Le tre guerre civili degli italiani che la scuola ideologica di Stato non racconta

Le tre guerre civili degli italiani che la scuola ideologica di Stato non racconta

di Pietro Licciardi

INSORGENZE, BRIGANTAGGIO E “RESISTENZA”, TRE TENTATIVI DI IMPORRE COL SANGUE LA RIVOLUZIONE AD UN POPOLO FINO A IERI REFRATTARIO AD OGNI TIRANNIA

Quanti sanno che l’Italia è l’unica nazione europea che nella sua storia recente ha subito ben tre guerre civili? Probabilmente pochi, poiché la scuola ideologica di Stato è troppo impegnata nel glorificare le gesta di Napoleone Bonaparte – colui che sparse nella nostra Penisola e in tutto il continente il virus della Rivoluzione – e di Garibaldi, l’”eroe dei due mondi”, nonché ad esaltare la resistenza partigiana, da cui sarebbe nata l’attuare repubblichetta.

Non una parola invece, ad eccezione di qualche degno e preparato insegnante di storia, su chi si oppose alle orde napoleoniche e giacobine o su chi sostenne i legittimi sovrani spodestati nel corso di un vero e proprio atto di pirateria internazionale dal re sabaudo e i suoi mercenari in camicia rossa. E ovviamente nulla di nulla sui crimini dei partigiani rossi che perfino a guerra finita uccisero altri italiani, e preti, “colpevoli” di essere da ostacolo nell’edificazione dello stato socialista.

Ma andiamo per ordine

La Rivoluzione del 1789 aveva ridotto la Francia in miseria e la nuova repubblica si trovò nella necessità di andare in guerra sia per esportare il verbo rivoluzionario nel resto d’Europa, dove i circoli massonici e giacobini avevano a loro volta sparso il loro veleno nel tentativo di sovvertire l’antico ordine sociale e politico, che per rimpinguare le casse statali e rifornire una nazione allo sfacelo. A Napoleone Bonaparte, allora giovane generale, fu affidato il compito di invadere l’Italia procedendo man mano che avanzava nella conquista a distruggere gli antichi ordinamenti locali, deporre i legittimi sovrani, requisire i beni di conventi e confraternite religiose e perseguitare la Chiesa, imporre nuove e gravose tasse, ovvero esattamente quello che avevano fatto i giacobini in Francia.

In questa opera distruttrice fu attivamente sostenuto dai collaborazionisti nostrani che avevano fatto propri quegli infausti ideali di liberté, egalité e fraternitè, ma non dalla maggior parte della popolazione, che ebbe subito modo di costatare di che pasta erano fatti veramente gli invasori e i loro sostenitori italici. Così in tutte le regioni, dal Tirolo, al Veneto, all’Emilia alla Toscana e in tutto il Meridione vi furono sollevazioni popolari che divennero subito guerriglia. Furono le cosiddette Insorgenze antigiacobine, che dettero non poco filo da torcere ai francesi invasori i quali non si fecero scrupolo di reprimere con la stessa ferocia che avevano già sfoggiato nella Vandea gli italiani che combattevano per i sovrani legittimi, la religione e le loro leggi e i loro usi.

Si calcola che le rivolte costarono almeno 10mila morti tra i civili in armi i quali formarono veri e propri eserciti che seppure male armati e in molti casi privi di coordinamento resero la vita assai difficile agli invasori avendo dalla propria la perfetta conoscenza del territorio e la consapevolezza di lottare per una santa causa.

Un ufficiale francese, Jean-Jacques Duret de Tavel, che combattè gli insorgenti in Calabria ha lasciato un diario sotto forma di lettere scritte al padre, dove a proposito dell’insurrezione parla di un «patriottismo politico e religioso» espressione di una popolazione orgogliosa del proprio isolamento, sicuro rifugio contro ogni tirannia.

Lo stesso orgoglio per le proprie tradizioni e il legittimo sovrano mosse le popolazioni meridionali contro i piemontesi invasori, che dopo aver lasciato fare il lavoro sporco a Garibaldi e i suoi masnadieri in camicia rossa si diedero dal 1860 in poi ad una feroce occupazione del Regno delle due Sicilie costata non meno di 60mila morti tra la popolazione, deportazioni e devastazioni. Agli insorti fu affibbiato il dispregiativo appellativo di “briganti”. Ma il brigantaggio fu anche in questo caso la legittima reazione ad una invasione da parte del popolo che oltretutto si trovò a subire la persecuzione del clero, la deportazione dei propri figli arruolati nell’esercito borbonico che si rifiutavano di passare all’invasore – a questo proposito divenne tragicamente noto il lager di Fenestrelle – e l’imposizione di tasse esorbitanti.

Per reprimere le rivolte il Piemonte stanziò al Sud fino a 100mila soldati: italiani; francamente un po’ troppi per accreditare la tesi di Francesco Saverio Nitti secondo il quale nell’Italia Meridionale il brigantaggio postunitario non era stato un «[…] tentativo di restaurazione borbonica e di autonomismo, bensì un movimento spontaneo, storicamente rinnovantesi ad ogni agitazione, ad ogni cambiamento politico […], frutto di secolare abbrutimento, di miseria e di ignoranza delle nostre plebi meridionali»

Di fatto degli italiani massacrarono altri italiani per annettere con la forza un regno con mille anni di storia alle spalle ad un insignificante staterello diventato grazie a Cavour la longa manus dell’espansionismo britannico nel Sud Europa. E infatti l’antropologo Carlo Tullio Altan ha parlato di una «reazione di rigetto della società meridionale nei confronti di una realtà storica diversa» e di «uno scontro di civiltà», ma soprattutto il brigantaggio ha rappresentato l’espressione più macroscopica della reazione di una nazione intera in difesa della sua autonomia quasi millenaria e della religione perseguitata e, dunque, costituisce l’ultimo tentativo compiuto in Italia, insieme con «la difesa di Roma a opera degli zuavi», per «combattere la Rivoluzione con le armi». Non per niente l’allora autorevole La Civiltà Cattolica espresse ripetutamente il suo appoggio a quello che era ritenuto uno spontaneo movimento di massa, a carattere legittimistico, contro le usurpazioni del nuovo Stato liberale.

Pure la resistenza all’occupante tedesco, sorta in Italia dopo l’8 settembre 1943, ebbe le caratteristiche di una guerra civile combattuta da italiani contro altri italiani che con motivazioni del tutto legittime decisero di restare fedeli all’alleato germanico e proseguire la guerra contro Gran Bretagna e Stati Uniti. Purtroppo non mancarono episodi di ferocia da cui non furono affatto immuni le formazioni dei partigiani comunisti, il cui vero scopo non fu tanto la liberazione dell’Italia dall’invasore nazionalsocialista e dalla Repubblica di Salò, quanto preparare l’avvento della rivoluzione bolscevica anche nel nostro Paese, magari consegnandolo nelle mani di una altro occupante: Stalin.

In vista di questo obiettivo i “rossi” non esitarono a massacrare altri partigiani, cattolici, a Porzus o a partecipare alla pulizia etnica che i guerriglieri di Tito attuarono in Istria, dove almeno 20mila italiani, non tutti fascisti, finirono nelle foibe. Ma la mattanza fratricida non terminò neppure dopo la guerra. In tutto il Nord infatti proseguirono gli agguati e gli assassinii a danno di presunti fascisti, anche se a sparire furono soprattutto cattolici e preti, ovvero quelli che più di altri si sarebbero opposti, seguiti dal popolo, al regime che i comunisti speravano ancora di istaurare. Solo nel famigerato triangolo rosso in Emilia si parla di almeno 5mila vittime. Tra queste il seminarista quattordicenne Rolando Rivi, ucciso per aver rifiutato di dismettere la tonaca da seminarista.

Con queste guerre civili non abbiamo mai fatto i conti e anziché cercare una pacificazione nazionale si è preferito continuare con le amnesie, le omissioni e le falsificazioni storiche. Un modo di fare che rischia di costarci assai caro in questo momento storico, in cui ancora una volta vediamo montare l’odio, fomentato da un regime – oggi come in passato – nemico dell’Italia e degli italiani, che nonostante tutto ancora rifiutano di chinare il capo alla Rivoluzione.

 

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