L’intelligenza artificiale non è così intelligente

L’intelligenza artificiale non è così intelligente

di Pietro Licciardi

NON RIPONIAMO TROPPA FIDUCIA NELL’ENNESIMO GIOCATTOLO TECNOLOGICO

Da qualche tempo si fa un gran parlare dell’Intelligenza artificiale (IA), il nuovo giocattolo tecnologico che secondo certuni dovrebbe essere in grado di risolvere tutti i problemi. Ebbene ci spiace deludere i fans ma l’intelligenza artificiale allo stato attuale non è affatto intelligente e non è affatto in grado di risolvere i problemi: anzi, in molti casi li crea. 

La cosiddetta intelligenza artificiale non è altro che la capacità di elaborare masse enormi di dati dai quali estrapolare “modelli” il più possibile simili a quelli che la macchina è stata “addestrata” a riconoscere e riprodurre. Questo funziona abbastanza bene con le immagini – in rete circolano ormai numerose immagini elaborate mediante l’IA – e i testi, come sanno gli utilizzatori dell’ormai celebre Chat GPT, che tuttavia non fornisce altro che un collage di testi assemblati in maniera più o meno coerente già presenti in rete. 

Al contrario l’esperienza mostra che l’”intelligenza” artificiale funziona molto meno quando si avventura nel campo delle previsioni. Negli Stati Uniti ad esempio molti tribunali si affidano alla IA per stimare il rischio potenziale di recidiva di persone arrestate che potrebbero essere rilasciate. Ebbene, non di rado accade che chi viene rimesso in libertà torna a delinquere. Perché? 

I dati coi quali è stata addestrata la macchina sono viziati dal pregiudizio del programmatore che probabilmente ha inserito informazioni negative sulle persone di colore in quanto sono tanti i neri che in America finiscono in prigione e tanti anche i recidivi. Così neri che avrebbero condotto una vita tranquillissima sono rimasti dietro le sbarre mentre magari dei bianchi messi in libertà hanno compiuto, appena fuori dal carcere, furti e persino omicidi.

E’ lo stesso pregiudizio – questa volta indotto dall’indottrinamento politicamente corretto – che vizia il programma Gemini di IA prodotto da Google al quale se si chiede di produrre immagini di vichinghi mostra degli afro-americani vestiti da vichinghi; se si chiede immagini di cavalieri medievali, lui li fa ugualmente neri, al massimo asiatici o mostra donne in armatura; Se si chiedono immagini di pontefici, lui produce un papa nero e una donna papa indiana. Insomma, una barzelletta.

Fa molto meno ridere invece il rifiuto di Gemini di condannare la pedofilia, una notizia che ha fatto il giro del mondo in pochi minuti e ha contribuito a produrre un crollo del titolo di Google in borsa. 

Del resto Google stessa in un proprio testo sull’intelligenza artificiale ammette che l’IA può essere un buon veicolo di indottrinamento: «Gli algoritmi e i dataset dell’intelligenza artificiale possono riflettere, rafforzare o ridurre i pregiudizi ingiusti. Riconosciamo che distinguere i pregiudizi equi da quelli ingiusti non è sempre semplice e varia a seconda delle culture e delle società. Cercheremo di evitare impatti ingiusti sulle persone, in particolare quelli legati a caratteristiche sensibili come razza, etnia, sesso, nazionalità, reddito, orientamento sessuale, abilità e credo politico o religioso». Ed ecco serviti la papessa, le cavaliere nere, i vichinghi afro e il rifiuto di condannare la pedofilia. 

Anche la cosiddetta intelligenza artificiale dunque non è nulla di realmente neutrale, né tantomeno indipendente dall’ideologia dei suoi creatori, come del resto la scienza, che come costatiamo in materia di ambiente e clima sta dimostrando di essere sempre più l’ancella dei poteri economici-finanziari, o la medicina, che si è piegata in occasione della pandemia, ai diktat della politica e delle multinazionali del farmaco.

Il nostro non è qualunquismo o relativismo ma la costatazione, con Gilbert K. Chesterton, che «nella misura in cui la religione si allontana da noi, di altrettanto si allontana la ragione» e che «chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente perché comincia a credere a tutto».

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