“Il dono di Dio per la mia vita è morto con il coronavirus”

di Cinzia Trevisan

UNA LETTERA EMOZIONANTE

Mi chiamo Cinzia, ho 51 anni e sette figli. Racconto brevemente la mia vita a partire dal 1993, anno del mio matrimonio con Giancarlo, lo sposo con cui ho condiviso tutte le mie giornate negli ultimi ventisei anni. L’uomo che ha visto la parte migliore ed anche quella peggiore di me, con cui ho condiviso i pasti, le vacanze, vicino al quale mi sono addormentata sul divano, o meglio ci siamo addormentati entrambi, quando alla sera cercavamo di guardare un film ma eravamo troppo stanchi per arrivare alla fine.

L’uomo che è entrato in sala parto quando sono nati i nostri figli, che ha fatto il mutuo per la casa e lo stava pagando con il suo lavoro, tutti i giorni di quasi tutto l’anno, nella lavanderia che era stata di suo padre e, prima ancora, di suo nonno.

Abbiamo fatto un breve viaggio di nozze in Umbria, ripromettendoci di farne uno come si deve non appena avessimo potuto, opportunità che non si è mai presentata. Ma non importa, la nostra vita è stata molto felice. Nel 1994 è nata Martina, la nostra primogenita, che ha subito tutto l’amore e l’inesperienza di due genitori poco più che ventenni. Nel 1995 è nata Michela ed ancora abitavamo in un minuscolo bilocale in città. E’ stato poco prima della nascita di Miriam, nel 1997, che ci siamo trasferiti a Gossolengo, un piccolo paese vicino a Piacenza, servito quanto basta e con la stalla delle mucche a pochi passi (ora non c’è più) dove portare le mie bimbe stupefatte. Poi sono arrivati Mattia, nel 2000, e Samuele, nel 2001. A seguire Ester, nel 2003, e Davide nel 2006.

I miei genitori e mia suocera ci hanno sempre aiutato con i bambini, tenendoli con sé quando mio marito ed io avevamo la necessità di qualche momento da soli. Finanziariamente era difficile, lavorava solo lui, ma Dio ha sempre provveduto alla nostra vita. Infatti, non so come, abbiamo potuto cambiare l’automobile quando ne serviva una più grande e ristrutturare la casa quando abbiamo avuto bisogno di una stanza in più.

Abbiamo trascorso giorni di Natale bellissimi, compleanni, comunioni, cresime, vacanze, estati a Ferriere, giorni di mare a Misano Adriatico. Abbiamo superato le tonsilliti dei bambini, lo streptococco, la varicella, qualche piccolo infortunio. Alla fine di febbraio di quest’anno mio marito si è ammalato. Aveva la febbre alta, poi la tosse. Influenza, dicevano i medici. Tranquilli, bisogna avere pazienza, non occorre fare il tampone per il coronavirus. Scusate, ho quasi il rifiuto di scrivere quella parola.

Dopo dodici giorni di malattia, di notte, mio marito si è aggravato. Ho chiamato l’ambulanza, finalmente lo hanno portato in ospedale dove, dopo altri dodici giorni esatti, è morto. Ho visto per l’ultima volta Giancarlo il 10 marzo, giorno del compleanno suo e di nostra figlia Miriam. Lui compiva 53 anni, lei 23.

Abbiamo pranzato insieme e spento le rispettive candeline su una torta al cioccolato preparata in casa. Nella notte, i miei figli hanno sicuramente sentito il trambusto degli operatori sanitari in casa nostra, ed hanno avuto paura. Samuele si è alzato, ha visto, e con coraggio ha aiutato i due giovani operatori a trasportare il padre incosciente dalle scale della nostra abitazione all’ambulanza, operazione difficoltosa perché la barella non passava per l’ingresso stretto di casa nostra.

Abbiamo pregato nei giorni in cui lui era in ospedale. Posso dire di non aver mai pregato tanto in vita mia. Non desideravo altro che il ritorno di mio marito, l’uomo con cui ho spesso litigato, di cui sapevo i punti deboli, a cui rinfacciavo i difetti. L’uomo che non smetterò mai di amare. Non ho una spiegazione logica per quello che è successo, e dopotutto non mi viene richiesto di averla. Posso solo dire che con lui ho condiviso un cammino di fede e quella stessa fede lui la trasmetteva ai nostri figli. Sono sicura del fatto che sia vivo in Cielo, ma il dolore della ferita è lacerante. Brucia come il sale su un taglio profondo.

Lui è mio marito, il dono di Dio per la mia vita.

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