Il Buon Pastore

di don Ruggero Gorletti

QUARTA DOMENICA DI PASQUA

Dal vangelo secondo Giovanni 10,11-18
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

COMMENTO

Quando il Vangelo ci parla di Dio, quando ci parla di Gesù, usa delle immagini, non parla in modo esplicito. Fa così per esprimere dei concetti che non possono essere compresi fino in fondo. In questo modo noi possiamo capire qualcosa di Dio senza avere l’impressione di averlo compreso del tutto, di averlo definito.  Nessuno può pensare che Dio sia veramente un pastore, un seminatore, o quant’altro. Però in questo modo riusciamo a intuire qualcosa su Dio.

Il vangelo di oggi ci parla del Buon Pastore. Cosa fa il pastore con le pecore? Le custodisce, le guida, da loro il cibo, le cura quando sono in difficoltà, le difende dai pericoli. In una parola fa sì che possano vivere. Il pastore si prende cura delle pecore, ci tiene a loro, fino al punto da dare la vita per le pecore. Tutta questa attenzione è dovuta al fatto che le pecore sono sue.

Usciamo un attimo dalla metafora del pastore: il pastore è Gesù, il pastore è Dio. Le pecore siamo noi. Noi siamo custoditi da Dio, Egli ha cura di noi, si preoccupa della nostra salute, del nostro bene, della nostra vita. Dio non ci abbandona mai. Si potrebbe però obiettare: se Dio ha tanta cura di me, perché mi succedono cose negative? Perché mi sono ammalato? Perché quella persona a me cara è morta? Il nostro orizzonte, lo abbiamo già detto altre volte, non sono i pochi o tanti anni (comunque pochi!) che passiamo in questo mondo, ma la vita eterna. Dio non vuole che noi perdiamo questo appuntamento, che è il più importante della nostra vita. Senza imporci nulla (Dio non ci obbliga ad accogliere e a ricambiare il suo amore) Egli cerca in tutti i modi di darci quello che è necessario perché noi ci salviamo.

Questa cura, questa attenzione del pastore verso le pecore nasce dall’amore: «conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me». Si potrebbe obiettare che qui si parla di conoscenza, e non di amore. Ma nel linguaggio della Bibbia conoscenza e amore sono in strettissima relazione: non si può conoscere nulla e nessuno senza amore, e, viceversa, non si può amare se non ciò o chi si conosce. La conoscenza nella Bibbia non è una pura operazione intellettuale, ma coinvolge tutto l’essere umano, al punto che, spesso, per definire l’atto coniugale, che è il momento più profondo della relazione umana, si usa la parola «conoscere».

Accettare di essere pecore, dice Sant’Agostino, ci permette di essere custoditi dal pastore. Se rifiutiamo la custodia amorosa del pastore, di Dio, se rifiutiamo di rimanere nel suo recinto, la Chiesa, non siamo più custoditi dal pastore. Siamo esposti ai lupi, siamo esposti ai pericoli, in particolare al pericolo di perdere la vita eterna.

C’è un altro personaggio che può prendersi cura delle pecore: il mercenario. Ma il mercenario non è pastore, tra lui e le pecore non c’è un rapporto di amore. Le pecore non sono sue. Non si cura di loro fino in fondo. Quando la cura delle pecore diventa pericolosa il mercenario si tira indietro. Le pecore sono solo un mezzo per potersi realizzare, per guadagnare. Infatti nel momento del pericolo le abbandona al lupo, che le rapisce e le disperde.

Fuor di metafora questo brano ci dice che solo Cristo ci da quanto è necessario alla vita, ci da ciò che serve per la vita eterna, per salvarci l’anima. Solo nel recinto della Chiesa siamo al sicuro dagli attacchi dei lupi, di chi ci vuol togliere la cosa più preziosa che abbiamo: la vita eterna. È inutile che noi cerchiamo altrove ciò che solo Cristo e la Chiesa possono darci: la vita vera, nella sua pienezza nella vita eterna, ma in qualche modo anche qui, pur con tutti i limiti, le sofferenze e i dolori che la nostra esistenza su questa terra porta con sé. Ce lo dice anche San Pietro nella prima lettura che abbiamo ascoltato, dagli Atti degli Apostoli: «in nessun altro c’è salvezza. Non c’è infatti sotto il cielo altro nome dato agli uomini nel quale è stabilito che noi possiamo essere salvati». È inutile che noi chiediamo ad altri, ad altre cose, ad altre religioni, ad altre filosofie, ad altri modi di impegnare la nostra vita quello che solo Gesù Cristo può darci: il senso della nostra vita, la pace, la gioia. In qualche modo e con molte limitazioni su questa terra, e in modo pieno, perfetto e definitivo nel regno dei cieli.

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