Anche all’inferno si fa del bene: una testimonianza dal reparto Covid

 

Di Enzo Vitale

È di qualche giorno fa la notizia di un medico che, infettato dal Covid è passato dall’essere colui che cura a colui che deve essere curato.

Pur avendo contratto il virus, nel reparto Covid in cui si è ritrovato rinchiuso, ha messo a disposizione la sua scienza, animata dalla volontà di mantener fede a quel giuramento a cui non tutti sembrano dar molto conto: il giuramento di Ippocrate.

Oggi raccogliamo un’altra testimonianza viva di come, oltre al semplice “fare il proprio dovere”, si possa divenire validi strumenti nelle mani di Dio, quando, nel proprio servizio, nel proprio lavoro, si mette il cuore e si lascia sbocciare la carità. 

Quanto è vero che tutte le tenebre del mondo non potranno mai nascondere la luce di un cerino se decidiamo di farci bruciare dal fuoco d’amore di Dio! 

Buona lettura, con l’invito a pregare sì per le vittime, ma anche per coloro che le assistono: che siano capaci, sempre, di essere carichi di umanità oltre che di competenza e professionalità.

***

Sono un’infermiera.

E al giorno d’oggi essere un’infermiera non è una cosa semplice.

Questa professione a differenza di altre richiede competenza, professionalità ma soprattutto umanità. Richiede Competenza per le cure della malattia e Amore, Carità e Compassione dinanzi alla sofferenza del paziente. 

Malgrado in ventidue anni abbia coltivato la mia esperienza in branche chirurgiche e prestato il mio servizio nell’ambito del Dipartimento Infantile, ecco che un bel giorno, con un ordine di servizio, nello smontante notte vengo richiamata a coprire un turno scoperto nel reparto di Medicina Covid. Non conosco i pazienti, non conosco i colleghi…

…Pochi colleghi in realtà per coprire un turno notturno. Così pochi che sono costretta a stare con i dispositivi di protezione per ben 8 ore di seguito. 

Nel luogo in cui sono chiamata a prestare il mio servizio ci sono 35 pazienti ubicati in due reparti unificati: sanno di essere stati toccati da un piccolissimo microrganismo che è stato in grado di compromettere seriamente la loro compliance respiratoria.

Si tratta di un luogo in cui l’operatore sanitario sa di essere invaso da una carica virale da Covid 19 non quantizzabile. 

I pazienti sono tutti dipendenti da un erogatore di ossigeno con svariate funzioni a seconda delle necessità:

cannule nasali, maschere facciali, apparecchi C-PAP, apparecchi di erogazione di ossigeno ad alti flussi per le broncopneumopatie tipiche della polmonite interstiziale da Covid 19.

Tutti comunque accomunati da una terribile fame d’aria. Tutti con quelle piaghette al viso causate dagli ausili che sono costretti a mantenere a permanenza. 

Con chi si relazionano i pazienti? 

Si relazionano con noi. Noi operatori vestiti da extraterrestri, limitati nei movimenti, nella sensibilità tattile, incapaci a volte con il semplice sguardo di cogliere la paura ma anche la speranza di chi dobbiamo soccorrere e sostenere.

Pazienti e operatori, hanno in comune una strana forma di congiuntivite oltre alle narici ustionate dall’alta quantità di sostanze nebulizzate per sanificare. 

In un reparto Covid incontri corpi, incontri anime. Corpi da nutrire, da vestire, da curare, da medicare, da igienizzare. Incontri anime da sfiorare e condurre con te anche dopo che il turno è stato completato…

Sarebbe disumano dimenticarli. 

Non di può! 

Dopo una notte interminabile faccio l’ultimo giro di saluto. Li accarezzo uno ad uno. Sono stremata e ringrazio Dio per aver soddisfatto il mio più grande desiderio: operare in scienza e coscienza.

Mi accosto ad una collega che occupa il posto di paziente… Perché purtroppo anche lei è divenuta una paziente.

Una collega che giunge da un paesino dell’entroterra e che ha contratto il virus nel posto di lavoro, un Covid Hospital.

Una collega che a causa della distanza dai suoi familiari non ha neanche la possibilità di avere dei cambi.

Come posso esserti di aiuto e di consolazione? chiedo. 

Un barattolino di Nutella, sai, pian pianino sto riacquistando il gusto.

E poi? Dimmi qualcos’altro.

Un pigiama di cotone, da due giorni quello che indosso è bagnato a causa della perdita di un’infusione.

E poi?

Un paio di calzini. I miei piedi sono scoperti da 20 giorni.

Allo smonto, seppur stanca, corro a soddisfare le richieste che mi sono state rivolte. Ritorno in ospedale felice di poter essere un umile strumento di Bene. 

Faccio di tutto per far entrare in quel reparto di persone infette, dove il Virus ha trovato la sua culla, ciò di cui la paziente ha bisogno.

Nel pacchettino inserisco il mio numero di telefono e scrivo: «Contattatemi se avete bisogno di qualcosa»

Dopo aver ricevuto il tutto ricevo un messaggio dalla paziente /collega:

Grazie, sono tanto emozionata, le lacrime sgorgano copiose per essere stata oggetto di questo meraviglioso gesto d’amore.

Rispondo:

Asciuga le lacrime, ringrazia Dio e datti anche tu da fare! Non appena puoi, fammi sapere se altri hanno bisogno di qualcosa. L’amore non si può arrestare!

Passano poche ore e un altro messaggio:

Pigiama per donna, calzini, mutande. 

Il Signore Dio nostro non abbandona Mai i Suoi figli. 

E si serve di tutti.

È necessario solo rendersi disponibili e dopo essersi resi disponibili ricordare quella Parola Viva ed Eterna: 

«Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

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