dio

di Francesco Bellanti

IL VIAGGIO E IL SILENZIO. IL VIAGGIO VERSO LA PUREZZA

Perché si viaggia?, mi chiedi. Potrei subito dirti semplicemente che si viaggia per desiderio di gloria (Leopardi), per desiderio di conoscenza e sfida all’ignoto (Ulisse dantesco), per ritornare in patria (Ulisse omerico), per formazione culturale (Goethe, Keats, Shelley, Byron, Stendhal, i poeti e gli scrittori romantici in Italia, gli aristocratici romani in Grecia, i giovani di oggi dappertutto), per conoscere il mondo, per noia, per tedio universale, per perfezionare una dottrina, un pensiero, un’idea.

Si viaggia anche per moda, perché non si ha nient’altro da fare. O per cambiare abitudini. Si può viaggiare per trovare la pace alla fine nella follia e in una stanza vuota, Hölderlin, per tornare sempre a casa, Novalis. C’è il viaggio spirituale-letterario, profetico, o forse tout court il viaggio totale di Dante, il viaggio psicologico, Joyce, il viaggio filosofico, Nietzsche, il viaggio religioso, i pellegrini, i grandi navigatori, gli esploratori, Charles Darwin, James Cook, Marco Polo, Vasco da Gama, Neil Armstrong, la luna, i viaggi galattici, i grandi archeologi, Winckelmann.

E poi il viaggio esistenziale di Rilke, il viaggio di Gandhi. Il viaggio claustrofobico di Franz Kafka. Quanti viaggi! In realtà, io penso che si viaggia per essere finalmente, per essere e basta. Viaggiamo per trovare la verità, ma poi scopriamo che la verità trovata è quella che abbiamo già dentro. L’idea del viaggio mi ha sempre affascinato. Io ho cercato di viaggiare sempre, anche – soprattutto – con la mente. Qualche anno fa ho immaginato il viaggio di un uomo disperato che inventa un modo per fare viaggiare i sogni. Ecco, per me viaggiare e sognare sono la stessa cosa. L’uomo ha sempre sognato di viaggiare ed ha viaggiato per sognare.

E il viaggio del sogno è la cosa più bella che si può fare. Io, anche quando non ho potuto amare, ho sempre sognato di amare. Ho viaggiato anche attraverso i viaggi dei poeti, degli scrittori. Attraverso i viaggi dei loro personaggi.

Ho viaggiato con le peregrinazioni di Pascoli, Leopardi, Dante, Rilke, con il viaggio di Ulisse in Omero, in Dante, in Pascoli, con il viaggio iniziatico misterico in Apuleio, il viaggio nei baratri dell’universo di Pascoli, i viaggi terrestri di Ungaretti, Montale, Saba, i viaggi mediterranei dei personaggi del Satyricon di Petronio, il viaggio lunare di Astolfo che va a prendere il senno di Orlando, io ho viaggiato con i miei studenti, ho fatto viaggiare loro e loro hanno fatto viaggiare me. I viaggi dei poeti maledetti, dei poeti romantici, i viaggi esotici di Gauguin, il viaggio psicologico di Zeno. Il viaggio della memoria di Proust. Il viaggio al centro della terra, il viaggio intorno al mondo. Il viaggio intergalattico.

Il viaggio che cerchi, il vero viaggio, cara Constance, è quello che esiste nei dintorni della tua anima. Bisogna viaggiare dentro prima di tutto, con l’animo, sostiene Seneca. Noi pensiamo che la lontananza dal luogo in cui si vive possa arrecare benefici all’animo. Questo perché siamo convinti che i motivi delle nostre insoddisfazioni provengono dall’esterno, e dunque riteniamo che cambiando luoghi e persone senz’altro muterà anche la nostra condizione interiore. Niente di più sbagliato.

Rispondendo nelle Epistulae Morales al suo amico Lucilio, Seneca gli dice che lui deve cambiare d’animo, non di cielo, se vuole eliminare la tristezza, e poi, citando Socrate, perché ti stupisci, dice, se i lunghi viaggi non ti servono, dal momento che porti in giro te stesso? Ti incalza il medesimo motivo che ti ha spinto fuori di casa, lontano. I nostri difetti ci seguono, dovunque andiamo.

Le cose che ci rendono tristi sono radicate nel nostro animo: a che serve cambiare posto e vedere persone nuove se non curiamo prima i nostri mali? Attraverserai oceani e mari, deserti e montagne, i tuoi difetti ti seguiranno dappertutto. Ti devi liberare del male che hai dentro, e poi ogni località diverrà un piacere. Non ti devi lasciar trasportare dalla moda, dalle correnti. Solo un animo saldo può farlo, e un animo può diventare saldo solo se considera la sua patria l’universo intero.

Per guarire dei tuoi difetti, per guarire del tuo male, tu devi essere il primo inquisitore di te stesso. “Per quanto tu puoi, metti te stesso in stato di accusa, inquisisciti, sostieni prima il ruolo di accusatore, poi di giudice, e, da ultimo, di difensore. Talvolta sii duro con te stesso”.

Per questo, in fondo, si viaggia: per incontrare noi stessi. Nessun luogo, nessun tempo colma l’anima se non lo desideriamo noi. Quando noi cominciamo a preparare un viaggio, vuol dire che ci prepariamo a incontrare noi stessi, che vogliamo capire la vera realtà dei mille nostri volti, delle mille nostre apparenze. Tutto ciò che vediamo in realtà è uno strumento per la conoscenza del nostro io profondo.

Vogliamo dare un senso al nostro essere nel mondo, al nostro passaggio planetario. Siamo pronti. Vogliamo capire il perché della nostra vita, dei nostri fallimenti, della nostra fragilità. Forse non lo sappiamo, forse all’inizio non ci è chiaro, ma è così. La verità. Se abbiamo amato, se abbiamo perdonato. Se abbiamo odiato. Vogliamo trovare la verità. È quello che ha fatto Francesco: ha viaggiato, ha peccato, ha conosciuto il dolore, la sofferenza, la morte. Ha viaggiato per trovare la via.

Quello che hanno fatto i grandi mistici, i santi, i grandi anacoreti: Mosé, Gesù, Mevlana, Buddha, Milarepa, Krisnha. Maometto. I grandi fondatori delle religioni sono i viaggiatori verso la purezza, quelli che hanno viaggiato tanto ma in realtà non si sono allontanati da sé stessi, dal silenzio. Per me e per te che siamo cattolici, il viaggio in fondo è il viaggio verso Dio, verso il Cristo-Gesù. Ma ognuno cerca il suo viaggio.

Che cosa cerchiamo noi col viaggio? Forse cerchiamo l’unione con l’essere, con la natura, con l’universo che ci ha creati. Il primo viaggio è sempre, credo, quello che si fa dentro qualcosa di elementare. Il mio primo viaggio fu verso e dentro la campagna. È stato sempre nella campagna, il mio viaggio nella natura, perché io non sono mai stato un uomo di mare, pur avendo sempre abitato a tre chilometri dal mare. Fui educato, fin da piccolo, alla terra, alla campagna.

Avevamo un piccolo podere di cinque ettari su una collina a pochi chilometri dal paese, e per me arrivarci con la famiglia era un’esperienza mistica, soprattutto in primavera, a piedi o con la piccola automobile di mio padre, con i mandorli in fiore e il profumo della zagara. Come in un sogno apparivano, via via che salivo la collina, ulivi maestosi e superbi, eucalipti alti come obelischi, la casa antica con i mattoni ocra e infine, alla mia sinistra, verso sud, un meraviglioso giardino delimitato da filari di fichidindia dove dentro c’era tutto – albicocchi, pruni, melograni, peschi, peri, fichi. Viaggiare in quel mare era per me sognare. Il mare. Era questo il mio mare. L’ho detto: non sono stato educato al mare.

Agli sport del mare, la pesca, il nuoto. Per molto tempo, il mare per me furono pochi metri dalla spiaggia alla marina dove sguazzavo come in una vasca, guardato dagli occhi burberi di mio nonno omonimo sul bagnasciuga, dove il grande vecchio consumava gli ultimi anni della sua esistenza godendo dei suoi nipotini vispi e curiosi.

La mia natura solitaria e schiva si è sposata subito con la mia curiosità intellettuale e il mio amore per lo studio. Allora ho compreso subito che il viaggio può avvenire anche all’interno della propria stanza. Non rifuggivo gli altri, ma, adolescente, amavo di più vivere fra le quattro mura della mia stanza. Anche adesso che ho cambiato luogo e distanza dal mondo, io vivo sempre nello spazio e nel tempo di una stanza. Anche adesso, tutto, tutto qui è silenzio. In questa stanza da cui ti parlo, tutto è silenzio. Ed è in questo silenzio che io incontro me stesso.

Ecco, questo è il mio viaggio: incontrare me stesso. Viaggiare per incontrare sé stessi, questa la verità. Tutto qui è silenzio: il chiacchiericcio sommesso dei turisti nelle vie del centro, i cori delle chiese, le campane, tutto è una rimodulazione del silenzio, dei mille modi di essere del silenzio. Le vie solitarie, le torri medievali, i palazzi, le case, tutto è avvolto dal tempo, tutto dà pace e silenzio. Il canto delle cicale, degli uccelli al mattino, il lieve soffio del vento, l’impercettibile fruscio delle fronde degli ulivi, dei ruscelli, le ombre lunghe dei cipressi al crepuscolo: tutto è silenzio.

La storia è lontana, è lontano il clangore della storia. Per chi viene dal mare, si entra in una dimensione di un altro tempo. Il silenzio è quello che hanno cercato i grandi mistici, gli anacoreti, gli eremiti… hanno scelto le lontananze smisurate per incontrare sé stessi, per incontrare Dio. Tutto ciò che vediamo in realtà è uno strumento per la conoscenza del nostro io profondo.

Vogliamo dare un senso al nostro essere nel mondo, al nostro passaggio planetario. Siamo pronti. Vogliamo capire il perché della nostra vita, dei nostri fallimenti, della nostra fragilità. Forse non lo sappiamo, forse all’inizio non ci è chiaro, ma è così. La verità. Se abbiamo amato, se abbiamo perdonato. Se abbiamo odiato. Vogliamo trovare la verità.

Per questo, poi, non mi fu difficile scrivere in un romanzo la vita nella solitudine di un prete, che aveva peccato perché invece di amare solo Dio aveva amato una donna. Ti racconto brevemente questa storia con le parole del prete.

“…L’amore ostacolato e sconfitto che si riscatta, che vince. Io ho amato solo lei, di un amore immenso e infinito, e per molto tempo ho dimenticato di avere peccato. Un amore rimasto intatto fra mille eventi, fra mille tormenti, fra rancori e odi, e sofferenze, una fiaba, che ha attraversato morte e distruzione, follia, dolore, magia e sortilegi, destini, un inno, un’epopea dell’amore. Non poteva essere la morte la misura della mia vita, la quantità di morte contata nelle chiese di questo paese. Un amore formidabile, lontano da tutti i tempi e da tutti gli spazi, troppo lontano, al di sopra di tutti i tempi e di tutti gli spazi, e per questo il più moderno. E per questo il più peccaminoso.

Abbiamo peccato? Sì. Ma ho pagato il mio peccato. Tranne qualche fugace permanenza a casa mia, ho vissuto per quasi quarant’anni in questa cella, ho dormito su questo materassino quasi consunto, consumato dal tempo, sotto questa finestra alta con le sbarre di ferro e il vetro appannato che sembra quella di una vera cella di un carcere, chiuso da questi muri umidi con le ragnatele agli angoli del tetto e l’intonaco ingiallito dal tempo che cade sempre sui mattoni cotti rotti, logorati dai secoli.

Un tavolo, una sedia, una lampada, un comodino polveroso, e questa striscia di luce che sempre entra e si diffonde come una spada affilata dalla finestra tagliando le penombre arcane: questo è stato sempre il mio regno. Mi sono nutrito quasi sempre del cibo buono ma monotono delle suore. L’ho consumato qui, in questa mia cella, non nel refettorio comune. Il caffè alle otto e alle undici, il pranzo alle tredici, il caffè o il the con i dolcini alle cinque del pomeriggio, anche così è passata la vita. Sic transit gloria mundi.

Mi dava tristezza l’essere con loro, sentivo di più la mia solitudine, perché dopo tanti anni tutto diventa monotono, anche la bellezza, la bontà, se non l’amore. Per mesi e mesi, per anni, per decenni, i miei spostamenti qui sono stati di pochi metri, dalla mia cella alla sacrestia, dal mio studio alla chiesa, al mio bagno personale, con le mie poche cose, il sapone, le lamette per la barba, qualche medicina, profumi.

…Per molto tempo ho immaginato l’assordante rumore della storia, il clangore del mattino, il clamore della folla al mercato, il vocio della gente nelle viuzze strette della città, il frastuono delle automobili, il formicolio delle persone che si incontrano e poi si perdono. Dalla mattina alla sera, e spesso anche di notte, in questo tempo senza tempo che è questo chiostro di principi e di duchi, di venerabili e di santi, ho immaginato i quartieri e le vie che lasciai bambino, il profumo del pane, della polenta di fave e delle minestre nelle strade, riprendevo quegli odori, li facevo uscire dai ricordi, li guidavo con mano sicura nella mia cella, li facevo rivivere.

Ho ricordato bambini esili, magri, ragazzine scalze salire la scalinata semicircolare del Monastero, sbucavano dagli angoli giù, all’improvviso, dai vicoli bui, dal nulla, e venivano a giocare qui davanti, sotto il porticato, nell’attesa dei dolci e delle focacce calde delle suore. Suore allegre, amorevoli, sorridenti. Ora le monache sono tutte vecchie, hanno perso il sorriso, stanno chiuse e rintanate nelle loro celle umide, dove non entra mai la luce.

Ho spesso ricordato sorrisi di ragazzine che riempivano un mattino tedioso, o una giornata senza senso. La memoria ha questo di bello, spesso trasforma i ricordi, dà loro un’altra sostanza; poi escono, i ricordi, con le loro gambe dalla mente, diventano altro. Per me sono stati un sostegno per non cadere nel baratro. Sì, le suore ora sono tutte vecchie. E il silenzio dei corridoi è spaventoso e terribile perché preannuncia il vuoto definitivo. La perdita della memoria. La scomparsa di questo Monastero significherà la scomparsa della memoria di questo paese.

Per questo motivo ho scritto un’opera immensa, di recupero della memoria. Sì, erano ragazze bellissime, le suore, me le ricordo, erano figlie di buone famiglie di grandi proprietari, avevano davanti matrimoni degni, ricchi, e invece abbracciarono eroicamente voti di povertà e di castità. Una vita di rinunce, una giovinezza superba dedicata a Cristo.

…Il silenzio. Sono stato catturato dal silenzio. Ben presto, ho preso confidenza col silenzio. Ho imparato che il silenzio non è quello assoluto benedettino dopo la compieta, il silenzio totale senza rumore: il silenzio è il rassicurante scorrere del tempo sempre uguale, l’incessante ripetersi dei movimenti e dei gesti, la messa e la preghiera, il rosario, la lettura dei salmi, i deboli rumori delle monache nelle loro celle, il bisbiglio del refettorio, il passo leggero nei corridoi, i flebili discorsi nella sala della pasticceria, nel laboratorio del ricamo, mentre fuori c’è il turbinio del mondo. Anche il sonno, i miei sogni sono stati divorati dalla regolarità di questo tempo, come lo stesso lavoro intellettuale a cui mi sono dedicato per tutta la vita.

…Anch’io per lungo ho tempo ho immaginato che la verità si nascondesse nell’arte che mi ha sempre circondato, e spesso anche oppresso: in questi stucchi barocchi di diavoli che con la bocca aperta invocano perdono, in questi santi con gli occhi sgranati, terribili, oh, questi affreschi di santi minacciosi che opprimono l’anima invece di elevarla, che fanno più paura dei diavoli! Ho cercato la verità in un pezzo di Sindone giunto qui da chissà dove, in un frammento di legno della croce dove fu crocifisso Gesù, in un ramoscello d’ulivo che toccò il Cristo, o in una pietra che un giorno il Diavolo scagliò a una suora poi beatificata, o in una lettera terrificante scritta da Lucifero dai più bui recessi dell’inferno!

Dove l’ha trovata, lei, la verità? Io non so se l’ho trovata, so dove l’ho cercata. L’ho cercata in questa biblioteca di mogano austera, sofferente, con le ante di vetro che chiudono e aprono il mistero, la storia, la santità, il misticismo, la teologia, il disdegno per la carnalità, la condanna del peccato, l’esaltazione della preghiera e dell’umiltà, della mortificazione della carne. Dalla mia esperienza di vita, ho imparato anche che le cose e i fatti che noi vogliamo che siano, cioè che siano visti o letti, amati, per nostra ambizione o desiderio di gloria, non contengono la verità.

Queste cose sono rappresentazioni delle nostre menti, dei nostri desideri, proiezioni dei nostri fini mondani. No, io ho cercato la verità nella scrittura, ma in quella scrittura in cui non si consuma una volontà di destino.

…Sì. Il mio mondo, per decenni, è stato questo, questo lo scopo, cercare la verità in queste storie di santi e di mistici, di predicatori, in queste carte filigranate originali del Sei e del Settecento, in questo cattivo latino e in questo zoppicante italiano. In queste scritture ora regolari, pulite, ora inclinate, complesse, che tuttavia celano sempre il mistero, in questo ridondante nominare delle cose, in questi manoscritti freddi composti nel silenzio di una cella, in questo immenso zibaldone del tempo dove non sempre facile è discernere tra storia e leggenda. In questa ecatombe grave del ricordo, in queste menti tormentate di uomini vissuti solo nel massacro della notte, in questo macello dei sentimenti e delle emozioni scolpito col sangue nelle pause terribili degli assalti dei diavoli.

…I diavoli stanno fuori. Per tutta la mia vita, io sono stato assalito dai diavoli. Diavoli son voluti entrare in questo Monastero, io li ho sentiti gridare nella notte, erano urli e gridi terrificanti, ululati di lupi, di lupi mannari, sibili di serpenti, latrati di cani randagi. Si arrampicavano sui muri come vampiri, erano immagini e suoni spaventosi, miagolii di gatti dagli occhi luciferini, bestemmie di uomini ripugnanti, cavalli scalpitanti sulle strade di pietra. Mostri scendevano fuori dalle finestre, dalle colline lontane, dalle vie tenebrose, oh, la furia bestiale, il clamore, lo strepito terribile degli animali strani nella notte! Li vedevo minacciosi sui tetti del monastero, volevano entrare nella notte, fantasmi, vampiri, draghi, mostri con pietre e bastoni, e spade ricurve, fendevano l’aria, battevano i canali, bastonavano, spiriti maledetti senza pace, tutti i miasmi dell’inferno.

…Non so se sono io a entrare nella storia o se è la storia a entrare in me. So solo che questo è un incontro che va fatto… Non basta solo difendersi dalle tentazioni della seduzione che si è abbandonata, né la solitudine e il silenzio da soli favoriscono l’incontro tra l’uomo e Dio. Neanche tutta la cultura del mondo dà la salvezza, o la gloria terrena. L’amore da solo non salva, salva solo Dio, e Dio è un cammino verso la purezza. Sì, bisogna essere sempre in cammino, verso la purezza. Ecco, questo dev’essere il destino dell’uomo, questo io sono: un viaggiatore verso la purezza”.

È un brano tratto da uno dei libri che ti ho regalato. Se lo hai già letto, non ti saranno nuove queste parole. È la parte finale in cui il prete protagonista parla del silenzio e della verità, e dopo avere peccato, si salva. Perché l’incontro con Dio, se si vuole, avviene sempre. Ecco, ti ho dato un’idea di come concepisco io il silenzio, e la verità, e l’amore, e la vita, e la stessa follia. E Dio. Non è mai tardi per salvarsi. L’importante è essere in viaggio. Il viaggio. Il viaggio verso la purezza.

 

Tratto e riadattato dal primo capitolo del mio libro, Casto, incontaminato amore

 

Subscribe
Notificami
0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments