Uomini, non numeri. Ma il problema non è la legge

di Gianmaria Spagnoletti

IL DDL EUTANASIA È IN DISCUSSIONE ALLA CAMERA. LA LEGGE È CATTIVA, MA NON È IL “VERO” PROBLEMA. PIUTTOSTO, È PREOCCUPANTE LA “MENTALITÀ EUTANASICA” CHE SI VA DIFFONDENDO NELL’OPINIONE PUBBLICA

Il ddl sull’eutanasia è approdato alla Camera. Tra i suoi vari punti, esso annovera la non punibilità dell’eutanasia attiva e di medici o personale sanitario che la praticano su richiesta del paziente (quindi non si applicano gli articoli 580 e 593 del C.P. su aiuto al suicidio e omissione di soccorso), purché la malattia da cui è affetto causi intollerabili sofferenze fisiche e psicologiche, sia irreversibile e con prognosi infausta, e che il paziente dipenda da presidi vitali. Può avanzare richiesta di morte chi è maggiorenne, capace di intendere e volere e nelle condizioni di cui sopra, attestate dal medico curante e dallo specialista, e lo manifesta per iscritto o con una videoregistrazione a cui siano presenti due testimoni. Se il comitato per la valutazione clinica dà parere favorevole, la decisione viene trasmessa all’Azienda Sanitaria Territoriale che si attiverà per fare in modo che il decesso avvenga a domicilio o in una struttura ospedaliera. Secondo questa legge, il decesso per eutanasia verrebbe equiparato a quello dovuto a cause naturali. Inoltre è “in ballo” anche il quesito del referendum “Eutanasia legale” che prevede una parziale abrogazione dell’Art.579 sull’omicidio del consenziente, e vuole rendere non punibile l’eutanasia “attiva”.

Fra l’altro è stato lasciato spazio all’obiezione di coscienza dei sanitari; questa però è una “foglia di fico” su una legge che è ingiusta e inemendabile, perché attacca direttamente il valore della vita umana: il “bene primario” tutelato dalla legge non è più la vita, ma la volontà del singolo. Sebbene l’art. 32 della Costituzione definisca la salute come diritto fondamentale (e quindi la vita stessa), a livello sociale hanno molta più influenza le idee sull’”autodeterminazione” del singolo. Quindi la legge opera sempre in “favor vitae”, ma sono i media e la società ad operare in antitesi, in “favor mortis”. Di conseguenza, qualsiasi individuo sprovvisto di anticorpi etici e morali correrà il rischio di cadere vittima del “favor mortis” imposto per pressione sociale. Allo stesso modo potrebbero essere coinvolte le persone disabili (nate tali, o diventate tali a seguito di malattie o incidenti), dato che lo “stigma” sulla disabilità è duro a morire e che non poche persone che considerano inconcepibile l’eventualità di passare una parte della propria vita in carrozzina o con mobilità ridotta.

Il vero “cavallo di Troia” della situazione è il favore concesso alla “libertà” e alla “volontà” del singolo, che ormai sono concetti talmente deviati a livello sociale da includere in sé anche la morte volontaria e data a richiesta, in antitesi totale con il progresso scientifico e medico il cui obiettivo è di migliorare le condizioni di vita. È un “sentire sociale” tanto più pericoloso quanto rischia di trasformarsi in “sentire giuridico” e, una volta interiorizzato come “diritto” o “progresso”, potrebbe persino arrivare a stravolgere il diritto costituzionale alla salute definendolo incompatibile con certe condizioni cliniche (ad es. i pazienti in stato di incoscienza che non abbiano espresso la propria volontà). Detto in parole più semplici, in tal modo si arriverebbe a considerare la vita come una “patente a punti”, dove i punti vengono tolti via via che l’abilità fisica e l’autonomia decadono. Oppure si può anche decidere di ritirare la patente coattivamente “d’ufficio” una volta che la persona scende sotto una certa soglia. 

Una volta instillato nell’opinione pubblica il concetto di “vita degna di essere vissuta” (che in realtà è il suo contrario) è solo questione di tempo prima che si passi all’autodeterminazione del paziente, e successivamente alla liceità della soppressione del paziente, con una serie di possibili giustificazioni per renderla accettabile: il risparmio di soldi per la Sanità, il risparmio di sofferenze al malato, o (perché no) il prelievo di organi a beneficio di persone in attesa di trapianto (cosa peraltro già successa all’estero), anche indipendentemente dalla volontà del malato stesso, magari perché minorenne o non in grado di decidere. Dato che non siamo noi a scegliere malattie o impedimenti (a meno di uno stile di vita sregolato) capirete sicuramente che nessuno è al sicuro.

Alla fin fine, il problema non è la legge, ma la mentalità delle persone (che non di rado agisce come se la legge fosse già in vigore). In primo luogo, sono i ragionamenti su una fallace “qualità della vita” a fuorviare, perché si tratta di un concetto sociologico che non può essere applicato alla salute di una persona senza storpiarlo. La “qualità della vita” è ottimale solo quando ci consente di fare sport, correre, saltare? Non, piuttosto, quando si è inseriti in un contesto di lavoro, quotidianità e relazioni che appaga e aiuta la propria realizzazione? E in nome di una certa soglia di “qualità della vita” posso considerare una vita più o meno degna? È proprio facendo leva su parole d’ordine come “qualità della vita”, “libertà”, “diritti”, ma anche sulla paura della sofferenza che molti hanno, è molto facile creare una mentalità ben disposta a vedere l’aiuto alla morte come una soluzione ordinaria, se non auspicabile. In questo modo, una legge eutanasica troverebbe la strada spianata per l’approvazione e per i suoi successivi inasprimenti. Come se ne esce? Una risposta può essere una maggiore chiarezza su strumenti come le cure palliative, la terapia del dolore e la sedazione profonda, già oggi ampiamente usate sui malati gravi e terminali, su cui però i media fanno molta confusione. Un’altra è sottolineare che i pazienti devono venire trattati trattati da uomini e non da “pesi” fino all’ultimo. Questa è la dignità che vale anche nel dolore e nella morte, che fondamentalmente tocca a tutti.

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