Dalle nostre religioni dei sentimenti alla vera religione

di Marco Andreacchio

SIAMO AGLI ANTIPODI DEL CRISTIANESIMO CLASSICO

Nel nostro mondo moderno, ossia cartesiano, le religioni dovrebbero coesistere tutte “soggettivamente” o in termini di sentimenti. Il cristianesimo stesso diviene, o ci si attende che sia una religione dei sentimenti, o piuttosto il paradigma modernizzante per tutte le altre religioni, anche le più recalcitranti, come l’Islam. Cristo in quanto presenza di Dio nell’uomo si converte nel nostro sentimento di Dio, per cui saremmo riempiti dalla presenza di Dio allorché sentiamo più intensamente, anche se i nostri sentimenti dovranno essere tenuti sotto controllo dalla nostra “nuova scienza” tecnologica, affinché non giungano ad alimentare qualche pericoloso fondamentalismo.

Ci troviamo ora pressoché agli antipodi del cristianesimo classico, per il quale Dio è presente nell’uomo nel pentimento, attraverso una croce che in termini filosofici è dubbio radicale aperto alla verità (dubbio zetetico). Dio stesso ci apre alla verità, alla sua presenza, che non “sentiamo” direttamente, ma diviniamo nell’atto stesso di negarci, del negare il nostro senso di certezza, i nostri sentimenti. Noi “vediamo” la presenza di Dio attraverso la fede; ci fidiamo della sua presenza dal momento che non ne abbiamo una conoscenza diretta, non possedendola come nostra. Ci rivolgiamo a Dio “all’indietro”, dubitando di ciò dinanzi al quale ci troviamo, in risposta ad una presenza invisibile che nega la nostra stessa presenza, anche se la negazione è qui segno di redenzione in Dio. Come ci invita a scoprire il S. Bonaventura dell’Itinerarium mentis in Deum, nel mentre che siamo trasportati in Dio, Dio cessa di essere in noi; emergendo noi stessi in Dio, il nostro contenuto “soggettivo” viene a coincidere con l’orizzonte finale, forma o contesto primo di ogni senso.

La redenzione attraverso la fede è resurrezione attraverso il dubbio aperto alla presenza di un Dio che ci si fa conoscere attraverso i suoi vicari, i suoi profeti, poeti scelti da Dio. Il nostro sapere si trova così rimosso dalla verità; conosciamo “per ispecchio, in enimma” (per speculum in ænigmate – 1 Corinzi 13.12), in modo riflesso, con parole che ci rimandano alla loro sorgente intellettiva. Parole, metafore di muse, che non sono semplici “lettere che uccidono”, ma percorsi di risveglio, veicoli che ci conducono verso un luogo in cui conosceremo noi stessi come siamo conosciuti ora da Dio (ibid.).

Le nostre religioni sentimentali ci alienano dall’impulso primordiale di ogni legame religioso, dove scopriremmo che i nostri sentimenti non sono altro che affetti volgari da negare riflessivamente sul nostro cammino di ritorno a Dio, man mano che ascendiamo nell’attività intellettiva divina. Proviamo sentimenti così che si possa rintracciarne la fonte razionalmente, ossia per una ri-flessione del senso; in modo che la nostra stessa “soggettività” o certezza egoica sia convertita dalla dimensione di un piacere alienato dal suo contesto reale, a quella di un desiderio  che prospera nel suo proprio contesto. Siamo allora chiamati a vivere nel nostro contesto stesso, forma essenziale della nostra esistenza. Qui pulsa realmente “la vita della mente” (mentis vita) costituente, aldilà di ogni vacuità retorica (nomina nuda), un discorso vivo, Parola vivente eternamente in Dio.

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La Religione, oggi molti la “percepiscono”, prendendo solo quello che non urta le abitudini.
Affidarsi a Gesu, è un’altra Via.
Più faticosa e forse meno “appagante”.