La moda cinese brucia più petrolio di navi e aerei

di Pietro Licciardi

IL 90% DELL’INCREMENTO DELLA DOMANDA DI GREGGIO E’ LEGATO ALLA CHIMICA E NON ALLE AUTO

Che l’Europa e gli ambientalisti non ce la raccontano giusta quando blaterano di riscaldamento globale e rivoluzioni green lo abbiamo già detto un sacco di volte manifestando il fondato sospetto che questi tristi figuri, più che per i destini del pianeta lavorino per le oligarchie multinazionali che hanno fiutato i colossali affari che si nascondono dietro le farneticazioni ecologiste. 

Si pensi ad esempio alla follia tutta europea delle auto elettriche, che col pretesto di una irrisoria e irrilevante riduzione della CO2 e il risparmio di carburanti, rischia di affondare l’intero settore dell’auto a favore della Cina, grande produttrice di batterie e in grado di produrre automobili a costi molto inferiori rispetto a quelli occidentali. Intanto grando fiumi asiatici e distese immense di terreni stanno morendo a causa degli scarti tossici prodotti dalla estrazione e lavorazione dei materiali che servono alla fabbricazione degli accumulatori che fanno muovere auto, biciclette, motorini e monopattini.

Ma la presa in giro ambientalista non si ferma qui, Il Sole 24 Ore del 6 Aprile ha pubblicato un articolo in cui si spiega che il 90% dell’incremento della domanda di greggio nel mondo non dipende dai consumi delle automobili ma dalla chimica. L’attenzione si concentra sulla produzione cinese di fibre sintetiche che secondo Bloomberg è aumentata di 21 milioni di tonnellate dal 2018. In gran parte responsabili di questo incremento sono colossi dell’abbigliamento come Shein e Temu, promossi in Internet da influencer con la nuova fissa del “body positivity”. 

Capi di abbigliamento, come le magliette vendute a tre euro, sono prodotti con largo uso di sostanze chimiche. Vestiti, quelli proposti dai marchi del fast fashion, zeppi di poliestere, materiale che deriva dal petrolio, e che oltretutto è responsabile del rilascio di microplastiche nell’ambiente.

Il Parlamento europeo già nel 2020 stimava che l’industria della moda fosse responsabile delle emissioni globali di CO2 più dei voli internazionali e delle spedizioni marittime messe assieme ma si continua a fare la guerra ai possessori delle pericolosissime Panda a benzina, che secondo lorsignori dovrebbero sparire per far posto all’elettrico. E se anche paesi come la Francia stanno pensando di tassare i capi di abbigliamento per limitare l’industria del fast fashion cinese l’imprese appare ardua se pensiamo che Shein è la applicazione più scaricata in Europa e che i suoi profitti sono saliti a 2 miliardi di dollari mentre nel solo 2023 ha venduto abiti per 43 miliardi di dollari.

Chissà quanti sono i gretini che scendono in piazza a protestare per la salvaguardia dell’ambiente vestiti Shein e Temu, per rifornire le quali diverse raffinerie cinesi come la Rongsheng Petrolchemical e Hengli Petrolchemical hanno speso miliardi per costruire nuovi impianti che producono componenti come l’etilene. Non solo ma enormi discariche a cielo aperto di magliette, jeans e altri indumenti invenduti crescono nei luoghi più remoti, e una volta incontaminati, del mondo, come il deserto Atacama nel nord del Cile o lungo le spiagge del Ghana. 

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