Il sogno di diventare madre

Il sogno di diventare madre

di Mariastella Vanella

UNA BIMBA CHE È STATA UN INNO ALLA VITA, LA PALESE VOLONTÀ DI DIO CHE VENISSE ALLA LUCE, LA VITTORIA CONTRO TUTTE LE AVVERSITÀ E LE COMPLICANZE DI UNA GRAVIDANZA MOLTO DIFFICILE

Diventare madre, per molte donne è la cosa più naturale del mondo, per altre, invece, è una lotta, un sogno da realizzare, il raggiungimento di uno scopo nella vita, il completamento del proprio essere donna. Pensieri, questi, che hanno aperto la strada ai ricordi nel leggere, nelle settimane scorse il libro «Dammi dei figli se no io ne muoio» (Gn 30,1). Dal desiderio di maternità alla maternità surrogata di Enzo Vitale (Tau Editrice, 2022). La lettura del libro, in pratica, mi spinge nella condivisione della mia esperienza, avendo compreso il valore grande della «testimonianza di chi, vivendo il dramma della sterilità, lo condivide raccontandone il vissuto… testimoniare, però, significa “mettere in piazza” sentimenti, passioni, dolori, dubbi, certezze, a rischio di essere violentati nella propria intimità. Un rischio che risulterebbe frenato da una prudenza che ci suggerisce di evitare di “dare perle ai porci”(Mt 7,6)» (pag. 104).

Io ho lottato per diventare madre, ho molto sofferto – e soffro ancora – per il mio bimbo mai nato. Ho sempre sentito molto forte il desiderio di maternità: all’epoca, la mia fede era molto fiacca, debole, non riuscivo ad immaginare, una mia vita senza figli. Quando ho perso il mio primo bambino, alla 26esima settimana di gestazione, ho vissuto questo dolore devastante in maniera possessiva, era mio e non volevo condividere con nessuno questa sofferenza; ero gelosa del mio dolore, ero convinta che nessuno mi avrebbe mai capita. Mi sentivo dire che, comunque, non lo avevo avuto tra le braccia, che non lo avevo visto: invece, quel bambino era nato vivo, il medico lo ha battezzato, ho dovuto dargli un nome, ho sentito i medici che disponevano il trasferimento in ambulanza ma che non credevano ce la potesse fare. «Troppo piccolo» continuavano a dire e, quando l’ambulanza tornò indietro con quel “fagottino” ormai privo di vita e vennero a comunicarlo a me e a mio marito immobile vicino al mio letto, credo che il mio corpo, sconquassato fisicamente, ebbe quello che fu il colpo più duro, il colpo al cuore. Benché avessimo avuto immediatamente la percezione, parlando con i medici, della gravità, non si poteva non sperare, non credere fermamente in un miracolo. Fu dura riprendermi. Mi sentivo vuota, svuotata da ogni pensiero, aprivo i cassetti con le cose che avevo comprato per il bimbo e piangevo. Avevamo vicino la figura di un sacerdote che ci ha molto aiutati. Ho pregato molto perché potessi rimanere di nuovo incinta: il medico che mi seguiva diceva che le cure farmacologiche fatte per indurre la prima gravidanza, potenzialmente erano ancora efficaci, ma, l’ostacolo più grande era la mia testa. Dio, però, volle che, nel giro di pochissimo tempo, rimanessi di nuovo incinta e che a distanza di 11 mesi dal primo parto, nascesse Alessia, una bimba sana e bellissima. «Una gravidanza “preziosa”», così la definiva il medico. Dovetti affrontare un intervento di cerchiaggio cervicale: una operazione chirurgica nella quale si applica una sutura, sul collo dell’utero per aiutare a contenere la gravidanza in utero e a prevenire il parto pretermine.

Ma il mio desiderio di maternità non era ancora appagato. Per questo provammo ad avere altri bambini. «Di suo, il desiderio di gravidanza nasconde spesso il desiderio di successo della donna che vuol mettersi alla prova sulla sua fecondità» (pag. 49). Arrivò un’altra gravidanza: questa volta una gravidanza extrauterina. Altra sofferenza e non solo fisica, altra esperienza di perdita che lasciò dentro di me, una ulteriore ferita. Un altro mio bambino non era nato! A quel punto, i medici sconsigliarono vivamente di continuare a cercare altri figli: sarebbe stato molto rischioso, avrei potuto non farcela. Mi sentivo dire che una bimba c’era e, quindi, mi sarei dovuta fermare ma, forse proprio perché lontana da Dio, non accettavo questa limitazione. Perché avrei dovuto fermarmi? Io volevo un altro figlio! E così riprendemmo quella cura farmacologica che mi avrebbe aiutata nel concepimento. Passarono mesi ed io andavo avanti anche con l’età: avevo 36 anni. Il medico disse che sarebbero stati gli ultimi mesi di cura, dopo di che, lui non mi avrebbe più seguita: era un amico e il nostro rapporto era più del classico rapporto medico-paziente. Però il Signore, che agisce con i Suoi tempi, mi fece questo altro dono: rimasi incinta. La mia felicità era a livelli altissimi ed ogni volta che mi si diceva di non esultare troppo, io mi innervosivo, non pensavo minimamente a ciò che poteva succedere a me, al rischio che correvo. Ho affrontato un altro intervento di cerchiaggio, sono stata a letto per tutto il tempo della gravidanza: ci trasferimmo a casa dei miei. Mio marito, che è sempre stato al mio fianco, rimodulò la sua vita: tutti i pensieri convogliavano sul mio stare male, e cercare di rendere il tutto meno pesante alla nostra bimba. I miei genitori hanno riversato sulla piccola ogni attenzione: aveva 7 anni, ha dovuto cambiare abitudini, casa, ha dovuto abituarsi alla visione di una mamma sempre a letto attaccata a delle flebo, che spesso finiva in ospedale. Ha dovuto appoggiarsi al papà e ai nonni (splendidi angeli). Io non potevo fare assolutamente nulla se non seguirla per i compiti. Un piccolo tavolino di fianco al letto era la sua scrivania. Non ho più potuto accompagnarla a scuola, in piscina, a fare una passeggiata, non ho potuto più aiutarla a lavarsi, né giocare con lei: niente di niente. Quando si correva in ospedale, in preda ad emorragie violente dovute alla placenta previa – altra condizione di alto rischio fetale e materno – lei voleva il mio cuscino: «fa odore di mamma» diceva alla nonna che la accoglieva nel suo letto: feci più di 140 giorni di ricovero.

Più volte, durante quei mesi, si è temuto per la vita del nascituro e per la mia, fino a quando arrivati all’età gestazionale di 27 settimane, la bimba che portavo in grembo, smise di alimentarsi. Si attese ancora qualche settimana di gravidanza: «l’utero è diventato un ambiente ostile, tiriamola fuori finché i parametri ci garantiscono un margine di sicurezza. È meglio per lei, si alimenterà meglio fuori dall’utero» fu decretato. Mi sono sentita inadatta, una che non è capace di alimentare la figlia in grembo. Si predispose, allora il trasferimento ad altro ospedale: era necessaria una struttura che prevedesse al suo interno sia il reparto di terapia intensiva neonatale che la terapia intensiva per me, considerate le mie precarie condizioni. Prima del cesareo il medico informò mio marito sulla scala delle priorità: «per prima cosa si cercherà di salvare la madre, poi la bimba, infine l’utero». Con un cesareo fecero nascere la bimba, uno scricciolo di appena 1,600 kg. Bimba e mamma ce l’avevano fatta. Aurora fu il nome scelto. Era l’inizio di un nuovo giorno. Una bimba che è stata un inno alla vita, la palese volontà di Dio che venisse alla luce, la vittoria contro tutte le avversità e le complicanze di una gravidanza molto difficile.  Da quel momento iniziò un’altra avventura, la neonatologia: ma quella è un’altra storia. Solo dico che i bimbi prematuri nascono due volte: la prima quando vedono la luce, la seconda quando, dimessi dall’ospedale, varcano la porta di casa. Il desiderio forte di essere madre, mi ha accompagnata per tutta la vita. La mia famiglia, i miei genitori, hanno fatto sacrifici enormi e, soprattutto, hanno convissuto per mesi con la paura che potesse succedere l’irreparabile. Alcune persone a me vicine, quando si chiedeva loro come io stessi, la risposta era sempre la stessa: «eh beh, lei lo sapeva!». In queste poche parole c’è il sunto di tutto. Io lo sapevo ed ho voluto fortemente essere madre, ho rischiato la mia vita non pensando che un’altra bimba, di appena 7 anni, desiderava solo di vedere la mamma stare bene. Certo, sono ancora qui, mamma di due splendide ragazze: e per questo non finirò mai di ringraziare Dio. Ma mi chiedo: quanto, questa esperienza così forte, ha segnato la vita della mia prima figlia quando dice di non voler avere figli suoi ma preferirebbe adottarne? E lo dice ricordando il tempo della gravidanza come qualcosa di traumatico… E mi chiedo ancora: quanto il desiderio di maternità è legittimo per una donna?

Subscribe
Notificami
0 Commenti
Oldest
Newest
Inline Feedbacks
View all comments