Essere o apparire?

di Cinzia De Bellis*

RIUSCIRE A COGLIERE L’ESSENZA DELLA VITA DIPENDE DALLA STORIA PERSONALE, DALLE SCELTE E, MOLTO, DALL’EDUCAZIONE RICEVUTA

Si discute, ormai, da parecchi anni sull’apparenza che è prevalsa sull’essenza, sul virtuale che ha offuscato il reale, sui social che hanno carpito le nostre vite e le nostre relazioni, sull’io che dimentica e ignora il nostro Dio. Problematiche ampiamente discusse, ma, stamane, la mia estetista, giovane di sani valori ed ideali, mi ha posto l’ennesimo quesito di natura etico-sociale.

Alcune sue clienti, fruitrici del Reddito di Cittadinanza e contributi della Caritas e in stato di morosità per quanto concerne il fitto di casa da oltre due anni (18 euro mensili), non rinunciano, tuttavia, ad assidui trattamenti estetici, al consumo di sigarette e alle vacanze all’estero. Certamente abbiamo tutti bisogno di un ritaglio di “felicità”, è un nostro diritto: ma senza se e senza ma? E a tutti i costi?

I nostri avi ci avevano insegnato e tramandato il concetto di dignità, a non lasciare conti in sospeso, a saper distinguere fra superfluo e necessario, a sognare in base alle nostre risorse e disponibilità economiche con oculatezza e saggezza. Io stessa non rimpiango affatto di aver utilizzato il vestiario e il corredo scolastico delle mie sorelle maggiori. Anzi era per me un traguardo felice riuscire ad acquisire la roba ormai dismessa e che avevo invidiato su di loro, perché esse costituivano il mio modello da raggiungere. Non c’era, a quei tempi, la Ferragni a illustrare dettami di Moda, né ci sarebbe stato concesso seguirli, perché ogni ambiente (chiesa, scuola, spiaggia) richiedeva un consono abbigliamento.

Eravamo felici dei pomeriggi trascorsi in compagnia di un libro nel caldo soffocante di agosto, di un gelato artigianale acquistato al solito bar sotto casa, di un tramonto rubato dalla finestra della nostra cameretta. Forse non c’erano la tv e le riviste di gossip a mostrarci le mete delle vacanze estive dei vip e a solleticare un pizzico di invidia o di frustrazione. I Vip c’erano anche ai nostri tempi, ma tutelavano la loro privacy ed erano restii a condividere con il mondo intero le fasi della loro vita e a far conoscere l’entità dei loro conti bancari.

Poi è sopraggiunta la competizione a dover apparire migliori o simili agli altri, in un processo di omologazione avvilente, ad ostentare un benessere illusorio fatto di cellulari ed auto all’avanguardia, a frequentare spiagge esotiche o a recarsi a Dubai che, di arte e cultura è sprovvista e, in sfregio ad una radice islamica, offre ai turisti il pacchiano e l’effimero dei suoi grattacieli e la meraviglia dell’enormità della ricchezza degli Emirati Arabi. (Quanti bimbi affamati si potrebbero salvare con un semplice tassello dei loro ostentati villaggi?)

Ho sempre sostenuto che il vero povero difende strenuamente la sua dignità e che occorre far beneficenza, in totale discrezione, perché non si debba offendere nessun essere umano. Far del bene non è un vanto, ma un dovere, una lode a Dio e un balsamo di felicità che ristora il nostro cuore. Io li incontro i veri poveri quando, al supermercato, mi sfilano davanti con un carrello che contiene un pacco di spaghetti, una scatoletta di tonno, due pere e una scatoletta di cibo per gatti (perché, forse, solo un gatto allevia la loro solitudine). Un pasto frugale che consenta loro di mettere in serbo pochi spiccioli per la paghetta dei probabili nipoti in visita. Rientra nello stile di vita dei nostri nonni, prima che arrivasse la cultura dello scarto e del consumismo. Forse è d’uopo, a questo punto, precisare che mio padre era un dirigente bancario e che ho frequentato, nella mia infanzia, scuole private di diverse città.

La mia è stata un’infanzia felice e non mancava il necessario, ma i miei genitori avevano vissuto e sofferto le ristrettezze della Seconda guerra mondiale e rifuggivano dal concetto dello sperpero: le calze andavano rimagliate, le scarpe risuolate, le giacche rivoltate, il pane non veniva mai gettato, ma riutilizzato in gustose ricette. Il sabato sera non si andava in pizzeria con gli amici, ma si preferiva andare al cinema e, qualche volta al teatro, perché si era alla ricerca di cibo per la mente e d’estate un viaggetto nei luoghi più belli d’Italia, rigorosamente in treno, arricchiva le nostre menti e le nostre conoscenze. Con gli amici ci si scambiavano visite in casa, a base di the fumanti e pasticcini o spumoni artigianali. Ora le case sono super accessoriate e arredate con buon gusto, ma con divieto d’accesso agli estranei.

Mio padre non era un tirchio, anzi, ma rifuggiva da atteggiamenti di ostentazione. Persino al cimitero ci dissuadeva dal portare fiori costosi, perché, secondo lui, si sarebbe potuta offendere la dignità altrui. E, in tutta questa filosofia di vita e saggezza condivisa con mia madre, c’era sempre spazio per l’altro, per i bisogni della parrocchia, per le missioni, ecc. Ci si lamenta del calo demografico in atto nel nostro bel Paese, ma aumentano a dismisura signore vezzose a spasso con un cagnolino che richiede interventi educativi e medici, servizi di toelettatura, vestiario adeguato e accessori firmati. Questo fenomeno rientra nella sfera dell’apparire, perché molte di quelle signore sono le stesse che rinchiudono i loro anziani in anguste case di riposo e fanno ricorso alla Caritas per le spese correnti.

Dio mio! Quanto e quale danno hanno arrecato la tv e i mass media alla nostra società! Perché abbiamo permesso che gli spot pubblicitari forgiassero le nostre menti e ci impedissero di ragionare autonomamente? Perché nelle scuole i docenti hanno rinunciato a formare lo spirito critico dei loro allievi? Perché essi stessi esibiscono borse e capi griffati? Perché è scomparsa la divisa scolastica che copriva le differenze sociali? Tutto il percorso educativo si crea e parte in famiglia e nella Scuola e il mio auspicio è che si possano recuperare il bello e il vero che sono alla base di una convivenza civile e democratica.

* presidente UCIIM Sezione di Martina Franca (TA)

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