Lavorare da cristiani: una vita da avvocato

Lavorare da cristiani: una vita da avvocato

Pietro Licciardi

ALDO CIAPPI È UN AVVOCATO CATTOLICO CHE ESERCITA A PISA DA QUASI QUARANT’ANNI. IMPEGNATO NEL CENTRO STUDI ROSARIO LIVATINO, IL GIUDICE CHE LA CHIESA HA RECENTEMENTE PROCLAMATO BEATO, CI RACCONTA LA SUA ESPERIENZA PERSONALE E PROFESSIONALE

Aldo Ciappi è un avvocato, per parecchi anni ha fatto parte dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani (UGCI) ma adesso è socio del Centro studi Rosario Livatino. Esercita fin dagli anni Ottanta, a Pisa, quando, dice: «per un giovane laureato in legge iniziare una libera professione come l’avvocato era ancora stimolante. Molto più di quanto non lo sia oggi. Non si era ancora nell’era della “globalizzazione” spersonalizzante e vi erano ancora intense interazioni con le istanze del corpo sociale. Oggi purtroppo la realtà è assai più disarticolata e in aggiunta il sistema “giustizia” non era ancora collassato come in questi tempi, per cui poteva dirsi: “vi è un giudice a Berlino”… ».

Avvocato, chi sono le persone con le quali ha a che fare?

Come ho detto questo lavoro è molto cambiato rispetto a trenta o quaranta anni fa. Le controversie familiari e i drammi che si portano dietro non erano così frequenti. In generale la litigiosità è aumentata in ragione della crescente disintegrazione dei legami sociali. Inoltre l’economia locale qui nella provincia pisana soffre da anni una crisi endemica dovuta alla de-localizzazione industriale delle poche grandi aziende che pure, un tempo, davano lavoro a molte famiglie. In genere, salvo rari casi, preferisco non trattare le casistiche familiari perché non voglio essere coinvolto in liti spesso molto dure e devastanti, soprattutto quando ci sono di mezzo dei figli piccoli. Perciò mi dedico prevalentemente a contenziosi che riguardano i rapporti tra i privati: proprietà, diritti reali, locazioni, altri contratti, ecc.

E qual è il suo ruolo un tali situazioni?

La pachidermica lentezza della giustizia, sia civile che penale, oggettivamente favorisce il malaffare e la scaltrezza di molti che hanno capito che difficilmente risponderanno delle loro condotte illegali. Ciò aumenta la sfiducia e la tentazione di farsi giustizia da soli… La cronaca purtroppo è piena di gravi atti di violenza legati all’esasperazione di chi, dopo molti anni, non ha ancora avuto risposta dai tribunali. In tale contesto, obtorto collo, ad un buon avvocato non resta che cercare, laddove possibile, di favorire accordi tra le parti costrette, tuttavia, a rinunciare, almeno in parte, ai loro diritti che mai, o troppo tardi, vedrebbero riconosciuti da un giudice.

Nel suo mestiere c’è spazio per un qualche coinvolgimento umano col cliente?

Il rapporto che di frequente si stabilisce tra cliente ed avvocato è ciò che ancora rende questa professione attraente poiché, al di là delle questioni tecnico-giuridiche, interessanti o meno che siano, attorno ad esse spesso si aprono finestre che riguardano la sfera personale, il vissuto di ciascuno…, ed è qui che l’avvocato può diventare un consigliere o addirittura l’amico che offre ben più di un’ assistenza legale. L’avvocato, a mio avviso, deve essere anche un buon conoscitore dell’animo umano. Ciò costituisce un quid che dà valore aggiunto alla sua  professione.

Noi profani talvolta rimaniamo sconcertati quanto talvolta persone palesemente colpevoli riescono a farla franca grazie a certi avvocati. Soprattutto quando ci ricordiamo, da cristiani, che ad ogni colpa deve corrispondere una giusta punizione.

Tutti abbiano diritto ad una difesa e ad un giusto processo. Lo stesso diritto canonico, sin dalle origini, lo prevedeva ed è stata proprio la Chiesa – come ben sanno gli addetti ai lavori ma ciò non viene mai ricordato – nei processi contro gli accusati di eresia ad introdurre delle garanzie in materia di rigore nella prova del fatto contestato e del suo diritto di difesa; principi cardine, questi, negli ordinamenti moderni. Compito dell’avvocato è assicurare proprio questo diritto. Poi, ovviamente, sta alla coscienza del professionista valutare la concreta posizione della persona che a lui si rivolge e accettare o meno il patrocinio.

Questo ci porta a parlare della deontologia…

La deontologia professionale per noi è una cosa seria: c’è un Codice deontologico per gli avvocati il cui ultimo aggiornamento risale al 2018 la cui violazione comporta pesanti sanzioni fino alla radiazione dall’Albo nei casi più gravi. I giovani per essere ammessi alla professione devono superare una prova orale su questa specifica materia e anche se questa non è la sede per affrontare l’argomento posso assicurare che, almeno dopo la riforma dei Consigli di disciplina distrettuale, ovvero per ogni Distretto di Corte di Appello, è assicurata l’imparzialità dell’organo giudicante e l’effettività delle sanzioni disciplinati contro chi ha violato le norme deontologiche. E tra le molte regole che un avvocato deve rispettare vi sono quelle che riguardano i doveri di probità, dignità, decoro, indipendenza, fedeltà, diligenza, segretezza, riservatezza, aggiornamento, e via elencando. Certo, ci sono avvocati che poi interpretano questi doveri con una certa elasticità, ma in genere la cosa funziona, anche se, come ovunque del resto, le regole positive funzionano molto meglio se si appoggiano a solide convinzioni morali.

Lei a cosa si ispira per svolgere la sua professione?

Credo che qualsiasi cosa si faccia debba essere ispirata all’etica, o, se si preferisce, alla “deontologia” di cui ho già detto. Deontologia che, si badi bene, non è soggettiva e neppure meramente riducibile ad un elenco di norme di comportamento elencate da un manuale; bensì oggettiva e tendenzialmente valida anche in altri ambiti della vita sociale. Infatti, essa ricomprende: correttezza, lealtà, rispetto della persona e della sua dignità, fedeltà alla parola, ecc.…  Questo stile dovrebbe essere proprio di ogni serio professionista. Le sue eventuali convinzioni religiose non fanno altro che rafforzare questo vincolo conferendo alla propria condotta anche un significato spirituale. Per quanto mi riguarda ho sempre presente l’insegnamento del fondatore dell’Opus Dei, san Josemaría Escrivá de Balaguer [(1902-1975)], sulla santificazione personale attraverso la costante dedizione e abnegazione al lavoro.

Praticamente che significa?

Per esempio, in un’ aula penale, ciò significa che nessuno può essere trattato come colpevole prima di essere stato definitivamente giudicato e, ancorché condannato, per quanti gravi siano i delitti da esso commesso egli è in ogni caso meritevole di rispetto in quanto essere umano con la sua intrinseca ed indelebile dignità. Ma significa anche che, una volta assunto il patrocinio, il suo difensore deve fare di tutto per vedere riconosciuti i diritti dell’assistito. Le più belle soddisfazioni arrivano quando ad esempio perso il primo grado del processo a causa di qualche “svista” del giudice, si riesce in appello a ribaltare la sentenza grazie a ore passate diligentemente sulle carte.

Ha occasione di manifestare la sua fede ai suoi clienti ?

Può succedere, talvolta, che si instaurino con alcuni clienti rapporti abbastanza stretti; quindi con essi il colloquio, oltre che sulle questioni tecnico-giuridiche, può anche cadere su temi più personali e talvolta anche sulle convinzioni religiose. E’ fondamentale in questo caso trattare l’argomento con la massima correttezza e con reciproco rispetto; ciò a cui ho sempre cercato di attenermi.

I suoi colleghi conoscono le sue convinzioni religiose?

Pisa è un ambiente piccolo e, tra colleghi, ci conosciamo più o meno tutti. Sanno, ad esempio, del mio impegno nel Centro Studi Rosario Livatino. Devo dire di non aver mai subito ostracismi di sorta al riguardo.

Immaginiamo che in uno Stato laico anche l’apparato giudiziario lasci poco o niente spazio ad una dimensione spirituale e religiosa. Lei che ne pensa?

Una giustizia amministrata, oltre che in nome del popolo, anche in nome di Dio, che è somma Giustizia ma anche somma Misericordia, senz’altro darebbe a tutto il complicato e farraginoso sistema giudiziario attuale un supplemento di umanità. Questo, direi, soprattutto se messo in relazione all’ immagine del Crocifisso – una volta presente in tutte le aule di tribunale – che travalica il significato religioso assumendo un valore universale come richiamo per ogni operatore del diritto alla sacralità della funzione che ivi si svolge e come memoriale di ciò che accadde duemila anni fa in un processo nel quale fu negata ogni giustizia all’Innocente e al Giusto. Quando la società tutta era meno “secolarizzata” anche nei tribunali vi erano molti più avvocati e giudici in grado di comprendere agevolmente tutto questo. Per molto tempo l’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani ha svolto un ruolo importante di formazione degli operatori del diritto ma oggi anche questa realtà associativa è in evidente difficoltà. Nel 2015 è nato il Centro Studi Rosario Livatino, dal giudice assassinato dalla malavita organizzata nel 1990 e recentemente beatificato dalla Chiesa, la cui finalità è quella di riaffermare il diritto naturale, come “corpus” oggettivo di principi  fondamentali, come il diritto alla vita, alla famiglia, alla proprietà privata, ecc. che stanno, o dovrebbero stare, al di sopra delle produzioni normative di ogni singolo ordinamento, ed ai quali i suoi legislatori dovrebbero fare riferimento La storia e la prassi ci insegnano, infatti, che il diritto positivo, ovvero quello che si basa sulle leggi scritte, se svincolato dai principi immutabili insiti nella stessa natura umana, presto o tardi diventa “carta straccia” o si piega alla volontà del dittatore di turno e le ideologie “assassine” dello scorso secolo ne sono triste riprova.

Ci può fare un esempio?

Certo. Se fino al 1978 la vita umana fin dal concepimento era considerata inviolabile dall’ordinamento e, quindi, punito l’aborto, dall’approvazione della legge 194 ad oggi si sono potute eliminare “legalmente” oltre 6 milioni di vite e se sarà approvata una legge sull’eutanasia ci sarà un’altra ecatombe….

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