Lo scrittore, l’impegno civile, il socialismo, la morte (e forse la vita) cattolica

di Francesco Bellanti

LEONARDO SCIASCIA, IL MAESTRO DI RACALMUTO

Parlare in poche pagine di Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989), uno dei più grandi letterati e scrittori del Novecento italiano ed europeo, figura d’intellettuale civile molto complessa, poeta e novelliere, scrittore di polizieschi, di mafia, saggista letterario e storico, impegnato sul piano politico e parlamentare, giornalista, drammaturgo, critico d’arte, molto vicino alla cultura francese e all’Illuminismo, non è affatto facile, ma noi, che siamo come sempre coraggiosi, ci proveremo. Anche perché, noi, avendo esercitato per più di quarant’anni l’attività di docente di lettere nei licei, diciamo che lo abbiamo intensamente frequentato. 

L’impegno civile

La prima cosa che possiamo con certezza osservare è che, pur essendo influenzato molto dal razionalismo illuminista, Sciascia fu sempre pessimista e non ebbe mai certezze, influenzato dalle aspre contraddizioni della sua terra e dal relativismo conoscitivo di Luigi Pirandello, ragion per cui per Sciascia la realtà e la storia si configurano sempre come un labirinto inestricabile di impostura, verità e menzogna. Anche in politica Sciascia ebbe un percorso non sempre lineare, oscillando prima tra marxismo o comunismo moderato e radicalismo liberale, poi tra garantismo e socialismo democratico, anche se, in fondo, non solo negli ultimi anni, egli fu essenzialmente socialista. Fu consigliere comunista a Palermo e deputato radicale, europarlamentare indipendente. Per quanto riguarda il suo impegno civile, dobbiamo inevitabilmente cominciare dal rapporto intenso che egli ebbe con un altro grande intellettuale e scrittore, Italo Calvino.

E ci sarebbe molto da scrivere sui rapporti tra Sciascia e Calvino, che non sempre furono d’accordo su problemi politici rilevanti, come per esempio nel caso del processo alle Brigate Rosse negli anni Settanta, quando Sciascia curiosamente si schierò con il grande pessimista storico, il poeta Eugenio Montale, che manifestava solidarietà ai giurati popolari che si erano sottratti al loro compito. Mentre Calvino sosteneva che proprio quando lo Stato si dimostra fragile si devono manifestare sentimenti di solidarietà civile, Sciascia, anche contro il magistrato e storico Alessandro Galante Garrone, difese a oltranza il senatore a vita Montale, affermando che per quello Stato di omertà e connivenze mai avrebbe fatto il giudice popolare. Comportamento coerente, in fondo, quello del dissidente Sciascia, che non accettava i dogmi tipo “o con lo Stato o con le BR”. Diciamo questo per evidenziare la distanza siderale che corre tra il vuoto intellettuale di oggi e l’impegno politico, etico, di allora di menti poderose come quelle di Montale, Sciascia e Calvino. E proprio sull’impegno civile nacquero i primi scontri – ma anche una grande amicizia – tra Sciascia e Calvino. Sciascia, benché più giovane di due anni dello scrittore delle “Cosmicomiche”, era alle prime armi come scrittore mentre Calvino era già scrittore affermato ed era lettore dell’Einaudi. A Sciascia, che sarebbe stato poi un innovatore con i suoi polizieschi e i romanzi inchiesta – ed ai quali avrebbe anche dato dignità letteraria – e avrebbe scritto pamphlet e saggi che scatenavano dibattiti e polemiche, il grande scrittore de “Il visconte dimezzato”, che peraltro aveva già preparato il terreno per la pubblicazione de “Le parrocchie di Regalpetra” per Laterza, scriveva di essere poco convinto sul racconto “Stalin”, dove secondo lui c’era troppo giornalismo e poca narrazione, e anche un po’ di macchiettismo e di superficialità. Anche “Il quarantotto” gli parve sociologico, facile, deludente, anche poco coraggioso, scolastico, brancatiano, mentre gli piacque “Gli zii di Sicilia”. I tre racconti poi furono pubblicati da Vittorini nella collana dei “Gettoni”. 

Forse lo scrittore di “Marcovaldo” percepiva Sciascia troppo engagé, impegnato, per essere un vero scrittore, e d’altra parte il maestro di Racalmuto non faceva mistero di essere posseduto dal dèmone del presente, né mai avrebbe cambiato rotta, perché anche in seguito tutto ciò che avrebbe raccontato sarebbe stato nel segno dell’impegno e in chiave di contemporaneità. La prosa esatta, chiara, precisa, cinematografica di Sciascia non esaltava molto i critici, nonostante fosse sempre sorvegliata e intensa, con “una gran limpidezza di segno” disse Calvino, era poco letteraria, essenziale, senza entusiasmi e ricercatezze stilistiche o barocche. Privilegiava la prosa paratattica, insomma era tutto l’opposto di un Gadda, e questa era considerata una deriva dello sguardo troppo interessato di Sciascia alla vita civile, alla società, alla politica. Era la maniera illuministica e razionale di Sciascia di decifrare la realtà, che probabilmente cominciò subito a capire Calvino, che poi ammise, in occasione della pubblicazione delle lettere all’amico, di avere commesso nei confronti del Racalmutese “la sicurezza tranchant dei giudizi tipica della giovinezza, che cede il posto a poco a poco a un atteggiamento di perplessità generale, imparata attraverso gli anni, un po’ da Sciascia, un po’ dallo spettacolo del mondo”. E, infatti, dopo aver letto “Il giorno della civetta”, un entusiasta Calvino scrive a Sciascia in una lettera del 23 settembre 1960 che egli aveva fatto quel che nessuno sapeva fare in Italia, il racconto documentario, e che aveva raggiunto un perfetto equilibrio di “vivezza visiva, finezza letteraria, abilità, scrittura sorvegliatissima, gusto saggistico quel tanto che ci vuole e non più, colore locale quel tanto che ci vuole e non più, inquadramento storico nazionale e di tutto il mondo intorno che ti salva dal ristretto regionalismo, e un polso morale che non viene mai meno”. Certo, Calvino si augurava che Sciascia desse fuoco alle polveri tragico-barocco-grottesche in chiave evolutiva, ma questo avvenne solo in qualche occasione, nel “Contesto” e in “Todo modo”, ma non sul piano formale. Così l’illuminista Calvino rimane sul fantastico-romantico e l’illuminista Sciascia, nonostante il relativismo di Gogol via Brancati e quello di Pirandello, in una prosa chiara e levigata che però sotto ha ombre più terribili di quelle di Calvino.

Lo scrittore di mafia e del poliziesco

Per quanto riguarda questo aspetto della sua attività letteraria, abbiamo la sensazione, se non la certezza, che Leonardo Sciascia sia uno degli scrittori più citati, soprattutto nei social, e meno letti. Sciascia, poi, è spesso citato come mafiologo, ma Sciascia non era un mafiologo, non dava mai soluzioni sulla mafia, era molto di più. Dire che Sciascia è un esperto di mafia vuol dire marginalizzarlo. E questo è un vero peccato, perché Sciascia è uno scrittore che col passare del tempo si apprezza sempre di più, non solo per l’alta qualità letteraria della sua opera, ma per la sua lucidità e profondità d’intellettuale, della quale, in questo tempo di nani e di analfabeti, di politici corrotti e insipienti, si sente tanto la mancanza. Sciascia è stato un autore che ho frequentato molto durante la mia attività di docente, e di lui ho parlato molto sui giornali. Non mi ha mai interessato Sciascia scrittore di mafia, ma Sciascia scrittore civile, dalla prosa chiara e levigata, esatta, precisa, cinematografica, che forse non esaltava molto i critici, come abbiamo detto, nonostante fosse sempre sorvegliata e intensa. Qualcuno la giudicava poco letteraria perché essenziale, senza entusiasmi e ricercatezze stilistiche o barocche. Calvino, suo grande amico e scrittore che s’intendeva di scrittura, come abbiamo osservato prima, sosteneva invece che questo privilegiare la prosa paratattica era una grande qualità, “una gran limpidezza di segno”. Insomma, era tutto l’opposto di un Gadda, ma era proprio questa scrittura necessaria allo sguardo interessato di Sciascia alla vita civile, alla società, alla politica, la maniera illuministica e razionale di Sciascia di decifrare la realtà, una scrittura bella, lineare, cinematografica dicevamo, senza orpelli, chiara, elegante. Sciascia è stato un innovatore con i suoi polizieschi e romanzi inchiesta, ai quali ha dato dignità letteraria, e ha scritto pamphlet e saggi che scatenavano sempre dibattiti e polemiche. Non saprei cos’altro aggiungere a quanto detto, se non ribadire che affascinano ancora le sue idee sulla storia, non solo siciliana, sulla società, sulla vita politica. Sulla religione. E su quest’ultimo aspetto, bisogna chiarire. Sciascia non era ateo, forse non visse da cattolico anche se morì da cattolico, come vedremo,  aveva comunque una forte tensione religiosa, diciamo pure cristiana, nel suo ricercare sempre la verità. Era un cristiano senza chiesa, si disse. 

Il grande narratore solitario, l’illuminista ribelle, il grande inquisitore, il grande laico, e soprattutto maestro d’impegno civile, che denunciava la realtà sociale della sua amata Sicilia, era di poche parole nella vita, pragmatico, sereno, lucido. Nell’ultima parte della sua vita, diciamo dal rapimento di Moro nel 1978 alla sua morte, Sciascia, nonostante le brevi esperienze come consigliere comunista a Palermo e deputato radicale, si avvicinò molto ai socialisti, in tutti quegli anni fu molto vicino al leader Craxi e a tanti altri politici socialisti, ma socialista lo fu sempre, anche se, come dice Matteo Collura, era un socialista senza partito. Che votasse socialista, non ne fece mistero lo stesso Sciascia. Bettino Craxi lo aveva più volte invitato a continuare il suo impegno tra i socialisti, ricevendone però risposta negativa. Craxi, quando era Presidente del Consiglio, fece visita il 20 giugno del 1986 allo scrittore nella sua casa della Noce. Lo avvicinavano ai socialisti le battaglie per i diritti civili, le posizioni comuni per esempio sul caso Moro, sul caso Tortora, sui pentiti, sui professionisti dell’antimafia, e su tante altre battaglie. Era un socialista particolare, uno dei più grandi intellettuali del secondo Novecento, piuttosto pessimista, sulla scia di tutta la letteratura siciliana degli ultimi due secoli, da Verga a Pirandello, a Consolo. Una notizia che mi ha particolarmente colpito – leggendo di recente il bel libro di Gaspare Agnello (anche lui socialista) su di lui, gran bella testimonianza di un amico devoto e carissimo – è quella che Sciascia, per un diverbio con il professore d’Italiano, fu bocciato al primo esame d’italiano alla Facoltà di Magistero dell’Università di Messina, cosa che gli fece abbandonare gli studi. La laurea, poi, in seguito a un forte interessamento dello stesso Agnello, gli fu concessa, honoris causa, dalla Facoltà di Lettere e Filosofia della stessa Università nel 1988, ma la cerimonia – per le cattive condizioni di salute dello scrittore – si svolse solo l’8 giugno del 2000, molti anni dopo la sua morte, avvenuta il 20 novembre del 1989. Inconsapevolmente, quel professore di Italiano, che si chiamava Catalano, ha fatto un bene alla comunità mondiale, perché se avesse continuato gli studi, il maestro di Regalpetra forse avrebbe sprecato la sua esistenza come un marginale professore universitario, se non come un oscuro e dimenticato professore di lettere di provincia.

Un siciliano a Parigi – Sciascia e l’Illuminismo

Che Leonardo Sciascia amasse la cultura francese, e in particolare quella illuministica, questo si sapeva, e non è mistero che lo scrittore di Racalmuto si definisse volterriano e illuminista, e d’altra parte tutte le sue opere e tutta la sua azione civile sono segnate da queste matrici culturali. Gli scrittori e gli intellettuali di tutto il mondo hanno amato la cultura francese, e gli italiani non sono stati da meno. Fra gli italiani c’era chi, come lo scrittore Vincenzo Consolo – grande amico di Sciascia – amava il Romanticismo francese, chi, come Sciascia, l’Illuminismo, chi, come Manzoni, ambedue le culture. Nessuna meraviglia, per carità, gli scambi culturali fra la Francia e l’Italia sono sempre stati intensi e costanti. 

Per Sciascia è stato naturale l’incontro con Parigi, per la sua multiculturalità, la sua multietnicità, il suo essere tanti paesaggi diversi; lui, uomo razionale e progressista, che si sentiva anche arabo, figlio di una Sicilia che aveva dietro tanta storia e tante culture, tante identità, tante lingue, tanta mediterraneità, lui, figlio di una terra di grande accoglienza dove vivevano insieme latini, greci, arabi, normanni, svevi, francesi e tanti altri, lui si trovava a suo agio a Parigi. L’autore di “L’Affaire Moro” e di “Todo Modo”, de “Il giorno della civetta” e di “A ciascuno il suo”, lo scrittore dal forte impegno civile e politico, che con i suoi romanzi e i suoi saggi ha raccontato un pezzo fondamentale di storia italiana, che ebbe il primo contatto con la cultura francese giovanissimo grazie a Vitaliano Brancati, insegnante all’Istituto magistrale di Caltanissetta, amava girovagare per le rues e le librerie di Parigi. È in questa città di periferia, Caltanissetta, ma allora pregna di grande cultura, che Sciascia scopre autori come Diderot, Voltaire, Montesquieu, e attraverso di essi comincia a sviluppare una prima forma di coscienza civile. Niente di sorprendente, dunque, se Parigi – dove Sciascia trascorre parecchi mesi l’anno – diviene per lo scrittore l’ideale assoluto di città. Parigi, con le sue contaminazioni arabe dovute certamente al passato colonialista francese, doveva ricordargli la sua Palermo. All’Illuminismo francese e a Voltaire Sciascia dedica forse il suo capolavoro, “Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia”, un romanzo un po’ autobiografico pubblicato nel 1977, che si rifà al celebre Candido, o l’ottimismo di Voltaire, del 1759. In questo romanzo è tutto Sciascia, ed è tutto Voltaire. Per l’ironia che percorre l’intera vicenda, per il nome del protagonista, Candido Munafò come Candide, per la Parigi come sfondo dell’ultima parte, per il richiamo costante a uno dei massimi esponenti dell’Illuminismo, simbolo dei Lumi, sepolto nel Pantheon, per la struttura agile e veloce della narrazione, per la critica sorniona e nichilista verso la società. D’altra parte, questo rapporto d’amore non è certamente univoco. Leonardo Sciascia è da sempre uno degli autori maggiormente amati e tradotti in Francia. Molti omaggi lo scrittore siciliano ha ricevuto dalla Francia e da Parigi. Nel 2016, tra le altre cose, è stato pubblicato il volume “Sciascia e Parigi. Lo scrittore nella città”, che è la riorganizzazione degli Atti della Giornata di Studi “Sciascia e Parigi” tenutasi il 9 novembre 2009 all’ Istituto Italiano di Cultura . Numerosi altri incontri e iniziative, e dibattiti sull’autore di Racalmuto si sono tenuti, anche per il trentennio della sua morte, nella capitale francese. Parigi, una città che lo ha profondamente amato e che lui altrettanto intensamente ha amato, e per la quale scrisse: “Il fatto è che, per chi la ama, il rapporto con questa città è un rapporto di memoria. Di memoria trasmessa, di memoria riflessa; ma di memoria. Come se vi avessimo trascorso un tempo della nostra vita simile o parallelo all’adolescenza, alla giovinezza: per cui nella città reale, nei soggiorni reali, è un continuo riconoscimento, una continua verifica, delle cose già viste, già vissute, già amate nella città ideale, negli ideali soggiorni.”

Una morte cattolica

Se è vero che è la morte che dà il senso definitivo di una vita e sigilla un destino, la morte di Sciascia testimonia che lui non era ateo, forse espresse critiche sui comportamenti ecclesiastici nella storia, certo morì da cattolico.

Poco prima di morire, a Palermo il 20 novembre 1989, a causa di una malattia che lo affliggeva da tempo (nefropatia da mieloma multiplo con insufficienza renale cronica), chiese i funerali in Chiesa, e non solamente per “non destare troppo scandalo” attorno alla famiglia a Racalmuto. Sulla sua bara fu messo dalla moglie un crocifisso d’argento, simbolo di una religione e di quel Dio che egli aveva sempre rispettato. Pur non avendo praticato da cristiano la chiesa, egli non fefe mai professione di ateismo. “Mi guidano la ragione, l’illuministico sentire dell’intelligenza, l’umano e cristiano sentimento della vita, la ricerca della verità e la lotta alle ingiustizie, alle imposture e alle mistificazioni», scrisse. È sepolto nel cimitero di Racalmuto, suo paese natale; sulla lapide bianca una sola frase, questo epitaffio: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”, citazione di Auguste de Villiers de L’Isle-Adam. Epitaffio poco  laico e agnostico, bensì religioso, nel contesto forse di una clamorosa conversione religiosa di Sciascia, come accade spesso ai Grandi, fors’anche epitaffio di speranza e di rimpianto. Perché su un manoscritto, conservato dalla famiglia, Sciascia scrisse:

“Ho deciso di farmi scrivere sulla tomba qualcosa di meno personale e di più ameno, e precisamente questa frase di Villiers de l’Isle-Adam: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”. E così partecipo alla scommessa di Pascal e avverto che una certa attenzione questa terra, questa vita, la meritano.”

Subscribe
Notificami
0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments