Ecco cosa ha detto veramente il Santo Padre durante la GMG

a cura della Redazione

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO IN PORTOGALLO IN OCCASIONE DELLA XXXVII GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ (2 – 6 AGOSTO 2023). TUTTE LE PAROLE DI PAPA FRANCESCO SENZA TAGLI

Arrivando alle 22:15 di ieri sera all’Aeroporto Internazionale di Roma/Fiumicino, Sua Santità Papa Francesco ha concluso il viaggio Apostolico in Portogallo in occasione della XXXVII Giornata Mondiale della Gioventù (2-6 agosto 2023).

Mercoledì, 2 agosto 2023 Papa Francesco era partito alle 7:50 in aereo dall’Aeroporto Internazionale di Roma/Fiumicino per Lisbona. Arrivato alla Base Aerea di Figo Maduro a Lisbona c’è stata l’accoglienza ufficiale e, alle 10:45, la Cerimonia di benvenuto all’ingresso principale del “Palácio Nacional de Belém” e, alle 11:15, la visita di cortesia al Presidente della Repubblica nel “Palácio Nacional de Belém”. Il primo discorso del Papa è stato profferito alle 12:15 in occasione dell’incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico nel Centro Culturale di Belém.

Vi saluto cordialmente e ringrazio il Signor Presidente per l’accoglienza e per le cortesi parole che mi ha rivolto – è molto accogliente il Presidente, grazie! Sono felice di essere a Lisbona, città dell’incontro che abbraccia vari popoli e culture e che diventa in questi giorni ancora più universale; diventa, in un certo senso, la capitale del mondo, la capitale del futuro, perché i giovani sono futuro. Ciò ben si adatta al suo carattere multietnico e multiculturale – penso al quartiere Mouraria, dove vivono in armonia persone provenienti da più di sessanta Paesi – e rivela il tratto cosmopolita del Portogallo, che affonda le radici nel desiderio di aprirsi al mondo e di esplorarlo, navigando verso orizzonti nuovi e più vasti.

Non lontano da qui, a Cabo da Roca, è scolpita la frase di un grande poeta di questa città: «Aqui… onde a terra se acaba e o mar começa» (L. Vaz de Camões, Os Lusíadas, VIII). Per secoli si credeva che lì vi fosse il confine del mondo, e in un certo senso è vero: ci troviamo ai confini del mondo perché questo Paese confina con l’oceano, che delimita i continenti. Lisbona ne porta l’abbraccio e il profumo. Mi piace associarmi a quanto amano cantare i portoghesi: «Lisboa tem cheiro de flores e de mar» (A. Rodrigues, Cheira bem, cheira a Lisboa, 1972). Un mare che è molto più di un elemento paesaggistico, è una chiamata impressa nell’animo di ogni portoghese: «mar sonoro, mar sem fundo, mar sem fin» l’ha chiamato una poetessa locale (S. de Mello Breyner Andresen, Mar sonoro). Davanti all’oceano, i portoghesi riflettono sugli immensi spazi dell’anima e sul senso della vita nel mondo. E anch’io, lasciandomi trasportare dall’immagine dell’oceano, vorrei condividere alcuni pensieri.

Secondo la mitologia classica, Oceano è figlio del cielo (Urano): la sua vastità porta i mortali a guardare in alto e a elevarsi verso l’infinito. Ma, al contempo, Oceano è figlio della terra (Gea) che abbraccia, invitando così ad avvolgere di tenerezza l’intero mondo abitato. L’oceano, infatti, non collega solo popoli e Paesi, ma terre e continenti; perciò Lisbona, città dell’oceano, richiama all’importanza dell’insieme, a pensare i confini come zone di contatto, non come frontiere che separano. Sappiamo che oggi le grandi questioni sono globali, eppure spesso sperimentiamo l’inefficacia nel rispondervi proprio perché davanti a problemi comuni il mondo è diviso, o per lo meno non abbastanza coeso, incapace di affrontare unito ciò che mette in crisi tutti. Sembra che le ingiustizie planetarie, le guerre, le crisi climatiche e migratorie corrano più veloci della capacità, e spesso della volontà, di fronteggiare insieme tali sfide.

Lisbona può suggerire un cambio di passo. Qui nel 2007 è stato firmato l’omonimo Trattato di riforma dell’Unione Europea. Esso afferma che «l’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli» (Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, art. 1,4/2.1); ma va oltre, asserendo che «nelle relazioni con il resto del mondo […] contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani» (art. 1,4/2.5). Non sono solo parole, ma pietre miliari per il cammino della comunità europea, scolpite nella memoria di questa città. Ecco lo spirito dell’insieme, animato dal sogno europeo di un multilateralismo più ampio del solo contesto occidentale.

Secondo un’etimologia discussa, il nome Europa deriverebbe proprio da una parola che indica la direzione di occidente. È certo invece che Lisbona è la capitale più a ovest dell’Europa continentale. Essa richiama dunque la necessità di aprire vie di incontro più vaste, come il Portogallo già fa, soprattutto con Paesi di altri continenti accomunati dalla stessa lingua. Auspico che la Giornata Mondiale della Gioventù sia, per il “vecchio continente” – possiamo dire l’“anziano” continente -, un impulso di apertura universale, cioè un impulso di apertura che lo renda più giovane. Perché di Europa, di vera Europa, il mondo ha bisogno: ha bisogno del suo ruolo di pontiere e di paciere nella sua parte orientale, nel Mediterraneo, in Africa e in Medio Oriente. Così l’Europa potrà apportare, all’interno dello scenario internazionale, la sua specifica originalità, delineatasi nel secolo scorso quando, dal crogiuolo dei conflitti mondiali, fece scoccare la scintilla della riconciliazione, inverando il sogno di costruire il domani con il nemico di ieri, di avviare percorsi di dialogo, percorsi di inclusione, sviluppando una diplomazia di pace che spenga i conflitti e allenti le tensioni, capace di cogliere i segnali di distensione più flebili e di leggere tra le righe più storte.

Nell’oceano della storia, stiamo navigando in un frangente tempestoso e si avverte la mancanza di rotte coraggiose di pace. Guardando con accorato affetto all’Europa, nello spirito di dialogo che la caratterizza, verrebbe da chiederle: verso dove navighi, se non offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai tanti conflitti che insanguinano il mondo? E ancora, allargando il campo: quale rotta segui, Occidente? La tua tecnologia, che ha segnato il progresso e globalizzato il mondo, da sola non basta; tanto meno bastano le armi più sofisticate, che non rappresentano investimenti per il futuro, ma impoverimenti del vero capitale umano, quello dell’educazione, della sanità, dello stato sociale. Preoccupa quando si legge che in tanti luoghi si investono continuamente fondi sulle armi anziché sul futuro dei figli. E questo è vero. Mi diceva l’economo, alcuni giorni fa, che il migliore reddito di investimenti è nella fabbricazione di armi. Si investe più sulle armi che sul futuro dei figli. Io sogno un’Europa, cuore d’Occidente, che metta a frutto il suo ingegno per spegnere focolai di guerra e accendere luci di speranza; un’Europa che sappia ritrovare il suo animo giovane, sognando la grandezza dell’insieme e andando oltre i bisogni dell’immediato; un’Europa che includa popoli e persone con la loro propria cultura, senza rincorrere teorie e colonizzazioni ideologiche. E questo ci aiuterà a pensare ai sogni dei padri fondatori dell’Unione europea: questi sognavano alla grande!

L’oceano, immensa distesa d’acqua, richiama le origini della vita. Nel mondo evoluto di oggi è divenuto paradossalmente prioritario difendere la vita umana, messa a rischio da derive utilitariste, che la usano e la scartano: la cultura dello scarto della vita. Penso a tanti bambini non nati e anziani abbandonati a sé stessi, alla fatica di accogliere, proteggere, promuovere e integrare chi viene da lontano e bussa alle porte, alla solitudine di molte famiglie in difficoltà nel mettere al mondo e crescere dei figli. Verrebbe anche qui da dire: verso dove navigate, Europa e Occidente, con lo scarto dei vecchi, i muri col filo spinato, le stragi in mare e le culle vuote? Verso dove navigate? Dove andate se, di fronte al male di vivere, offrite rimedi sbrigativi e sbagliati, come il facile accesso alla morte, soluzione di comodo che appare dolce, ma in realtà è più amara delle acque del mare? E penso a tante leggi sofisticate sull’eutanasia.

Lisbona, abbracciata dall’oceano, ci dà però motivo di sperare, è città della speranza. Un oceano di giovani si sta riversando in quest’accogliente città; e io vorrei ringraziare per il grande lavoro e il generoso impegno profusi dal Portogallo per ospitare un evento così complesso da gestire, ma fecondo di speranza. Come si dice da queste parti: «Accanto ai giovani, uno non invecchia». Giovani provenienti da tutto il mondo, che coltivano i desideri dell’unità, della pace e della fraternità, giovani che sognano ci provocano a realizzare i loro sogni di bene. Non sono nelle strade a gridare rabbia, ma a condividere la speranza del Vangelo, la speranza della vita. E se da molte parti oggi si respira un clima di protesta e insoddisfazione, terreno fertile per populismi e complottismi, la Giornata Mondiale della Gioventù è occasione per costruire insieme. Rinverdisce il desiderio di creare novità, di prendere il largo e navigare insieme verso il futuro. Vengono in mente alcune parole ardite di Pessoa: «Navigare è necessario, vivere non è necessario […]; quello che serve è creare» (Navegar é preciso). Diamoci dunque da fare con creatività per costruire insieme! Immagino tre cantieri di speranza in cui possiamo lavorare tutti uniti: l’ambiente, il futuro, la fraternità.

L’ambiente. Il Portogallo condivide con l’Europa tanti sforzi esemplari per la protezione del creato. Ma il problema globale rimane estremamente serio: gli oceani si surriscaldano e i loro fondali portano a galla la bruttezza con cui abbiamo inquinato la casa comune. Stiamo trasformando le grandi riserve di vita in discariche di plastica. L’oceano ci ricorda che la vita dell’uomo è chiamata ad armonizzarsi con un ambiente più grande di noi, che va custodito, va custodito con premura, pensando alle giovani generazioni. Come possiamo dire di credere nei giovani, se non diamo loro uno spazio sano per costruire il futuro?

Il futuro è il secondo cantiere. E il futuro sono i giovani. Ma tanti fattori li scoraggiano, come la mancanza di lavoro, i ritmi frenetici in cui sono immersi, l’aumento del costo della vita, la fatica a trovare un’abitazione e, ancora più preoccupante, la paura di formare famiglie e mettere al mondo dei figli. In Europa e, più in generale, in Occidente, si assiste a una fase discendente della curva demografica: il progresso sembra una questione riguardante gli sviluppi della tecnica e gli agi dei singoli, mentre il futuro chiede di contrastare la denatalità e il tramonto della voglia di vivere. La buona politica può fare molto in questo, può essere generatrice di speranza. Essa, infatti, non è chiamata a detenere il potere, ma a dare alla gente il potere di sperare. È chiamata, oggi più che mai, a correggere gli squilibri economici di un mercato che produce ricchezze, ma non le distribuisce, impoverendo di risorse e certezze gli animi. È chiamata a riscoprirsi generatrice di vita e di cura, a investire con lungimiranza sull’avvenire, sulle famiglie e sui figli, a promuovere alleanze intergenerazionali, dove non si cancelli con un colpo di spugna il passato, ma si favoriscano i  legami tra giovani e anziani. Questo dobbiamo riprenderlo: il dialogo tra giovani e anziani. A questo richiama il sentimento della saudade portoghese, la quale esprime una nostalgia, un desiderio di bene assente, che rinasce solo a contatto con le proprie radici. I giovani devono trovare le proprie radici negli anziani. In tal senso è importante l’educazione, che non può solo impartire nozioni tecniche per progredire economicamente, ma è destinata a immettere in una storia, a consegnare una tradizione, a valorizzare il bisogno religioso dell’uomo e a favorire l’amicizia sociale.

L’ultimo cantiere di speranza è quello della fraternità, che noi cristiani impariamo dal Signore Gesù Cristo. In tante parti del Portogallo il senso del vicinato e la solidarietà sono molto vivi. Però, nel contesto generale di una globalizzazione che ci avvicina, ma non ci dà la prossimità fraterna, tutti siamo chiamati a coltivare il senso della comunità, a partire dalla ricerca di chi ci abita accanto. Perché, come notò Saramago, «ciò che dà il vero senso all’incontro è la ricerca, e bisogna fare molta strada per raggiungere ciò che è vicino» (Todos os nomes, 1997). Com’è bello riscoprirci fratelli e sorelle, lavorare per il bene comune lasciando alle spalle contrasti e diversità di vedute! Anche qui ci sono d’esempio i giovani che, con il loro grido di pace e la loro voglia di vita, ci portano ad abbattere i rigidi steccati di appartenenza eretti in nome di opinioni e credo diversi. Ho saputo di tanti giovani che qui coltivano il desiderio di farsi prossimi; penso all’iniziativa Missão País, che porta migliaia di ragazzi a vivere nello spirito del Vangelo esperienze di solidarietà missionaria nelle zone periferiche, specialmente nei villaggi all’interno del Paese, andando a trovare molti anziani soli, e questo è un’ “unzione” per la gioventù. Vorrei ringraziare e incoraggiare, accanto ai tanti che nella società portoghese si occupano degli altri, la Chiesa locale, che fa tanto bene, lontana dalla luce dei riflettori.

Fratelli e sorelle, sentiamoci tutti insieme chiamati, fraternamente, a dare speranza al mondo in cui viviamo e a questo magnifico Paese. Deus abençoe Portugal!

La prima giornata della GMG 2023 si era conclusa per il Pontefice prima con un incontro con il primo Ministro nella Nunziatura Apostolica e, alle 17:30, Vespri con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati, le Consacrate, i Seminaristi e gli Operatori Pastorali nel “Mosteiro dos Jerónimos”.

Sono felice di essere tra voi per vivere insieme a tanti giovani la Giornata Mondiale della Gioventù, ma anche per condividere il vostro cammino ecclesiale, le vostre fatiche e le vostre speranze. Ringrazio Monsignor José Ornelas Carvalho per le parole che mi ha rivolto; desidero pregare con voi perché, come ha detto, possiamo diventare, insieme ai giovani, audaci nell’abbracciare “il sogno di Dio e nel trovare vie per una partecipazione gioiosa, generosa e trasformatrice, per la Chiesa e per l’umanità”. E questo non è uno scherzo, è un programma.

Mi sono immerso nella bellezza del vostro Paese, terra di passaggio tra il passato e il futuro, luogo di antiche tradizioni e di grandi cambiamenti, impreziosito da valli rigogliose e da spiagge dorate affacciate sulla sconfinata bellezza dell’oceano, che costeggia il Portogallo. Ciò mi riporta al contesto della prima chiamata dei discepoli, che Gesù chiamò sulle rive del Mare di Galilea. Vorrei soffermarmi su questa chiamata, che evidenzia quanto abbiamo appena ascoltato nella Lettura breve dei Vespri: il Signore ci ha salvati e ci ha chiamati non in base alle nostre opere, ma secondo la sua grazia (cfr 2Tm 1,9). Questo è accaduto nella vita dei primi discepoli quando Gesù, passando, «vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti» (Lc 5,2). Gesù allora salì sulla barca di Simone e, dopo aver parlato alle folle, cambiò la vita di quei pescatori invitandoli a prendere il largo e a gettare le reti. Notiamo subito un contrasto: da una parte, i pescatori scendono dalla barca per lavare le reti, cioè per pulirle, conservarle bene e tornare a casa; dall’altra parte, Gesù sale sulla barca e invita a gettare di nuovo le reti per la pesca. Risaltano le differenze: i discepoli scendono, Gesù sale; loro vogliono conservare le reti, Lui vuole che si gettino nuovamente in mare per la pesca.

Anzitutto, ci sono i pescatori che scendono dalla barca per lavare le reti. Questa è la scena che si presenta agli occhi di Gesù e Lui si ferma proprio lì. Aveva da poco iniziato la sua predicazione nella sinagoga di Nazaret, ma i suoi compaesani lo avevano cacciato fuori dalla città e avevano persino cercato di ucciderlo (cfr Lc 4,28-30). Allora Egli esce dal luogo sacro e inizia a predicare la Parola tra la gente, sulle strade dove le donne e gli uomini del suo tempo faticano ogni giorno. A Cristo interessa portare la vicinanza di Dio proprio nei luoghi e nelle situazioni in cui le persone vivono, lottano, sperano, talvolta stringendo tra le mani fallimenti e insuccessi, proprio come quei pescatori che nella notte non avevano preso nulla. Gesù guarda con tenerezza Simone e i suoi compagni che, stanchi e amareggiati, lavano le loro reti, compiendo un gesto ripetitivo, automatico, ma anche affaticato e rassegnato: non restava che tornare a casa a mani vuote.

A volte, nel nostro cammino ecclesiale, si può provare una stanchezza simile. Stanchezza. Qualcuno diceva: “Temo la stanchezza dei buoni”. Una stanchezza quando ci sembra di stringere tra le mani solo delle reti vuote. È un sentimento piuttosto diffuso nei Paesi di antica tradizione cristiana, attraversati da molti cambiamenti sociali e culturali e sempre più segnati dal secolarismo, dall’indifferenza nei confronti di Dio, da un crescente distacco dalla pratica della fede – e qui c’è il pericolo che entri la mondanità –. E ciò è spesso accentuato dalla delusione o dalla rabbia che alcuni nutrono nei confronti della Chiesa, talvolta per la nostra cattiva testimonianza e per gli scandali che ne hanno deturpato il volto, e che chiamano a una purificazione umile e costante, a partire dal grido di dolore delle vittime, sempre da accogliere e da ascoltare. Ma, quando ci si sente scoraggiati – e ciascuno di voi pensi in quale momento ha provato scoraggiamento –, il rischio è quello di scendere dalla barca, restando impigliati nelle reti della rassegnazione e del pessimismo. Invece, abbiamo fiducia che Gesù continua a tendere la mano, a sostenere la sua amata Sposa. Portiamo al Signore le nostre fatiche e le nostre lacrime, per poi affrontare le situazioni pastorali e spirituali confrontandoci con apertura di cuore e sperimentando insieme qualche nuova via da seguire. Quando ci scoraggiamo, più o meno consapevolmente, ci mettiamo “in pensione”, in pensione dallo zelo apostolico, lo andiamo perdendo e ci trasformiamo in funzionari del sacro. È molto triste quando una persona che ha consacrato la sua vita a Dio si trasforma in funzionario, in mero amministratore delle cose. È molto triste.

Infatti, appena gli apostoli scendono a lavare gli strumenti utilizzati, Gesù sale sulla barca e poi invita a gettare di nuovo le reti. Nel momento dello scoraggiamento, del “pensionamento”, lasciamo che Gesù salga di nuovo sulla barca, con la speranza dei primi tempi, quella speranza che dev’essere ravvivata, riconquistata, ri-editata. Lui viene a cercarci nelle nostre solitudini e nelle nostre crisi per aiutarci a ricominciare. La spiritualità del ricominciare. Non abbiate paura. Così è la vita: cadere e ricominciare, stancarsi e ricevere di nuovo la gioia. Ricevere la mano da Gesù. Anche oggi passa sulle rive dell’esistenza per risvegliare la speranza e dire anche a noi, come a Simone e gli altri: «Prendi il largo e gettate le reti per la pesca» (Lc 5,4). E quando si perde la speranza, ci vengono mille giustificazioni per non gettare le reti; ma soprattutto quella rassegnazione amara, che è come un verme che guasta l’anima. Fratelli e sorelle, quello che viviamo è certamente un tempo difficile, lo sappiamo, ma il Signore oggi chiede a questa Chiesa: “Vuoi scendere dalla barca e sprofondare nella delusione, oppure farmi salire e permettere che sia ancora una volta la novità della mia Parola a prendere in mano il timone? Tu, sacerdote, consacrato, consacrata, vescovo, vuoi solo conservare il passato che hai alle spalle oppure gettare nuovamente con entusiasmo le reti per la pesca?”. Ecco cosa ci domanda il Signore: di risvegliare l’inquietudine per il Vangelo.

Quando ci si abitua e ci si annoia e la missione si trasforma in una specie di “impiego”, è il momento di dare spazio alla seconda chiamata di Gesù, che ci chiama di nuovo, sempre. Ci chiama per farci camminare, ci chiama per rifarci di nuovo. Non abbiate paura di questa seconda chiamata di Gesù. Non è un’illusione, è Lui che viene a bussare alla porta. E possiamo dire che questa è l’inquietudine “buona”, quando ci lasciamo attrarre dalla seconda chiamata di Gesù, quell’inquietudine buona che l’immensità dell’oceano consegna a voi portoghesi: spingersi oltre la riva non per conquistare il mondo – né per pescare baccalà –, ma per allietarlo con la consolazione e la gioia del Vangelo. In quest’ottica si possono leggere le parole di un vostro grande missionario, Padre António Vieira, chiamato “Paiaçu”, padre grande: egli diceva che Dio vi ha dato una piccola terra per nascere ma, facendovi affacciare sull’oceano, vi ha dato il mondo intero per morire: «Per nascere, poca terra; per morire, tutta la terra: per nascere, Portogallo; per morire, il mondo» (A. Vieira, Omelie, Vol. III, Tomo VII, Porto 1959, p. 69). Gettare di nuovo le reti e abbracciare il mondo con la speranza del Vangelo: a questo siamo chiamati! Non è tempo di fermarsi, non è tempo di arrendersi, non è tempo di ormeggiare la barca a riva o di guardarsi indietro; non dobbiamo fuggire questo tempo perché ci spaventa e rifugiarci in forme e stili del passato. No, questo è il tempo di grazia che il Signore ci dà per avventurarci nel mare dell’evangelizzazione e della missione.

Per farlo, però, abbiamo anche bisogno di compiere delle scelte. Vorrei indicarvi tre scelte, ispirate al Vangelo.

Anzitutto, prendere il largo. La magnanimità. Non siate pusillanimi! Prendere il largo. Per gettare nuovamente le reti in mare, bisogna lasciare la riva delle delusioni e dell’immobilismo, prendere le distanze da quella tristezza dolciastra e da quel cinismo ironico che a volte ci assalgono dinanzi alle difficoltà. Tristezza dolciastra, cinismo ironico. Esaminiamo la coscienza su questo. Recuperare la speranza, ma una seconda edizione della speranza, la speranza matura, la speranza che viene dopo il fallimento o la stanchezza, Non è facile recuperare la speranza adulta. Bisogna farlo per passare dal disfattismo alla fede, come Simone che, pur avendo faticato a vuoto tutta la notte, dice: «Sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,5). Ma, per fidarsi ogni giorno del Signore e della sua Parola, non bastano le parole, occorre tanta preghiera. E qui vorrei farvi una domanda, ma ciascuno risponda dentro di sé: come prego io? Come un pappagallo, bla, bla, bla, o facendo la siesta davanti al Tabernacolo perché non so come parlare con il Signore? Prego? Come prego? Solo in adorazione, solo davanti al Signore si ritrovano il gusto e la passione per l’evangelizzazione. È interessante: la preghiera di adorazione l’abbiamo perduta; e tutti, sacerdoti, vescovi, consacrate, consacrati devono recuperarla: rimanere in silenzio davanti al Signore. Madre Teresa, coinvolta in tante cose della vita, mai ha tralasciato l’adorazione, nemmeno nei momenti in cui la sua fede vacillava e si domandava se era tutto vero o no. Momenti di oscurità, che ha passato anche Teresina di Gesù Bambino. Allora, nella preghiera, si supera la tentazione di portare avanti una “pastorale della nostalgia e dei lamenti”. In un convento c’era una monaca – questo è accaduto realmente – che si lamentava di tutto, e non so che nome avesse, ma le monache le cambiarono il nome e la chiamavano “Suor lamentela”. Quante volte le nostre impotenze, le nostre delusioni le trasformiamo in lamentele! E abbandonando queste lamentele si riprende un’altra volta la forza per prendere il largo, senza ideologie, senza mondanità. La mondanità spirituale che entra in noi e dalla quale si genera il clericalismo. Clericalismo non solo dei preti: i laici clericalizzati sono peggio dei preti. Quel clericalismo che ci rovina. E, come diceva un gran maestro spirituale, questa mondanità spirituale – che provoca il clericalismo – è uno dei mali più gravi che possono capitare alla Chiesa. Superare queste difficoltà senza ideologie, senza mondanità, animati da un unico desiderio: che il Vangelo raggiunga tutti. Avete tanti esempi su questa strada e, visto che siamo immersi tra i giovani, mi piace ricordare un giovane di Lisbona, San João de Brito – era un ragazzo di qui –, che secoli fa, fra tante difficoltà, partì per l’India e cominciò a parlare e vestirsi allo stesso modo di chi incontrava pur di annunciare Gesù. Anche noi siamo chiamati a immergere le nostre reti nel tempo che viviamo, a dialogare con tutti, a rendere comprensibile il Vangelo, anche se per farlo possiamo rischiare qualche tempesta. Come i giovani che da tutto il mondo vengono qui a sfidare le onde giganti, anche noi andiamo al largo senza paura; non temiamo di affrontare il mare aperto, perché in mezzo alla tempesta e ai venti contrari ci viene incontro Gesù, che dice: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!” (Mt 14,27)». Quante volte abbiamo fatto questa esperienza? Ognuno risponda dentro di sé. E se non l’abbiamo fatta, è perché qualcosa è andato storto durante la tempesta.

Una seconda scelta: portare avanti insieme la pastorale, tutti insieme. Nel testo Gesù affida a Pietro il compito di prendere il largo, ma poi parla al plurale, dicendo «gettate le reti» (Lc 5,4): Pietro guida la barca, ma sulla barca ci sono tutti e tutti sono chiamati a calare le reti. Tutti. E quando prendono una grande quantità di pesci, non pensano di farcela da soli, non gestiscono il dono come possesso e proprietà privata ma, dice il Vangelo, «fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli» (Lc 5,7). Così riempirono di pesci due barche. Uno significa solitudine, chiusura, pretesa di autosufficienza, due significa relazione. La Chiesa è sinodale, è comunione, aiuto reciproco, cammino comune. A questo tende il Sinodo in corso, che avrà il suo primo momento assembleare nel prossimo ottobre. Sulla barca della Chiesa ci dev’essere spazio per tutti: tutti i battezzati sono chiamati a salirvi e a gettare le reti, impegnandosi in prima persona nell’annuncio del Vangelo. E non dimenticate questa parola: tutti, tutti, tutti. Mi tocca molto il cuore, quando devo dire come aprire prospettive apostoliche, quel passo del Vangelo in cui la gente non va alla festa di nozze del figlio ed è tuto preparato. E che cosa dice il padrone, il padrone della festa cosa dice? “Andate ai crocicchi e portate qui tutti, tutti, tutti: sani, malati, piccoli e grandi, buoni e peccatori. Tutti”. La Chiesa non sia una dogana, per selezionare chi entra e chi no. Tutti, ciascuno con la sua vita sulle spalle, coi suoi peccati, così com’è, davanti a Dio, così com’è davanti alla vita… Tutti, tutti. Non mettiamo dogane nella Chiesa. Tutti. È una grande sfida, specialmente nei contesti in cui i sacerdoti e i consacrati sono affaticati perché, mentre aumentano le esigenze pastorali, sono sempre di meno. A questa situazione, però, possiamo guardare come un’occasione per coinvolgere, con slancio fraterno e sana creatività pastorale, i laici. Le reti dei primi discepoli, allora, diventano un’immagine della Chiesa, che è una “rete di relazioni” umane, spirituali e pastorali. Se non c’è dialogo, se non c’è corresponsabilità, se non c’è partecipazione, la Chiesa invecchia. Lo vorrei dire così: mai un Vescovo senza il proprio presbiterio e il Popolo di Dio; mai un prete senza i confratelli; e tutti insieme – sacerdoti, religiose, religiosi e fedeli laici – come Chiesa, mai senza gli altri, mai senza il mondo. Senza mondanità, ma non senza il mondo. Nella Chiesa ci si aiuta, ci si sostiene a vicenda e si è chiamati a diffondere anche fuori un clima di fraternità costruttivo. D’altronde, San Pietro scrive che siamo le pietre vive impiegate per la costruzione di un edificio spirituale (cfr 1 Pt 2,5). Vorrei aggiungere: voi fedeli portoghesi siete anche una “calçada”, siete le pietre pregiate di quel pavimento accogliente e splendente su cui il Vangelo ha bisogno di camminare: neanche una pietra può mancare, altrimenti si nota subito. Ecco la Chiesa che, con l’aiuto di Dio, siamo chiamati a costruire!

Infine, terza scelta: diventare pescatori di uomini. Non abbiate paura. Questo non è fare proslitismo, è annunciare il Vangelo che interpella. In questa immagine così bella di Gesù, essere pescatori di uomini, Egli affida ai discepoli la missione di prendere il largo nel mare del mondo. Spesso, nella Scrittura, il mare è associato al luogo del male e delle potenze avverse che gli uomini non riescono a dominare. Perciò, pescare le persone e tirarle fuori dall’acqua significa aiutarle a risalire da dove sono sprofondate, salvarle dal male che rischia di farle affogare, risuscitarle da ogni forma di morte. Questo però senza proselitismo, ma con amore. E uno dei segni che alcuni movimenti ecclesiali stanno andando male è il proselitismo. Quando un movimento ecclesiale o una diocesi, o un vescovo, o un prete, o una suora, o un laico fa proselitismo, questo non è cristiano. Cristiano è invitare, accogliere, aiutare, ma senza proselitismo. Il Vangelo, infatti, è un annuncio di vita nel mare della morte, di libertà nei gorghi della schiavitù, di luce nell’abisso delle tenebre. Come afferma Sant’Ambrogio, «gli strumenti della pesca apostolica sono come le reti: infatti le reti non fanno morire chi vi è preso, ma lo conservano in vita, lo traggono dagli abissi alla luce» (Exp. Luc. IV, 68-79). Ci sono tante oscurità nella società di oggi, anche qui in Portogallo, da tutte le parti. Abbiamo la sensazione che sia venuto a mancare l’entusiasmo, il coraggio di sognare, la forza di affrontare le sfide, la fiducia nel futuro; e, intanto, navighiamo nelle incertezze, nella precarietà soprattutto economica, nella povertà di amicizia sociale, nella mancanza di speranza. A noi, come Chiesa, è affidato il compito di immergerci nelle acque di questo mare calando la rete del Vangelo, senza puntare il dito, senza accusare, ma portando alle persone del nostro tempo una proposta di vita, quella di Gesù: portare l’accoglienza del Vangelo, invitare alla festa, in una società multiculturale; portare la vicinanza del Padre nelle situazioni di precarietà, di povertà che crescono, soprattutto tra i giovani; portare l’amore di Cristo dove la famiglia è fragile e le relazioni sono ferite; trasmettere la gioia dello Spirito dove regnano demoralizzazione e fatalismo. Un vostro scrittore ha scritto: «Per arrivare all’infinito, e credo che ci si possa arrivare, abbiamo bisogno di un porto, di uno soltanto, sicuro, e da lì partire verso l’Indefinito» (F. Pessoa, Livro do Desassossego, Lisboa 1998, 247). Sogniamo la Chiesa portoghese come un “porto sicuro” per chiunque affronta le traversate, i naufragi e le tempeste della vita!

Cari fratelli e sorelle: tutti, laici, religiosi, religiose, sacerdoti, vescovi, tutti, tutti, non abbiate paura, gettate le reti. Non vivete accusando: “questo è peccato, questo non è peccato”. Vengano tutti, poi parliamo, ma che sentano prima l’invito di Gesù e poi viene il pentimento, dopo viene la vicinanza di Gesù. Per favore, non fate diventare la Chiesa una dogana: qua si entra, i giusti, quelli che sono a posto, quelli che sono sposati bene, e là fuori tutti gli altri. No. La Chiesa non è questo. Giusti e peccatori, buoni e cattivi, tutti, tutti, tutti. E poi, che il Signore ci aiuti a risolvere la questione. Ma tutti. Vi ringrazio di cuore, fratelli e sorelle, per questo ascolto – che sarà stato noioso! –, vi ringrazio per ciò che fate, per l’esempio, soprattutto l’esempio nascosto, e per la costanza, l’alzarsi ogni giorno per ricominciare o continuare ciò che si è incominciato. Come dite voi: Muito obrigado! Per quello che fate… E vi affido alla Madonna di Fatima, alla custodia dell’angelo del Portogallo e alla protezione dei vostri grandi santi, specialmente, qui a Lisbona, di Sant’Antonio, instancabile apostolo – che si son rubati quelli di Padova –, ispirato predicatore, discepolo del Vangelo attento ai mali della società e pieno di compassione per i poveri: che Sant’Antonio interceda per voi e vi doni la gioia di una nuova pesca miracolosa. Poi mi racconterete. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

La seconda giornata di Papa Francesco alla GMG, Giovedì 3 agosto 2023, ha registrato alle ore 09:00 l’incontro con i giovani universitari presso la “Universidade Católica Portuguesa”.

Grazie, Signora Rettrice, per le sue parole. Obrigado! Ha detto che tutti ci sentiamo «pellegrini». È una parola bella, il cui significato merita di essere meditato; letteralmente vuol dire lasciare da parte la routine abituale e mettersi in cammino con un’intenzione, muovendosi «attraverso i campi» o «oltre i propri confini», cioè fuori dalla propria zona di comfort verso un orizzonte di senso. Nel termine “pellegrino” vediamo rispecchiata la condizione umana, perché ognuno è chiamato a confrontarsi con grandi domande che non hanno risposta, una risposta semplicistica o immediata, ma invitano a compiere un viaggio, a superare sé stessi, ad andare oltre. È un processo che un universitario comprende bene, perché così nasce la scienza. E così cresce pure la ricerca spirituale. Essere pellegrino è camminare verso una meta o cercando una meta. C’è sempre il pericolo di camminare in un labirinto, dove non c’è meta. E nemmeno uscita. Diffidiamo delle formule prefabbricate – sono labirintiche –, diffidiamo delle risposte che sembrano a portata di mano, di quelle risposte sfilate dalla manica come carte da gioco truccate; diffidiamo di quelle proposte che sembrano dare tutto senza chiedere nulla. Diffidiamo! Questa diffidenza è un’arma per poter andare avanti e non continuare a girare in tondo. Una delle parabole di Gesù dice che la perla di grande valore colui la cerca con intelligenza e con intraprendenza, e dà tutto, rischia tutto ciò che ha per averla (cfr Mt 13,45-46). Cercare e rischiare: ecco i due verbi del pellegrino. Cercare e rischiare.

Pessoa ha detto, in modo tormentato ma corretto, che «essere insoddisfatti è essere uomini» (Mensagem, O Quinto Império). Non dobbiamo aver paura di sentirci inquieti, di pensare che quanto facciamo non basti. Essere insoddisfatti, in questo senso e nella giusta misura, è un buon antidoto contro la presunzione di autosufficienza e contro il narcisismo. L’incompletezza caratterizza la nostra condizione di cercatori e pellegrini; come dice Gesù, “siamo nel mondo, ma non siamo del mondo” (cfr Gv 17,16). Siamo in cammino verso… Siamo chiamati a qualcosa di più, a un decollo senza il quale non c’è volo. Non allarmiamoci allora se ci troviamo interiormente assetati, inquieti, incompiuti, desiderosi di senso e di futuro, com saudade do futuro! E qui, insieme alla saudade do futuro, non dimenticatevi di mantenere viva la memoria del futuro. Non siamo malati, siamo vivi! Preoccupiamoci piuttosto quando siamo disposti a sostituire la strada da fare col fare sosta in qualsiasi punto di ristoro, purché ci dia l’illusione della comodità; quando sostituiamo i volti con gli schermi, il reale con il virtuale; quando, al posto delle domande che lacerano, preferiamo le risposte facili che anestetizzano. E le possiamo trovare in qualsiasi manuale sui rapporti sociali, su come comportarsi bene. Le risposte facili anestetizzano.

Amici, permettetemi di dirvi: cercate e rischiate, cercate e rischiate. In questo frangente storico le sfide sono enormi, gemiti dolorosi. Stiamo vedendo una terza guerra mondiale a pezzi. Ma abbracciamo il rischio di pensare che non siamo in un’agonia, bensì in un parto; non alla fine, ma all’inizio di un grande spettacolo. Ci vuole coraggio per pensare questo. Siate dunque protagonisti di una “nuova coreografia” che metta al centro la persona umana, siate coreografi della danza della vita. Le parole della Signora Rettrice sono state per me ispiratrici, in particolare quando ha detto che «l’università non esiste per preservarsi come istituzione, ma per rispondere con coraggio alle sfide del presente e del futuro». L’autopreservazione è una tentazione, è un riflesso condizionato della paura, che fa guardare all’esistenza in modo distorto. Se i semi preservassero sé stessi, sprecherebbero completamente la loro potenza generativa e ci condannerebbero alla fame; se gli inverni preservassero sé stessi, non ci sarebbe la meraviglia della primavera. Abbiate perciò il coraggio di sostituire le paure coi sogni. Sostituite le paure coi sogni: non siate amministratori di paure, ma imprenditori di sogni!

Sarebbe uno spreco pensare a un’università impegnata a formare le nuove generazioni solo per perpetuare l’attuale sistema elitario e diseguale del mondo, in cui l’istruzione superiore resta un privilegio per pochi. Se la conoscenza non viene accolta come responsabilità, diventa sterile. Se chi ha ricevuto un’istruzione superiore (che oggi, in Portogallo e nel mondo, rimane un privilegio) non si sforza di restituire ciò di cui ha beneficiato, non ha capito fino in fondo cosa gli è stato offerto. Mi piace pensare al Libro della Genesi; le prime domande che Dio pone all’uomo sono: «Dove sei?» (Gen 3,9) e «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9). Ci farà bene chiederci: dove sono? Me ne sto chiuso nella mia bolla o corro il rischio di uscire dalle mie sicurezze per diventare un cristiano praticante, un artigiano della giustizia, un artigiano della bellezza? E ancora: Dov’è mio fratello? Esperienze di servizio fraterno come la Missão País e molte altre che nascono in ambito accademico dovrebbero essere considerate indispensabili per chi passa da un’università. Il titolo di studio non deve infatti essere visto solo come una licenza per costruire il benessere personale, ma come un mandato per dedicarsi a una società più giusta, una società più inclusiva, cioè più progredita. Mi è stato detto che una vostra grande poetessa, Sophia de Mello Breyner Andresen, in un’intervista che è una sorta di testamento, alla domanda: «Che cosa le piacerebbe vedere realizzato in Portogallo in questo nuovo secolo?», ha risposto senza esitare: «Vorrei vedere realizzata la giustizia sociale, la riduzione del divario tra ricchi e poveri» (Entrevista de Joaci Oliveira, in Cidade Nova, nº 3/2001). Giro a voi questa domanda. Voi, cari studenti, pellegrini del sapere, cosa volete vedere realizzato in Portogallo e nel mondo? Quali cambiamenti, quali trasformazioni? E in che modo l’università, soprattutto quella cattolica, può contribuirvi?

Beatriz, Mahoor, Mariana, Tomás, vi ringrazio per le vostre testimonianze. Avevano tutte un tono di speranza, una carica di entusiasmo realista, senza lamentele ma nemmeno senza fughe in avanti idealiste. Volete essere «protagonisti, protagonisti del cambiamento», come ha detto Mariana. Ascoltandovi, ho pensato a una frase che forse vi è familiare, dello scrittore José de Almada Negreiros: «Ho sognato un Paese in cui tutti arrivavano a essere maestri» (A Invenção do Dia Claro). Anche questo anziano che vi parla – ormai sono vecchio –, sogna che la vostra generazione divenga una generazione di maestri. Maestri di umanità. Maestri di compassione. Maestri di nuove opportunità per il pianeta e i suoi abitanti. Maestri di speranza. E maestri che difendano la vita del pianeta, minacciata in questo momento da una grave distruzione ecologica.

Come alcuni di voi hanno sottolineato, dobbiamo riconoscere l’urgenza drammatica di prenderci cura della casa comune. Tuttavia, ciò non può essere fatto senza una conversione del cuore e un cambiamento della visione antropologica alla base dell’economia e della politica. Non ci si può accontentare di semplici misure palliative o di timidi e ambigui compromessi. In questo caso «le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro» (Lett. enc. Laudato si’, 194). Non dimenticatelo: le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Si tratta invece di farsi carico di quello che purtroppo continua a venir rinviato: ossia la necessità di ridefinire ciò che chiamiamo progresso ed evoluzione. Perché, in nome del progresso, si è fatto strada troppo regresso. Studiate bene questo che vi dico: in nome del progresso, si è fatto strada troppo regresso. Voi siete la generazione che può vincere questa sfida: avete gli strumenti scientifici e tecnologici più avanzati ma, per favore, non cadete nella trappola di visioni parziali. Non dimenticate che abbiamo bisogno di un’ecologia integrale, abbiamo bisogno di ascoltare la sofferenza del pianeta insieme a quella dei poveri; abbiamo bisogno di mettere il dramma della desertificazione in parallelo con quello dei rifugiati; il tema delle migrazioni insieme a quello della denatalità; abbiamo bisogno di occuparci della dimensione materiale della vita all’interno di una dimensione spirituale. Non creare polarizzazioni, ma visioni d’insieme.

Grazie, Tomás, per aver detto che «non è possibile un’autentica ecologia integrale senza Dio, che non può esserci futuro in un mondo senza Dio». Vorrei dirvi: rendete la fede credibile attraverso le scelte. Perché se la fede non genera stili di vita convincenti non fa lievitare la pasta del mondo. Non basta che un cristiano sia convinto, deve essere convincente; le nostre azioni sono chiamate a riflettere la bellezza, gioiosa e insieme radicale, del Vangelo. Inoltre, il cristianesimo non può essere abitato come una fortezza circondata da mura, che alza bastioni nei confronti del mondo. Perciò ho trovato toccante la testimonianza di Beatriz, quando ha detto che proprio «a partire dal campo della cultura» si sente chiamata a vivere le Beatitudini. In ogni epoca uno dei compiti più importanti per i cristiani è recuperare il senso dell’incarnazione. Senza l’incarnazione, il cristianesimo diventa ideologia – e la tentazione delle ideologie cristiane, tra virgolette, è molto attuale. È l’incarnazione che permette di essere stupiti dalla bellezza che Cristo rivela attraverso ogni fratello e sorella, ogni uomo e donna.

A tale proposito, è interessante che nella vostra nuova cattedra dedicata all’«Economia di Francesco» abbiate aggiunto la figura di Chiara. Il contributo femminile è indispensabile. Nell’inconscio collettivo, quante volte si pensa che le donne sono di seconda categoria, sono riserve, non giocano come titolari. Questo esiste nell’inconscio collettivo. Il contributo femminile è indispensabile. Del resto, nella Bibbia si vede come l’economia della famiglia è in larga parte in mano alla donna. Lei, con la sua saggezza, è la vera “reggente” della casa, che non ha per fine esclusivamente il profitto, ma la cura, la convivenza, il benessere fisico e spirituale di tutti, e pure la condivisione con i poveri e i forestieri. È entusiasmante intraprendere gli studi economici con questa prospettiva: con l’obiettivo di restituire all’economia la dignità che le spetta, perché non sia preda del mercato selvaggio e della speculazione.

L’iniziativa del Patto Educativo Globale, e i sette principi che ne formano l’architettura, includono molti di questi temi, dalla cura della casa comune alla piena partecipazione delle donne, fino alla necessità di trovare nuove modalità d’intendere l’economia, la politica, la crescita e il progresso. Vi invito a studiare il Patto educativo globale e ad appassionarvene. Uno dei punti che tratta è l’educazione all’accoglienza e all’inclusione. Non possiamo fingere di non aver sentito le parole di Gesù nel capitolo 25 di Matteo: «ero straniero e mi avete accolto» (v. 35). Ho seguito con emozione la testimonianza di Mahoor, quando ha evocato cosa significa vivere con «il sentimento costante di assenza di un focolare, della famiglia, degli amici […], di essere rimasta senza casa, senza università, senza soldi […], stanca, esausta e abbattuta dal dolore e dalle perdite». Ci ha detto di aver ritrovato speranza perché qualcuno ha creduto nell’impatto trasformante della cultura dell’incontro. Ogni volta che qualcuno pratica un gesto di ospitalità, provoca una trasformazione.

Amici, sono molto contento di vedervi comunità educativa viva, aperta alla realtà, e consapevoli che il Vangelo non fa da ornamento, ma anima le parti e l’insieme. So che il vostro percorso comprende diversi ambiti: studio, amicizia, servizio sociale, responsabilità civile e politica, cura della casa comune, espressioni artistiche… Essere un’università cattolica vuol dire anzitutto questo: che ogni elemento è in relazione al tutto e che il tutto si ritrova nelle parti. Così, mentre si acquisiscono le competenze scientifiche, si matura come persone, nella conoscenza di sé e nel discernimento della propria strada. Strada sì, labirinto no. Allora, avanti! Una tradizione medievale racconta che quando i pellegrini del Cammino di Santiago si incrociavano, uno salutava l’altro esclamando «Ultreia» e l’altro rispondeva «et Suseia». Sono espressioni di incoraggiamento a continuare la ricerca e il rischio del cammino, dicendoci reciprocamente: “Dai, coraggio, vai avanti!”. Questo è ciò che auguro anch’io a tutti voi, con tutto il cuore. Grazie.

Alle ore 10:40, sempre del secondo giorno della GMG il Pontefice ha incontrato i giovani di Scholas Occurrentes nella Sede di Scholas Occurentes di Cascais.

Domanda n. 1 (POR)

Buongiorno. Scholas! Scholas! Scholas!

Quando mi è stato presentato, non ho avuto dubbi ad accettarlo e abbracciarlo perché è uno spazio dove tutti condividono le proprie emozioni e sentimenti. È uno spazio dove ognuno contribuisce con ciò che ha, di valori etici e morali, per il benessere della comunità. Indipendentemente dalla sua religione od origine. Sono della Guinea Bissau e sono musulmano, ma mi sento parte di questo spazio. E, come musulmano, sento l’obbligo e il dovere di unirmi e di far parte di questo movimento. Perché ciò a cui anche l’islam esorta è la buona convivenza tra le credenze, tra le diverse credenze. Ed esorta e si preoccupa del benessere della comunità. Ci dice che cosa dobbiamo fare, che dobbiamo prenderci cura del prossimo e, per questo motivo, vorrei chiedere perché Scholas è uno spazio con cui tutti si identificano e perché tanta diversità per ottenere un’opera d’arte.

Papa:

Scholas rende possibile tutto ciò, che ognuno si senta interpretato. Con grande rispetto, ma non è un rispetto statico, ma dinamico, che mette in cammino, per fare cose, per esprimersi facendo, com’è questo dipinto, che come mi ha detto del Corral, è una cappella sistina dipinta da voi. (Applausi). Scholas ti mette in cammino, Scholas ti fa rispettare l’altro, e ascoltare l’altro che ha qualcosa da dirti, e l’altro ascoltare te perché tu hai qualcosa da dirgli. Scholas ti indica il cammino per andare avanti, ti fa andare avanti. Scholas è un incontro camminando, tutti, qualsiasi sia il Paese, qualsiasi sia la religione, soltanto guardare avanti e camminare insieme. E questo è costruttivo, come i tre km e mezzo di murale che voi avete fatto per arrivare qui.

Domanda n. 2 (POR)

Vorrei continuare un po’ nella direzione della diversità per entrare nel tema che è stato alla base dei due mesi del nostro lavoro, che è il caos. Noi, come gruppo, e anche io individualmente, abbiamo avuto l’opportunità di visitare varie comunità diverse, varie persone diverse, di religione diversa, di culture diverse, e questo ci ha dato una grandiosa opportunità per approfondire sempre più, non solo dentro di noi, ma anche dentro tutta la comunità, ciò che significa scoprire il sentimento vero che esse provano, le sofferenze vere che sentono e, in tal modo, dare loro l’opportunità di esprimere tutto ciò con una pennellata, con una linea sul murale. Dare loro l’opportunità di esprimersi! E questo inevitabilmente ci coinvolge, tocca il nostro cuore e ci fa pensare: abbiamo questo sentimento? Queste sofferenze fanno parte di noi, del nostro convivere? Allora vorrei domandare: che cosa ne sarebbe della nostra esistenza senza il caos originale? Grazie.

Papa:

Tu dici caos, va bene. È la crisi. Sapete da dove viene la parola “crisi”? Quando si raccoglieva il grano, si passava al setaccio [in spagnolo [cribar: fa notare la parentela tra “crisi” e “cribar”]. E la crisi nelle persone sono situazioni della vita, eventi, problemi organici, malumore o buonumore. Ti fa cribar, ossia setacciare, e tu devi scegliere. Una vita senza crisi è una vita asettica. A te piace bere acqua? Ti piace? Se ti do acqua distillata, uno schifo! L’acqua distillata è un’acqua senza crisi. Una vita senza crisi è come l’acqua distillata, non sa di niente. Non serve a niente. Solo per metterla nell’armadio e chiudere la porta. Le crisi bisogna accettarle, bisogna accettarle e risolverle. Perché neanche rimanere nella crisi è un bene, perché è un suicidio continuo. È come uno stare per arrivare, per arrivare. Le crisi le devi percorrere, le devi accettare. E raramente da solo. E anche questo è importante nel gruppo di Scholas. Camminare insieme per affrontare crisi insieme, risolvere cose. L’importante è andare avanti e crescere insieme. Allora, avanti, anche solo per mangiare una feijoada.

Domanda n. 3 (POR)

In questi ultimi due mesi abbiamo lavorato molto per riuscire a fare il murale che ha visto lì fuori. Ma questo murale veramente rappresenta il caos. Il caos che, molto spesso, quando lo viviamo, e quando lo viviamo da vicino, non capiamo, ed è una grande confusione. Sembrano solo linee aleatorie. Ma la verità è che arriva un momento in cui noi ci distanziamo. In quella distanza cominciamo a riuscire a vedere forme, colori; cominciamo a riuscire a trovare un senso in questo caos, a riuscire a pensare più di quello che spesso vediamo appena o sentiamo appena, ma sì, riusciamo a esprimere. Per me, ad esempio, è stata un’esperienza molto importante perché anch’io ho vissuto momenti di grande caos nella mia vita – credo che tutti li viviamo – e la verità è che, ascoltare la storia degli altri, aprirsi veramente per ascoltare, per condividere e per accogliere tutte le persone che hanno partecipato a questo murale, è stato un privilegio per noi, forse più che per loro, per noi che siamo qui e abbiamo permesso che ciò accadesse. E tutto ciò perché cerchiamo questo senso, tutti cerchiamo questo senso profondo di percepire che è qualcosa di più grande del semplice essere qui. E allora vorremmo domandarle: quando è passato accanto al murale, che cosa ha sentito, che cosa ha provato durante nel tragitto fino a qui, nel cuore di questo murale, che per noi è davvero semplicemente l’inizio o la fine. Non lo sappiamo. E prima che lei risponda, vorremmo anche, a nome di tutti, offrirle un pennello, questo pennello che rappresenta tutti noi.

Papa:

È bello quello che hai detto del caos. C’era uno che diceva che la vita dell’uomo, la nostra vita umana, è fare del caos un cosmo, ossia di ciò che non ha senso, è disordinato, è caotico, fare un cosmo, con senso, aperto, inviante, complessivo. Non voglio fare qui il catechista, ma se vediamo la struttura del racconto della Creazione, che è un racconto mitico, nel senso vero della parola “mito”, perché mito è forma di conoscenza. Allora usa questa storia colui che ha scritto il racconto della Creazione. Tra parentesi, questo è stato scritto molto tempo dopo che il popolo ebraico ha fatto l’esperienza della sua liberazione. Ossia, pima c’è tutta l’esperienza dell’esodo del popolo ebraico e poi guardano indietro. E come è iniziata la storia? Come si è trasformato il caos in cosmo? E lì, in un linguaggio poetico, si narra come Dio dal caos un giorno fa la luce, un altro giorno fa l’uomo, e continua a creare cose e a trasformare il caos in cosmo. Nella nostra vita succede lo stesso: ci sono momenti di crisi – riprendo questa parola -, che sono caotici, che non sai più a che punto di trovi, tutti attraversiamo questi momenti bui. Caos. E qui il lavoro personale, delle persone che ci accompagnano, di un gruppo così, è di trasformare il cosmo. A me risulta difficile in questo caos della Sistina [risate] pensare che dietro c’è un cosmo, perché il cosmo qual è? Lo state costruendo voi nel messaggio che state portando avanti, nel cammino che avete davanti. Non vi dimenticate mai di questo: trasformare un caos in un cosmo. E questo è il cammino di ognuno. Una vita che rimane nel caotico è una vita fallita, e una vita che non ha mai provato il caos è una vita distillata, dove tutto è perfetto. E le vite distillate non danno vita, muoiono in sé stesse. E se una vita personale e relazionale che ha provato la crisi come caos e lentamente dentro di sé, e nella comunità, si è trasformata in un cosmo… tanto di cappello!

Una delle giovani di Scholas Ocurrentes in spagnolo:

Grazie, Papa Francesco, per le tue parole. Grazie!

Una giovane in portoghese:

È una gioia per noi concludere così questo cammino. Ma, malgrado questa esperienza stia per finire, ci piacerebbe pensare che l’opera non finirà mai. Per questo oggi concluderemo cominciando.  E così, quando un cammino si chiude, un nuovo cammino si apre. Abbiamo deciso di chiamare questo progetto: “Vita tra Mondi”. Infatti tutto il murale è un’esperienza e un’espressione di vita che nascono dall’incontro di tante realtà diverse. Perciò oggi faremo un salto e riuniremo un mondo fisico con un mondo virtuale.

Una giovane in spagnolo:

Ti chiediamo, caro Francesco, di accompagnarci fino alla parete che hai dietro di te e di regalarci l’ultima pennellata di questo murale, ma con un pennello molto particolare, capace di iniziare al tempo stesso un’opera virtuale che riuscirà a riunire le diverse comunità di Scholas in tutto il mondo.

José María del Corral, Presidente di Scholas Ocurrentes:

Papa Francesco, il video, questo pennello virtuale di cui parlava Eugenia è un’arma per la pace. Sembra una pistola perché sparerà qui ma, invece di uccidere, questa pennellata che darai sulla parete la darai anche nel mondo virtuale. In questo momento ci sono ragazzi di Scholas in Mozambico, che hanno montato un dispositivo, in Mozambico, a Tofo, per vedere la pennellata che darai ora, e seguirla nel mondo virtuale, perché i giovani vogliono che sia tu a unire il mondo fisico con quello virtuale perché il mondo virtuale non smetta mai di essere concreto e impegnato con la realtà. [applausi] Dipingiamo la parete.

Papa:

Questa è la storia del buon Samaritano, e nessuno di noi è esente dall’essere un buon Samaritano. È un obbligo che abbiamo tutti. Ognuno deve cercarla nella vita, perché ognuno termina la propria vita […] ha perso come nella guerra. Il buon Samaritano lo trova gettato a terra, ma prima era passato un levita, era passato un sacerdote, però avevano fretta. Non gli hanno dato importanza. Ma oltre ad avere fretta, non potevano toccarlo perché c’era del sangue […] e secondo la legislazione di quel tempo chi toccava il sangue diventava impuro. Non so per quanto tempo doveva purificarsi, allora questo gli impediva di compiere il suo dovere, non doveva toccare. “Muori ma io non ti tocco, non divento impuro. Muori ma io non divento impuro”. Non dimenticatevi di questo. Quante volte può passare per la nostra mente: “Muori ma io non divento impuro”. Quante volte si preferisce la purezza rituale alla vicinanza umana […]. I Samaritani, nella mentalità dell’epoca, erano dei “disgraziati”, erano tutti disgraziati e commercianti, non erano puri di mente, di cuore, erano emarginati, ma il buon Samaritano lo vede, si ferma e la storia dice che provò compassione. “Muori, io mi preoccupo della mia purezza”. Provò compassione. Vi lascio la domanda: che cosa mi fa provare compassione? Oppure hai un cuore talmente arido che non provi compassione? Ognuno si dia una risposta. E poi che succede? Lo porta in un albergo e gli trova una stanza e dice al locandiere: “Guarda, io ripasserò tra tre giorni. Intanto prendi questo e se serve di più, al ritorno ti pago”. Questo “disgraziato” era uno che pagava. Allora abbiamo i ladroni che uccidono, il buon Samaritano che si prende cura e il levita e il sacerdote che se ne vanno per non diventare impuri. E Gesù dice: questo entra nel Regno dei Cieli, perché si è mosso a compassione. Pensate un po’ a questa storia. Dove sto io? Reco danno alla gente? Dove sto io? Evito le difficoltà reali o mi sporco le mani? A volte nella vita bisogna sporcarsi le mani per non sporcarsi il cuore.

Una giovane, in spagnolo:

Grazie, caro Francesco, per il tuo regalo, un vero segno per continuare a camminare insieme.

Papa: Ora vi do la benedizione, ma voi promettetemi di chiedere la benedizione anche per me, dopo.

Pregate per me, e chi tra voi non lo fa perché non può o perché non si sente, che mi mandi energia positiva.

Nel corso della Cerimonia di accoglienza nel “Parque Eduardo VII” iniziata alle 17:45 il Santo Padre ha detto:

Benvenuti! Benvenuti e grazie di essere qui, sono felice di vedervi! Sono felice di ascoltare il simpatico chiasso che fate e di farmi contagiare dalla vostra gioia. È bello essere insieme a Lisbona: siete stati chiamati qui da me, dal Patriarca, che ringrazio per le sue parole, dai vostri Vescovi, sacerdoti, catechisti e animatori. Ringraziamo tutti coloro che vi hanno chiamato e tutti quelli che hanno lavorato per rendere possibile questo incontro, e lo facciamo con un forte applauso! Però è soprattutto Gesù che vi ha chiamati: ringraziamo Gesù con un altro forte applauso!

Voi non siete qui per caso. Il Signore vi ha chiamati, non solo in questi giorni, ma dall’inizio dei vostri giorni. Tutti ci ha chiamati fin dall’inizio della nostra vita. Sì, Lui vi ha chiamati per nome: abbiamo ascoltato dalla Parola di Dio che ci ha chiamati per nome. Provate a immaginare queste tre parole scritte a grandi lettere; e poi pensate che stanno scritte dentro ciascuno di voi, nei vostri cuori, come a formare il titolo della vostra vita, il senso di quello che sei: tu sei chiamato per nome, tu, tu, tu, tutti noi che siamo qui, io, tutti siamo stati chiamati con il nostro nome. Non siamo stati chiamati automaticamente, siamo stati chiamati per nome. Pensiamo a questo: Gesù mi ha chiamato con il mio nome. Sono parole scritte nel cuore. E poi pensiamo che sono scritte dentro ciascuno di noi, nei nostri cuori, e formano una specie di titolo della tua vita, il senso di quello che siamo, il senso di quello che siete: sei stato chiamato per nome, sei stato chiamato per nome, sei stato chiamato per nome! Nessuno di noi è cristiano per caso: tutti siamo stati chiamati per nome. Al principio della trama della vita, prima dei talenti che abbiamo, delle ombre e delle ferite che portiamo dentro, siamo stati chiamati. Siamo stati chiamati, perché? Perché siamo amati. Siamo stati chiamati perché siamo amati. È bello! Agli occhi di Dio siamo figli preziosi, che Egli ogni giorno chiama per abbracciare e incoraggiare; per fare di ciascuno di noi un capolavoro unico e originale; ognuno di noi è unico, è originale, e la bellezza di tutto questo non la possiamo intravedere.

Cari giovani, in questa Giornata Mondiale della Gioventù, aiutiamoci vicendevolmente a riconoscere questa realtà: siano questi giorni echi vibranti di questa chiamata d’amore di Dio, perché siamo preziosi agli occhi di Dio, nonostante quello che a volte vedono i nostri occhi; a volte i nostri occhio sono  annebbiati dalle negatività e abbagliati da tante distrazioni. Che questi siano giorni in cui il mio nome, il tuo nome, il tuo nome attraverso fratelli e sorelle di tante lingue e nazioni – vediamo tante bandiere! – che lo pronunciano con amicizia, risuoni come una notizia unica nella storia, perché unico è il palpito di Dio per te. Siano giorni in cui fissare nel cuore che siamo amati così come siamo, non come vorremmo essere: come siamo adesso. Questo è il punto di partenza della GMG, ma soprattutto il punto di partenza della vita. Ragazzi e ragazze: siamo amati come siamo, senza trucco! Capito, questo?

Siamo chiamati per nome, ciascuno di noi. Non è un modo di dire, è Parola di Dio (cfr Is 43,1; 2 Tm 1,9). Amico, amica, se Dio ti chiama per nome significa che per Dio nessuno di noi è  un numero. È un volto, è una faccia, è un cuore. Vorrei che ognuno di voi noti una cosa: tanti, oggi, sanno il tuo nome, ma non ti chiamano per nome. Il tuo nome infatti è noto, appare sui social, viene elaborato da algoritmi che gli associano gusti e preferenze. Tutto questo però non interpella la tua unicità, ma la tua utilità per le indagini di mercato. Quanti lupi si nascondono dietro sorrisi di falsa bontà, dicendo di conoscere chi sei ma non volendoti bene, insinuando di credere in te e promettendoti che diventerai qualcuno, per poi lasciarti solo quando non interessi più. Queste sono le illusioni del virtuale e dobbiamo stare attenti a non lasciarci ingannare, perché tante realtà che oggi ci attirano e promettono felicità poi si mostrano poi per quello che sono: cose vane, bolle di sapone, cose superflue, cose che non servono e che ci lasciano il vuoto dentro. Vi dico una cosa: Gesù non è così, non è così! Lui ha fiducia in te, ha fiducia in ciascuno di voi, in ciascuno di noi perché per Gesù ciascuno di noi è importante, ciascuno di voi è importante. Questo è Gesù.

E allora noi, sua Chiesa, siamo la comunità di quelli che sono  chiamati: non siamo la comunità dei migliori, no, siamo tutti peccatori, ma siamo chiamati, così come siamo. Pensiamo un poco a questo, nel nostro cuore: siamo chiamati così come siamo, con i problemi che abbiamo, con le limitazioni che abbiamo, con la nostra gioia travolgente, con il nostro desiderio di essere migliori, con il nostro desiderio di vincere. Siamo chiamati così come siamo. Pensate a questo. Gesù mi chiama così come sono, non come mi piacerebbe essere. Siamo la comunità dei fratelli e delle sorelle di Gesù, figli e figlie dello stesso Padre.

Amici, vorrei essere chiaro con voi, che siete allergici alle falsità e alle parole vuote: nella Chiesa c’è spazio per tutti, per tutti! Nessuno è inutile, nessuno è superfluo, c’è spazio per tutti. Così come siamo, tutti. E questo Gesù lo dice chiaramente quando manda gli apostoli a invitare al banchetto di quell’uomo che lo aveva preparato, dice: “Andate e portate tutti, giovani e vecchi, sani e malati, giusti e peccatori: tutti, tutti, tutti”. Nella Chiesa c’è posto per tutti. “Padre, ma io sono un disgraziato…, sono una disgraziata, c’è posto per me?”. C’è posto per tutti! Tutti insieme, ognuno nella sua lingua, ripeta con me: “Tutti, tutti, tutti!”. [ripetono] Non si sente, ancora! “Tutti, tutti, tutti!”. E questa è la Chiesa, la Madre di tutti. C’è posto per tutti. Il Signore non punta il dito, ma apre le sue braccia. Questo ci fa pensare: il Signore non sa fare questo [puntare il dito], ma sa fare questo [abbracciare], ci abbraccia tutti.  Ce lo mostra Gesù in croce, che tanto ha aperto le sue braccia da essere crocifisso e morire per noi. Gesù non chiude mai la porta, mai, ma ti invita a entrare: “entra e vedi”. Gesù ti riceve, Gesù accoglie. In questi giorni ciascuno di noi trasmetta il linguaggio d’amore di Gesù:  “Dio ti ama, Dio ti chiama”. Che bello che è questo! Dio mi ama, Dio mi chiama, vuole che io sia vicino a Lui.

Voi stasera mi avete fatto anche delle domande, tante domande. Non stancatevi mai di fare domande! Fare domande è giusto, anzi spesso è meglio che dare risposte, perché chi domanda resta “inquieto” e l’inquietudine è il miglior rimedio all’abitudine, a quella normalità piatta che anestetizza l’anima. Ciascuno di noi ha dentro di sé le proprie inquietudini. Portiamo con noi queste inquietudini e portiamole nel dialogo tra di noi, portiamole con noi quando preghiamo davanti a Dio. Queste domande che con la vita diventano risposte, dobbiamo soltanto aspettarle. C’è una cosa molto interessante: Dio ama per sorpresa, non è programmato. L’amore di Dio è sorpresa. Sempre sorprende, sempre ci tiene svegli e ci sorprende.

Cari ragazzi e ragazze, vi invito a pensare a questa cosa tanto bella: che Dio ci ama, Dio ci ama come siamo, non come vorremmo essere o come la società vorrebbe che fossimo: come siamo. Ci ama con i difetti che abbiamo, con le limitazioni che abbiamo e con la voglia che abbiamo di andare avanti nella vita. Dio ci chiama così. Abbiate fiducia perché Dio è Padre, ed è un Padre che ci ama, un Padre che ci vuole bene. Questo non è molto facile, e per questo abbiamo un grande aiuto nella Madre del Signore, che è anche nostra Madre. Lei è nostra Madre. Solo questo volevo dirvi. Non abbiate paura, abbiate coraggio, andate avanti, sapendo che siamo protetti dall’amore di Dio. Dio ci ama. Diciamolo insieme, tutti: “Dio ci ama”. Più forte, che non sento! [ripetono] Non si sente qui… [ripetono] Grazie!

Il terzo giorno della GMG del Papa, Venerdì, 4 agosto 2023, a Lisbona, è cominciato alle 09:00 con la confessione di alcuni giovani della GMG presso il Giardino Vasco da Gama. Alle 09:45, incontrando i rappresentanti di alcuni centri di assistenza e di carità nel “Centro Paroquial de Serafina” il Pontefice ha detto:

Ringrazio il Parroco per le sue parole e saluto tutti voi, in particolare gli amici del Centro Paroquial da Serafina, della Casa Famiglia Ajuda de Berço e dell’Associazione Acreditar.  E ringrazio per le vostre parole che hanno illustrato il lavoro che si fa, grazie! È bello essere qui insieme nel contesto della Giornata Mondiale della Gioventù, mentre guardiamo alla Vergine che si alza per andare ad aiutare. La carità, infatti, è l’origine e la meta del cammino cristiano, e la vostra presenza, realtà concreta di “amore in azione”, ci aiuta a non dimenticare la rotta, il senso di quello che stiamo facendo sempre. Grazie per le vostre testimonianze, delle quali vorrei sottolineare tre aspetti: fare il bene insiemeagire concretamente e stare vicini ai più fragili. Ossia, fare il bene insieme, agire concretamente, non solo con idee, bensì concretamente, stare vicino ai più fragili.

Primo: fare il bene insieme. “Insieme” è la parola chiave, che è stata ripetuta tante volte negli interventi. Vivere, aiutare e amare insieme: giovani e adulti, sani e malati, insieme. João ci ha detto una cosa molto importante: che non bisogna lasciarsi “definire” dalla malattia, ma farne parte viva del contributo che diamo all’insieme della comunità. È vero: non dobbiamo lasciarci “definire” dalla malattia o dai problemi, perché noi non siamo una malattia, non siamo un problema: ciascuno di noi è un regalo, è un dono, un dono unico, con i suoi limiti, ma un dono, un dono prezioso e sacro per Dio, per la comunità cristiana e per la comunità umana. Allora, così come siamo, arricchiamo l’insieme e lasciamoci arricchire dall’insieme!

Secondo: agire concretamente. Anche questo è importante. Come ci ha ricordato don Francisco, citando San Giovanni XXIII, la Chiesa non è un museo di archeologia. Alcuni la pensano così, ma non lo è. È l’antica fontana del villaggio che dà l’acqua alle generazioni di oggi come a quelle future (cfr Omelia nella Liturgia in Rito Bizantino-Slavo in onore di S. Giovanni Crisostomo, 13 novembre 1960). La fontana serve per placare la sete delle persone che arrivano, con il peso del viaggio o della vita e sono concretezza. Concretezza, dunque, attenzione al “qui e ora”, come già fate, con cura dei particolari e senso pratico, belle virtù tipiche del popolo portoghese.

Quando non si perde tempo a lamentarsi della realtà, ma ci si preoccupa di andare incontro ai bisogni concreti, con gioia e fiducia nella Provvidenza, accadono cose meravigliose. Lo testimonia la vostra storia: dall’incontro con lo sguardo di un anziano sulla strada nasce un centro di carità “a tutto tondo”, come quello in cui ci troviamo; da una sfida morale e sociale, la “campagna per la vita”, nasce un’associazione che aiuta mamme e famiglie in attesa, bambini, ragazzi e giovani in difficoltà, perché, come ci ha raccontato Sandra, trovino un progetto di vita sicuro; dall’esperienza della malattia nasce una comunità di sostegno a chi affronta la battaglia contro il cancro, specialmente ai bambini, affinché, come ci ha detto João, «l’evoluzione della cura e la migliore qualità della vita diventino per loro una realtà». Grazie per quello che fate! Continuate con mitezza e gentilezza a lasciarvi interrogare dalla realtà, con le sue povertà antiche e nuove, e a rispondere in modo concreto, con creatività e coraggio.

Il terzo aspetto: stare vicini ai più fragili. Tutti siamo fragili e bisognosi, ma lo sguardo di compassione del Vangelo ci porta a vedere le necessità di chi ha più bisogno. E a servire i poveri, i prediletti di Dio che si è fatto povero per noi (cfr 2 Cor 8,9): gli esclusi, gli emarginati, gli scartati, i piccoli, gli indifesi. Sono loro il tesoro della Chiesa, sono i preferiti di Dio! E, tra di loro, ricordiamoci di non fare differenze. Per un cristiano, infatti, non ci sono preferenze di fronte a chi bussa bisognoso alla porta: connazionali o stranieri, appartenenti a un gruppo o ad un altro, giovani o anziani, simpatici o antipatici…

E, a proposito di carità, vorrei ora raccontarvi una storia, specialmente a voi bambini, che forse non la conoscete. È la storia, veramente accaduta, di un giovane portoghese vissuto molto tempo fa. Si chiamava Giovanni Ciudad e abitava a Montemor-o-Novo. Sognava una vita avventurosa e così, da ragazzo, partì da casa in cerca della felicità. La trovò dopo tanti anni e molte avventure, quando incontrò Gesù. E fu così felice della scoperta che decise di cambiare perfino il nome e di chiamarsi, da allora in poi, non più Giovanni Ciudad, ma Giovanni di Dio. E fece una cosa ardita: andò in città e si mise a chiedere l’elemosina per strada, dicendo alla gente: «Fate del bene, fratelli, a voi stessi!». Capite? Chiedeva la carità, ma diceva a quelli che gliela facevano che, aiutando lui, in realtà aiutavano prima di tutto sé stessi! Spiegava, cioè, che i gesti d’amore sono un dono anzitutto per chi li fa, prima ancora che per chi li riceve; perché tutto quello che si accaparra per sé andrà perso, mentre quello che si dona per amore non andrà mai sprecato, ma sarà il nostro tesoro in cielo.

Per questo diceva: «Fate del bene, fratelli, a voi stessi!». Ma l’amore non rende felici solo in cielo, bensì già qui in terra, perché dilata il cuore e permette di abbracciare il senso della vita. Se vogliamo essere davvero felici, impariamo a trasformare tutto in amore, offrendo agli altri il nostro lavoro e il nostro tempo, dicendo parole e compiendo gesti buoni, anche con un sorriso, con un abbraccio, con l’ascolto, con lo sguardo. Cari ragazzi, fratelli e sorelle, viviamo così! Tutti possiamo farlo e tutti ne abbiamo bisogno, qui e ovunque nel mondo.

Sapete poi cosa successe a Giovanni? Che non lo capirono! Pensavano che fosse matto e lo chiusero in un manicomio. Ma lui non si demoralizzò, perché l’amore non si arrende, perché chi segue Gesù non perde la pace e non si piange addosso. E proprio lì, in manicomio, portando la croce, arrivò l’ispirazione di Dio. Giovanni si rese conto di quanto i malati avessero bisogno di aiuto e, quando finalmente lo lasciarono uscire, dopo alcuni mesi, cominciò a prendersi cura di loro con altri compagni, fondando un ordine religioso: i Fratelli Ospedalieri. Alcuni, però, cominciarono a chiamarli in un altro modo, proprio con le parole di quel giovane che diceva a tutti: “Fate-del-bene-fratelli”! A Roma noi li chiamiamo così: i “Fatebenefratelli”. Che bel nome, che insegnamento importante! Aiutare gli altri è un dono per sé e fa bene a tutti. Sì, amare è un dono per tutti! Ricordiamoci: “o amor é um presente para todos!”. Ripetiamolo insieme: o amor é um presente para todos!

Amiamoci così! Continuate a fare della vita un regalo d’amore e di gioia. Io vi ringrazio e vi raccomando, tutti quanti ma specialmente i bambini, andate avanti a pregare per me. Obrigado!

* * * 

Parole a braccio

Sono molte le cose che vorrei dirvi ora, ma succede che non mi stanno funzionando “i riflettori” e non posso leggere bene. Perciò ve lo consegno, perché lo rendiate pubblico poi. Non si può forzare la vista e leggere male.

Voglio solo soffermarmi su qualcosa che non è scritto, ma che sta nello spirito dell’incontro: la concretezza. Non esiste amore astratto, non esiste. L’amore platonico sta in orbita, non sta nella realtà. L’amore concreto, quello che si sporca le mani. Ognuno di noi può chiedere: l’amore che io sento per tutti quelli che stanno qui, quello che sento per gli altri, è concreto o astratto? Quando io do la mano a una persona bisognosa, a un malato, a un emarginato, dopo aver dato la mano, faccio subito così [strofina la mano sulla veste] per non contagiarmi? Mi disgusta la povertà, la povertà degli altri? Cerco sempre la vita “distillata”, quella che esiste nella mia fantasia, ma non esiste nella realtà? Quante vite distillate, inutili, che passano senza lasciare un’impronta, perché quelle vite non hanno peso!

E qui abbiamo una realtà che lascia un’impronta, una realtà di tanti anni, tanti anni, che sta lasciando un’impronta che è d’ispirazione per gli altri. Non potrebbe esistere una Giornata Mondiale della Gioventù senza tener conto di questa realtà. Perché anche questo è gioventù, nel senso che voi generate vita nuova continuamente. Con la vostra condotta, con il vostro impegno, con il vostro sporcarvi le mani per toccare la realtà della miseria degli altri, state generando ispirazione, state generando vita. Grazie per questo! Vi ringrazio con tutto il cuore. Andate avanti e non vi scoraggiate! E se vi scoraggiate, prendete un bicchiere d’acqua e andate avanti!

Dopo il Pranzo con i giovani nella Nunziatura Apostolica alle ore 18:00 il Papa ha guidato la Via Crucis con i giovani nel “Parque Eduardo VII”, dicendo:

Oggi camminerete con Gesù. Gesù è la Via e noi cammineremo con Lui, perché Lui ha camminato. Quando era tra noi, Gesù ha camminato. Ha camminato curando i malati, assistendo i poveri, facendo giustizia; ha camminato predicando, insegnando. Gesù cammina. Ma il cammino che più è inciso nel nostro cuore è il cammino del Calvario, la via della Croce. E oggi voi, noi, io pure, con la preghiera rinnoveremo la via della Croce. E guarderemo Gesù che passa e cammineremo con Lui.

Il cammino di Gesù è Dio che esce da sé stesso, esce da sé stesso per camminare tra noi. Quello che ascoltiamo tante volte nella Messa: “Il Verbo si fece carne e camminò tra noi”. Ricordate? E il Verbo si fece uomo e camminò tra noi. E questo lo fa per amore. Lo fa per amore. E la Croce che accompagna ogni Giornata Mondiale della Gioventù è l’icona, è la figura di questo cammino. La Croce è il senso più grande dell’amore più grande, l’amore con il quale Gesù vuole abbracciare la nostra vita. La nostra? Sì, la tua, la tua, la tua, quella di ciascuno di noi. Gesù cammina per me. Dobbiamo dirlo tutti. Gesù intraprende questo cammino per me, per dare la sua vita per me. E nessuno ha più amore di chi dà la vita per i suoi amici, di colui che dà la vita per gli altri. Non dimenticate questo: nessuno ha più amore di chi dà la vita, e questo lo ha insegnato Gesù. Per questo, quando guardiamo il Crocifisso, che è tanto doloroso, una cosa così dura, vediamo la bellezza dell’amore che dà la sua vita per ciascuno di noi. Diceva una persona molto credente una frase che mi ha colpito molto. Diceva così: “Signore, per la tua ineffabile agonia posso credere nell’amore”. Signore, per la tua ineffabile agonia posso credere nell’amore.

Gesù cammina, ma spera qualcosa, spera la nostra compagnia, spera che guardiamo… Non so, spera di aprire le finestre della mia anima, della tua anima, dell’anima di ciascuno di noi. Come sono brutte le anime chiuse, che seminano dentro e sorridono dentro! Non hanno senso. Gesù cammina e spera con il suo amore, con la sua tenerezza, di darci consolazione, di asciugare le nostre lacrime.

Ora vi faccio una domanda, però non rispondete a voce alta, ciascuno risponda dentro di sé. Io piango, qualche volta? Ci sono cose nella vita che mi fanno piangere? Tutti nella vita abbiamo pianto, e piangiamo ancora. E lì c’è Gesù con noi, Lui piange con noi, perché ci accompagna nell’oscurità che ci porta al pianto.

Adesso farò un po’ di silenzio, e ciascuno dica a Gesù per che cosa piange nella vita; ciascuno di noi glielo dice adesso, in silenzio.

[momento di silenzio]

Gesù, con la sua tenerezza, asciuga le nostre lacrime nascoste. Gesù spera di riempire, con la sua vicinanza, la nostra solitudine. Come sono tristi i momenti di solitudine! Lui è lì, Lui vuole colmare questa solitudine. Gesù vuole colmare la nostra paura, la tua paura, la mia paura, quelle paure oscure vuole colmarle con la sua consolazione. E Lui spera di spingerci ad abbracciare il rischio di amare. Perché, voi lo sapete, lo sapete meglio di me: amare è rischioso. Bisogna correre il rischio di amare. È un rischio, ma vale la pena correrlo, e Lui ci accompagna in questo. Sempre ci accompagna. Sempre cammina. Sempre, durante la vita, sta insieme a noi.

Non vorrei dire tante cose in più. Oggi faremo il cammino con Lui, il cammino della sua sofferenza, il cammino delle nostre preoccupazioni, il cammino delle nostre solitudini.

Adesso, un secondo di silenzio, e ciascuno di noi pensi alla propria sofferenza, pensi alla propria preoccupazione, pensi alle proprie miserie. Non abbiate paura, pensateci. E pensate al desiderio che l’anima torni a sorridere.

[momento di silenzio]

E Gesù cammina fino alla Croce, muore sulla Croce, affinché la nostra anima possa sorridere. Amen.

Sabato, 5 agosto 2023, alle ore 08:00 il Papa è partito in elicottero dalla Base Aerea di Figo Maduro a Lisbona per Fatima, dove è arrivato alle 08:50 allo stadio della città che ha registrato le famose apparizioni mariane.

Alle 09:30 il Pontefice ha pregato il Santo Rosario con i giovani ammalati presso la Cappella delle Apparizioni del Santuario di Nostra Signora di Fatima. Al termine il Papa ha detto:

Abbiamo recitato il Rosario, una preghiera bellissima, e vitale, perché ci mette a contatto con la vita di Gesù e di Maria. E abbiamo meditato i misteri della gioia, i quali ci ricordano che la Chiesa non può che essere la casa della gioia. La cappellina in cui ci troviamo è una bella immagine della Chiesa: accogliente, senza porte. La Chiesa non ha porte, affinché tutti possano entrare. E qui possiamo anche insistere sul fatto che tutti possono entrare, perché questa è la casa della Madre, e una madre ha sempre il cuore aperto per tutti i suoi figli, tutti, tutti, tutti, senza alcuna esclusione.  

Siamo qui, sotto lo sguardo materno di Maria, siamo qui come Chiesa, Chiesa madre. Il pellegrinaggio è proprio una caratteristica mariana, perché la prima a fare un pellegrinaggio dopo l’annunciazione di Gesù fu Maria. Appena venne a sapere che sua cugina era incita – era avanti con l’età la cugina – partì di corsa. È una traduzione un po’ libera, il Vangelo dice “andò in fretta”, noi diremmo “partì di corsa”, partì di corsa con quel desiderio di aiutare, di essere presente.

Ci sono tanti titoli di Maria, ma pensandoci uno che pure potremmo dire è questo: la Vergine “che va di corsa”, ogni volta che c’è un problema; ogni volta che la invochiamo, non indugia, viene, è premurosa. Madonna premurosa, vi piace così? Diciamolo tutti insieme: Madonna premurosa! Si affretta per stare vicino a noi, si affretta perché Madre. In portoghese si dice “apressada”, mi dice Mons. Ornelas. Madonna “apressada”. E così accompagna la vita di Gesù; e non si nasconde dopo la Risurrezione, accompagna i discepoli, aspettando lo Spirito Santo; e accompagna la Chiesa che inizia a crescere dopo la Pentecoste. Madonna che ha premura e Madonna che accompagna. Accompagna sempre. Non è mai protagonista. Il gesto di Maria Madre di accogliere è duplice: prima accoglie e poi indica Gesù. Maria nella sua vita non fa altro che indicare Gesù. “Fate quello che vi dirà”. Seguite Gesù.

Questi sono i due gesti di Maria, pensiamoci bene: ci accoglie tutti e indica Gesù. E questo lo fa un po’ con premura, “apressada”. Madonna premurosa che ci accoglie tutti e ci indica Gesù. E ogni volta che veniamo qui ricordiamoci di questo. Maria qui si rese presente in modo speciale, perché l’incredulità di tanti cuori si aprisse a Gesù. Con la sua presenza ci indica Gesù, sempre indica Gesù. E oggi è qui tra noi, è sempre tra noi, ma oggi la sentiamo molto più vicina. Maria premurosa.

Amici, Gesù ci ama a tal punto da identificarsi con noi, e ci chiede di collaborare con Lui. E Maria ci indica questo che Gesù ci chiede: camminare nella vita collaborando con Lui. Vorrei che oggi guardassimo l’immagine di Maria e ognuno pensasse: che cosa mi dice Maria come Madre? che cosa mi sta indicando? Ci indica Gesù; a volte ci indica anche qualche piccola cosa che nel cuore non funziona bene, ma sempre indica. “Madre, cosa mi stai indicando?”. Facciamo un piccolo momento di silenzio e ognuno nel suo cuore dica: “Madre, che cosa mi stai indicando? Che c’è nella mia vita che ti preoccupa? Che c’è nella mia vita che ti commuove? Che c’è nella mia vita che ti interessa? E tu lo indichi”. E lì ci indica il cuore perché Gesù venga. E così come a noi indica Gesù, a Gesù indica il cuore di ognuno di noi.

Cari fratelli, sentiamo oggi la presenza di Maria Madre, la Madre che sempre dirà: “Fate quello che Gesù vi dice”; ci indica Gesù. Ma pure la Madre che dice a Gesù: “Fai quello che questi ti sta chiedendo”. Questa è Maria. Questa è la nostra Madre, la Madonna premurosa per stare vicino a noi. Che Lei ci benedica tutti! Amen.

Alle 11:00, dopo essere ripartito in elicottero dallo stadio di Fatima per Lisbona (dove è arrivato, alle 11:50, alla Base Aerea di Figo Maduro a Lisbona), alle 18:00 il Pontefice ha avuto un incontro privato con i Membri della Compagnia di Gesù presso il “Colégio de S. João de Brito”. Infine, alle 20:45, si è tenuta la Veglia con i giovani nel “Parque Tejo”.

Mi dà tanta gioia vedervi! Grazie per aver viaggiato, per aver camminato, e grazie di essere qui! E penso che anche la Vergine Maria ha dovuto viaggiare per vedere Elisabetta: «Si alzò e andò in fretta» (Lc 1,39). Viene da chiedersi: perché Maria si alza e va in fretta dalla cugina? Certo, ha appena saputo che la cugina è incinta, ma anche lei lo è: perché allora andare se nessuno gliel’aveva chiesto? Maria compie un gesto non richiesto e non dovuto; Maria va perché ama e «chi ama vola, corre lietamente» (L’imitazione di Cristo, III,5). Questo è quello che ci fa l’amore.

La gioia di Maria è duplice: aveva appena ricevuto l’annuncio dell’angelo, che avrebbe accolto il Redentore, e anche la notizia che la cugina era incinta. Allora, è interessante: invece di pensare a sé stessa, pensa all’altra. Perché? Perché la gioia è missionaria, la gioia non è per uno, è per portare qualcosa. Vi domando: voi, che siete qui, che siete venuti a incontrarvi, a trovare il messaggio di Cristo, a trovare un senso bello della vita, questo, lo terrete per voi o lo porterete agli altri? Cosa pensate? Non sento… È per portarlo agli altri, perché la gioia è missionaria! Ripetiamolo tutti insieme: la gioia è missionaria! E così io porto questa gioia agli altri.

Ma questa gioia che abbiamo, altri ci hanno preparato a riceverla. Adesso guardiamo indietro, a tutto quello che abbiamo ricevuto: tutto questo ha predisposto il nostro cuore alla gioia. Tutti, se guardiamo indietro, abbiamo persone che sono state un raggio di luce per la nostra vita: genitori, nonni, amici, sacerdoti, religiosi, catechisti, animatori, maestri… Loro sono come le radici della nostra gioia. Ora facciamo un attimo di silenzio, e ciascuno pensa a coloro che ci hanno dato qualcosa nella vita, che sono come le radici della gioia.

[momento di silenzio]

Avete trovato? Avete trovato dei volti, delle storie? La gioia che è venuta attraverso quelle radici è quella che noi dobbiamo dare, perché noi abbiamo radici di gioia. E allo stesso modo noi possiamo essere radici di gioia per gli altri. Non si tratta di portare una gioia passeggera, una gioia del momento; si tratta di portare una gioia che crea radici. E mi domando: come possiamo diventare radici di gioia?

La gioia non sta nella biblioteca, chiusa – anche se è necessario studiare! – ma sta da un’altra parte. Non è custodita sotto chiave. La gioia bisogna cercarla, bisogna scoprirla. Bisogna scoprirla nel dialogo con gli altri, dove dobbiamo dare queste radici di gioia che abbiamo ricevuto. E questo, a volte, stanca. Vi faccio una domanda: voi vi stancate a volte? Pensate a cosa accade quando uno è stanco: non ha voglia di far niente, come diciamo in spagnolo uno getta la spugna perché non ha voglia di andare avanti e allora uno si arrende, smette di camminare e cade. Voi credete che una persona che cade, nella vita, che ha un fallimento, che anche commette errori gravi, forti, che la sua vita sia finita? No! Che cosa bisogna fare? Alzarsi! E c’è una cosa molto bella che oggi vorrei lasciarvi come ricordo. Gli alpini, ai quali piace scalare le montagne, hanno un canto molto bello che dice così: “Nell’arte di salire – sulla montagna –, quello che conta non è non cadere, ma non rimanere caduto”. È bello!

Chi rimane caduto è già “andato in pensione” dalla vita, ha chiuso, ha chiuso alla speranza, ha chiuso ai desideri e rimane a terra. E quando vediamo qualcuno, un nostro amico che è caduto, cosa dobbiamo fare? Sollevarlo. Fate caso a quando uno deve sollevare o devi aiutare una persona a sollevarsi, che gesto fa? Lo guarda dall’alto in basso. L’unica occasione, l’unico momento in cui è lecito guardare una persona dall’alto in basso, ed è per aiutarla a rialzarsi. Quante volte, quante volte vediamo persone che ci guardano così, sopra le spalle, dall’alto in basso! È triste. L’unico modo, l’unica situazione in cui è lecito guardare una persona dall’alto in basso è… ditelo voi…, forte: per aiutarla ad alzarsi.

Bene, questo un po’ è il cammino, la costanza nel camminare. E nella vita, per ottenere le cose bisogna allenarsi a camminare. A volte non abbiamo voglia di camminare, non abbiamo voglia di fare fatica, copiamo agli esami perché non abbiamo voglia di studiare e non arriviamo al risultato. Non so se a qualcuno di voi piace il calcio…, a me piace. Dietro a un gol, cosa c’è? Tanto allenamento. Dietro un risultato, cosa c’è? Tanto allenamento. E nella vita, non sempre uno può fare quello che vuole, ma quello che ci porta a fare la vocazione che abbiamo dentro – ognuno ha la propria vocazione. Camminare. E se cado, mi rialzo o qualcuno mi aiuterà a rialzarmi; non rimanere caduto; e allenarmi, allenarmi a camminare. E tutto questo è possibile, non perché seguiamo un corso sul camminare – non esistono corsi che ci insegnano a camminare nella vita –: questo si impara, si impara dai genitori, si impara dai nonni, si impara dagli amici, dandosi una mano a vicenda. Nella vita si impara, e questo è allenamento per camminare.

Vi lascio questi spunti. Camminare e, se si cade, rialzarsi; camminare con una meta; allenarsi tutti i giorni nella vita. Nella vita, nulla è gratis, tutto si paga. Solo una cosa è gratis: l’amore di Gesù! Quindi, con questo gratis che abbiamo – l’amore di Gesù – e con la voglia di camminare, camminiamo nella speranza, guardiamo alle nostre radici e andiamo avanti, senza paura. Non abbiate paura.

Nell’ultima giornata della GMG 2023, Domenica 6 agosto 2023, alle ore 09:00 il Pontefice ha celebrato la Santa Messa nel “Parque Tejo”, e la recita dell’Angelus.

Nell’omelia, in occasione della Festa della Trasfigurazione del Signore, il Pontefice ha detto:

«Signore, è bello per noi essere qui!» (Mt 17,4). Queste parole, che disse l’apostolo Pietro a Gesù sul monte della Trasfigurazione, vogliamo farle anche nostre dopo questi giorni intensi.  È bello quanto stiamo sperimentando con Gesù, ciò che abbiamo vissuto insieme, ed è bello come abbiamo pregato, con tanta gioia del cuore. Allora possiamo chiederci: cosa portiamo con noi ritornando alla vita quotidiana?

Vorrei rispondere a questo interrogativo con tre verbi, seguendo il Vangelo che abbiamo ascoltato. Che cosa portiamo? Brillareascoltare, non temere. Che cosa portiamo con noi? Rispondo con queste tre parole: brillare, ascoltare e non temere.

La prima: brillare. Gesù si trasfigura. Il Vangelo dice: «Il suo volto brillò come il sole» (Mt 17,2). Egli aveva da poco annunciato la sua passione e la morte di croce, frantumando così l’immagine di un Messia potente, mondano, e deludendo le attese dei discepoli. Ora, per aiutarli ad accogliere il progetto d’amore di Dio su ciascuno di noi, Gesù prende tre di loro, Pietro, Giacomo e Giovanni, li conduce sul monte e si trasfigura. E questo “bagno di luce” li prepara alla notte della passione.

Amici, cari giovani, anche oggi noi abbiamo bisogno di un po’ di luce, di un lampo di luce che sia speranza per affrontare tante oscurità che ci assalgono nella vita, tante sconfitte quotidiane, per affrontarle con la luce della risurrezione di Gesù. Perché Lui è la luce che non tramonta, è la luce che brilla anche nella notte. «Il nostro Dio ha fatto brillare i nostri occhi», dice il sacerdote Esdra (Esd 9,8). Il nostro Dio illumina. Illumina il nostro sguardo, illumina il nostro cuore, illumina la nostra mente, illumina il nostro desiderio di fare qualcosa nella vita. Sempre con la luce del Signore.

Ma vorrei dirvi che non diventiamo luminosi quando ci mettiamo sotto i riflettori, no, questo abbaglia. Non diventiamo luminosi. Non diventiamo luminosi quando esibiamo un’immagine perfetta, ben ordinata, ben rifinita, no; e neanche se ci sentiamo forti e vincenti, forti e vincenti, ma non luminosi. Noi diventiamo luminosi, brilliamo quando, accogliendo Gesù, impariamo ad amare come Lui. Amare come Gesù: questo ci rende luminosi, questo ci porta a fare opere di amore. Non t’ingannare, amica, amico, diventerai luce il giorno in cui farai opere di amore. Ma quando, invece di fare opere di amore verso gli altri, guardi a te stesso, come un egoista, lì la luce si spegne.

Il secondo verbo è ascoltare. Sul monte, una nube luminosa copre i discepoli. E questa nube, dalla quale parla il Padre, che cosa dice? «Ascoltatelo», «questi è il Figlio mio prediletto, ascoltatelo» (Mt 17,5). È tutto qui: tutto quello che c’è da fare nella vita sta in questa parola: ascoltatelo. Ascoltare Gesù. Tutto il segreto sta qui. Ascolta che cosa ti dice Gesù. “Io non so cosa mi dice”. Prendi il Vangelo e leggi quello che dice Gesù, quello che dice al tuo cuore. Perché Lui ha parole di vita eterna per noi, Lui rivela che Dio è Padre, è amore. Lui ci indica il cammino dell’amore. Ascolta Gesù. Perché noi, anche se con buona volontà, ci mettiamo su strade che sembrano di amore, ma in definitiva sono egoismi mascherati da amore. State attenti agli egoismi mascherati da amore! Ascoltalo, perché Lui ti dirà qual è il cammino dell’amore. Ascoltalo.

Brillare è la prima parola, siate luminosi; ascoltare, per non sbagliare strada; e infine la terza parola: non avere paura. Non abbiate paura. Una parola che nella Bibbia si ripete tanto, nei Vangeli: “non abbiate paura”. Queste furono le ultime parole che nel momento della Trasfigurazione Gesù disse ai discepoli: «Non temete» (Mt 17,7).

A voi giovani che avete vissuto questa gioia – stavo per dire questa gloria, e in effetti una specie di gloria lo è, questo nostro incontro –; a voi che coltivate sogni grandi ma spesso offuscati dal timore di non vederli realizzati; a voi che a volte pensate di non farcela – un po’ di pessimismo ci assale a volte –; a voi, giovani, tentati in questo tempo di scoraggiarvi, di giudicarvi forse inadeguati o di nascondere il dolore mascherandolo con un sorriso; a voi, giovani, che volete cambiare il mondo – ed è un bene che vogliate cambiare il mondo – e che volete lottare per la giustizia e la pace; a voi, giovani, che ci mettete impegno e fantasia nella vita, ma vi sembra che non bastino; a voi, giovani, di cui la Chiesa e il mondo hanno bisogno come la terra della pioggia; a voi, giovani, che siete il presente e il futuro; sì, proprio a voi, giovani, Gesù oggi dice: “Non temete!”, “Non abbiate paura!”.

In un piccolo silenzio, ognuno ripeta a sé stesso, nel proprio cuore, queste parole: “Non abbiate paura”.

Cari giovani, vorrei guardare negli occhi ciascuno di voi e dirvi: non temete, non abbiate paura. Di più, vi dico una cosa molto bella. Non sono più io, è Gesù stesso che vi guarda ora, vi guarda, Lui che vi conosce, conosce il cuore di ognuno di voi, conosce la vita di ognuno di voi, conosce le gioie, conosce le tristezze, i successi e i fallimenti, conosce il vostro cuore. E oggi Lui dice a voi, qui, a Lisbona, in questa Giornata Mondiale della Gioventù: “Non temete, non temete, coraggio, non abbiate paura!”.  

Durante l’Angelus il Pontefice ha aggiunto: Una parola è risuonata tante volte in questi giorni: “grazie”, o meglio, “obrigado”. È molto bello quanto ci ha appena detto il Patriarca di Lisbona, ovvero che obrigado non esprime solo gratitudine per ciò che si è ricevuto, ma anche il desiderio di ricambiare il bene. In questo evento di grazia, tutti noi abbiamo ricevuto e ora il Signore ci fa sentire il bisogno, tornando a casa, di condividere con gli altri, testimoniando la gioia, la gratuità di Dio, e quello che Dio ci ha messo nel cuore.

Prima però di inviarvi desidero dire anch’io obrigado. Anzitutto al Cardinale Clemente, e con Lui alla Chiesa e all’intero popolo portoghese, obrigado. Obrigado al Signor Presidente, che ci ha accompagnato negli eventi di questi giorni. Obrigado alle Istituzioni nazionali e locali per il sostegno e l’assistenza forniti. Obrigado ai Vescovi, ai sacerdoti, ai consacrati e ai laici. Y obrigado a te, Lisbona, che rimarrai nella memoria di questi giovani come “casa di fraternità” e “città di sogni”! Tanta gratitudine esprimo poi al Cardinal Farrell, che è ringiovanito in queste Giornate, e a coloro che hanno preparato queste Giornate, così come a quanti le hanno accompagnate con la preghiera. Obrigado ai volontari, ai quali va l’applauso di cuore per il grande servizio svolto! Un ringraziamento speciale a chi ha vegliato sulla GMG dall’alto, cioè ai Santi patroni dell’evento: uno su tutti, Giovanni Paolo II, che ha dato vita alle Giornate Mondiali della Gioventù.

obrigado a tutti voi, cari giovani! Dio vede tutto il bene che siete, Lui solo conosce quello che ha seminato nei vostri cuori. Voi andate via da qui con quello che Dio ha seminato nel cuore: fatelo crescere, custoditelo con cura. Vorrei farvi una raccomandazione: fatene memoria, fissate nella mente e nel cuore i momenti più belli, perché così, quando arriverà qualche momento di fatica e scoraggiamento – che è inevitabile –, e magari la tentazione di fermarvi nel cammino o di chiudervi in voi stessi, con il ricordo ravvivate le esperienze e la grazia di questi giorni, perché – non dimenticatelo mai – questa è la realtà, questo siete voi: il santo Popolo fedele di Dio che cammina nella gioia del Vangelo! Mi piacerebbe anche inviare un saluto ai giovani che non hanno potuto essere qui, ma hanno partecipato a iniziative organizzate dai loro Paesi, dalle Conferenze episcopali, dalle Diocesi; penso, ad esempio, ai fratelli e alle sorelle subsahariani riuniti a Tangeri. A tutti grazie, grazie!

In particolare, accompagniamo con l’affetto e la preghiera coloro che non sono potuti venire a causa di conflitti e di guerre. Nel mondo sono tante le guerre, sono molti i conflitti. Pensando a questo continente, provo grande dolore per la cara Ucraina, che continua a soffrire molto. Amici, permettete anche a me, ormai vecchio, di condividere con voi giovani un sogno che porto dentro: è il sogno della pace, il sogno di giovani che pregano per la pace, vivono in pace e costruiscono un avvenire di pace. Attraverso l’Angelus mettiamo nelle mani di Maria, Regina della pace, il futuro dell’umanità.  

E c’è un ultimo obrigado che vorrei sottolineare alla fine: obrigado alle nostre radici, ai nostri nonni, che ci hanno trasmesso la fede, che ci hanno trasmesso l’orizzonte di una vita. Sono le nostre radici. E, tornando a casa, continuate a pregare per la pace. Voi siete un segno di pace per il mondo, una testimonianza di come le diverse nazionalità, le lingue, le storie possono unire anziché dividere. Siete speranza di un mondo diverso. Grazie di questo. Avanti!

E alla fine c’è un momento che tutti aspettano: l’annuncio della prossima tappa del cammino. Prima di dirvi la sede della quarantunesima GMG, vi rivolgo un invito. Do appuntamento ai giovani di tutto il mondo nel 2025 a Roma, per celebrare insieme il Giubileo dei giovani! Vi aspetto nel 2025 per celebrare insieme il Giubileo dei giovani. E la prossima Giornata Mondiale della Gioventù avrà luogo in Asia: sarà in Corea del Sud, a Seoul! Così, nel 2027, dal confine occidentale dell’Europa si sposterà in estremo Oriente: è questo un bel segno dell’universalità della Chiesa e del sogno di unità di cui voi siete testimoni!

Infine, un ultimo obrigado, lo rivolgiamo a due persone speciali, ai protagonisti principali di questo incontro. Sono stati qui con noi, ma sono sempre con noi, non perdono di vista le nostre vite, amano le nostre vite come nessun altro: obrigado a Te, Signore Gesù; obrigado a te, Madre nostra Maria. E ora preghiamo insieme.

Dopo l’Angelus: Desidero assicurare la mia preghiera, e lo facciamo anche insieme, per le vittime della tragica valanga che si è prodotta due giorni fa nella regione di Racha, in Georgia. E accompagno con la mia vicinanza i familiari, che la Vergine Santa li consoli e sostenga anche il lavoro delle squadre di soccorso. Accompagno e sono vicino al mio fratello, il Patriarca Elia II.

Alle 16:30 di ieri, incontrando i volontari della GMG presso il “Passeio marítimo” di Algés il Santo Padre ha detto:

Alle 17:50 si è tenuta la cerimonia di congedo presso la Base Aerea di Figo Maduro a Lisbona e alle 18:15 il Pontefice è partito in aereo dalla Base Aerea di Figo Maduro a Lisbona per Roma.

Infine invitiamo a leggere Messaggio del Santo Padre per la XXXVII Giornata Mondiale della Gioventù (datato 15 agosto 2022).

Il tema della GMG di Panamá era: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38). Dopo quell’evento abbiamo ripreso la strada verso una nuova meta – Lisbona 2023 – lasciando echeggiare nei nostri cuori l’invito pressante di Dio ad alzarci. Nel 2020 abbiamo meditato sulla parola di Gesù: «Giovane, dico a te, alzati!» (Lc 7,14). L’anno scorso ci ha ispirato la figura di San Paolo apostolo, a cui il Signore Risorto disse: «Alzati! Ti costituisco testimone di quel che hai visto» (cfr At 26,16). Nel tratto che ancora ci manca per giungere a Lisbona cammineremo insieme alla Vergine di Nazaret che, subito dopo l’annunciazione, «si alzò e andò in fretta» (Lc 1,39) per andare ad aiutare la cugina Elisabetta. Il verbo comune ai tre temi è alzarsi, espressione che – è bene ricordare – assume anche il significato di “risorgere”, “risvegliarsi alla vita”.

In questi ultimi tempi così difficili, in cui l’umanità, già provata dal trauma della pandemia, è straziata dal dramma della guerra, Maria riapre per tutti e in particolare per voi, giovani come lei, la via della prossimità e dell’incontro. Spero, e credo fortemente, che l’esperienza che molti di voi vivranno a Lisbona nell’agosto dell’anno prossimo rappresenterà un nuovo inizio per voi giovani e – con voi – per l’umanità intera.

Maria si alzò

Maria, dopo l’annunciazione, avrebbe potuto concentrarsi su sé stessa, sulle preoccupazioni e i timori dovuti alle sua nuova condizione. Invece no, lei si fida totalmente di Dio. Pensa piuttosto a Elisabetta. Si alza ed esce alla luce del sole, dove c’è vita e movimento. Malgrado l’annuncio sconvolgente dell’angelo abbia provocato un “terremoto” nei suoi piani, la giovane non si lascia paralizzare, perché dentro di lei c’è Gesù, potenza di risurrezione. Dentro di sé porta già l’Agnello Immolato ma sempre vivo. Si alza e si mette in movimento, perché è certa che i piani di Dio siano il miglior progetto possibile per la sua vita. Maria diventa tempio di Dio, immagine della Chiesa in cammino, la Chiesa che esce e si mette al servizio, la Chiesa portatrice della Buona Novella!

Sperimentare la presenza di Cristo risorto nella propria vita, incontrarlo “vivo”, è la gioia spirituale più grande, un’esplosione di luce che non può lasciare “fermo” nessuno. Mette subito in movimento e spinge a portare agli altri questa notizia, a testimoniare la gioia di questo incontro. È ciò che anima la fretta dei primi discepoli nei giorni successivi alla risurrezione: «Abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli» (Mt 28,8).

I racconti della risurrezione usano spesso due verbi: svegliare e alzarsi. Con essi il Signore ci spinge a uscire verso la luce, a lasciarci condurre da Lui per oltrepassare la soglia di tutte le nostre porte chiuse. «È un’immagine significativa per la Chiesa. Anche noi, come discepoli del Signore e come Comunità cristiana siamo chiamati ad alzarci in fretta per entrare nel dinamismo della risurrezione e per lasciarci condurre dal Signore sulle strade che Egli vuole indicarci» (Omelia nella Solennità del Santi Pietro e Paolo, 29 giugno 2022).

La Madre del Signore è modello dei giovani in movimento, non immobili davanti allo specchio a contemplare la propria immagine o “intrappolati” nelle reti. Lei è tutta proiettata verso l’esterno. È la donna pasquale, in uno stato permanente di esodo, di uscita da sé verso il grande Altro che è Dio e verso gli altri, i fratelli e le sorelle, soprattutto quelli più bisognosi, come era la cugina Elisabetta.

…e andò in fretta

Sant’Ambrogio di Milano, nel suo commento al Vangelo di Luca, scrive che Maria si avviò in fretta verso la montagna «perché era lieta della promessa e desiderosa di compiere devotamente un servizio, con lo slancio che le veniva dall’intima gioia. Dove ormai, ricolma di Dio, poteva affrettarsi ad andare se non verso l’alto? La grazia dello Spirito Santo non comporta lentezze». La fretta di Maria è perciò la premura del servizio, dell’annuncio gioioso, della risposta pronta alla grazia dello Spirito Santo.

Maria si è lasciata interpellare dal bisogno della sua anziana cugina. Non si è tirata indietro, non è rimasta indifferente. Ha pensato più agli altri che a sé stessa. E questo ha conferito dinamismo ed entusiasmo alla sua vita. Ognuno di voi può chiedersi: come reagisco di fronte alle necessità che vedo intorno a me? Penso subito a una giustificazione per disimpegnarmi, oppure mi interesso e mi rendo disponibile? Certo, non potete risolvere tutti i problemi del mondo. Ma magari potete iniziare da quelli di chi vi sta più vicino, dalle questioni del vostro territorio. Una volta hanno detto a Madre Teresa: “Quello che lei fa è solo una goccia nell’oceano”. E lei ha risposto: “Ma se non lo facessi, l’oceano avrebbe una goccia in meno”.

Davanti a un bisogno concreto e urgente, bisogna agire in fretta. Quante persone nel mondo attendono una visita di qualcuno che si prenda cura di loro! Quanti anziani, malati, carcerati, rifugiati hanno bisogno del nostro sguardo compassionevole, della nostra visita, di un fratello o una sorella che oltrepassi le barriere dell’indifferenza!

Quali “frette” vi muovono, cari giovani? Che cosa vi fa sentire l’impellenza di muovervi, tanto da non riuscire a stare fermi? Tanti – colpiti da realtà come la pandemia, la guerra, la migrazione forzata, la povertà, la violenza, le calamità climatiche – si pongono la domanda: perché mi accade questo? Perché proprio a me? Perché adesso? E allora la domanda centrale della nostra esistenza è: per chi sono io? (cfr Esort. ap. postsin. Christus vivit, 286).

La fretta della giovane donna di Nazaret è quella propria di coloro che hanno ricevuto doni straordinari del Signore e non possono fare a meno di condividere, di far traboccare l’immensa grazia che hanno sperimentato. È la fretta di chi sa porre i bisogni dell’altro al di sopra dei propri. Maria è esempio di giovane che non perde tempo a cercare l’attenzione o il consenso degli altri – come accade quando dipendiamo dai “mi piace” sui social media –, ma si muove per cercare la connessione più genuina, quella che viene dall’incontro, dalla condivisione, dall’amore e dal servizio.

Dall’annunciazione in poi, da quando per la prima volta è partita per andare a visitare sua cugina, Maria non cessa di attraversare spazi e tempi per visitare i suoi figli bisognosi del suo aiuto premuroso. Il nostro camminare, se abitato da Dio, ci porta dritti al cuore di ogni nostro fratello e sorella. Quante testimonianze ci arrivano da persone “visitate” da Maria, Madre di Gesù e Madre nostra! In quanti luoghi sperduti della terra, lungo i secoli – con apparizioni o grazie speciali – Maria ha visitato il suo popolo! Non esiste praticamente un luogo su questa terra che non sia stato visitato da Lei. La madre di Dio cammina in mezzo al suo popolo, mossa da una tenerezza premurosa, e si fa carico delle ansie e delle vicissitudini. E dovunque ci sia un santuario, una chiesa, una cappella dedicata a lei, i suoi figli accorrono numerosi. Quante espressioni di pietà popolare! I pellegrinaggi, le feste, le suppliche, l’accoglienza delle immagini nelle case e tante altre sono esempi concreti della relazione viva tra la Madre del Signore e il suo popolo, che si visitano a vicenda!

La fretta buona ci spinge sempre verso l’alto e verso l’altro

La fretta buona ci spinge sempre verso l’alto e verso l’altro. C’è invece la fretta non buona, come per esempio quella che ci porta a vivere superficialmente, a prendere tutto alla leggera, senza impegno né attenzione, senza partecipare veramente alle cose che facciamo; la fretta di quando viviamo, studiamo, lavoriamo, frequentiamo gli altri senza metterci la testa e tanto meno il cuore. Può succedere nelle relazioni interpersonali: in famiglia, quando non ascoltiamo mai veramente gli altri e non dedichiamo loro tempo; nelle amicizie, quando ci aspettiamo che un amico ci faccia divertire e risponda alle nostre esigenze, ma subito lo evitiamo e andiamo da un altro se vediamo che è in crisi e ha bisogno di noi; e anche nelle relazioni affettive, tra fidanzati, pochi hanno la pazienza di conoscersi e capirsi a fondo. Questo stesso atteggiamento possiamo averlo a scuola, nel lavoro e in altri ambiti della vita quotidiana. Ebbene, tutte queste cose vissute di fretta difficilmente porteranno frutto. C’è il rischio che rimangano sterili. Così si legge nel libro dei Proverbi: «I progetti di chi è diligente si risolvono in profitto, ma chi ha troppa fretta – la fretta cattiva – va verso l’indigenza» (21,5).

Quando Maria finalmente arriva a casa di Zaccaria ed Elisabetta, avviene un incontro meraviglioso! Elisabetta ha sperimentato su di sé un prodigioso intervento di Dio, che le ha dato un figlio nella terza età. Avrebbe tutte le ragioni per parlare prima di sé stessa, ma non è piena di sé ma protesa ad accogliere la giovane cugina e il frutto del suo grembo. Appena sente il suo saluto, Elisabetta è colmata di Spirito Santo. Queste sorprese e irruzioni dello Spirito avvengono quando viviamo una vera ospitalità, quando al centro mettiamo l’ospite, non noi stessi. È quanto vediamo anche nella storia di Zaccheo. In Luca 19,6 leggiamo: «Quando giunse sul luogo [dove si trovava Zaccheo], Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia».

A molti di noi è capitato che, inaspettatamente, Gesù ci sia venuto incontro: per la prima volta, in Lui abbiamo sperimentiamo una vicinanza, un rispetto, un’assenza di pregiudizi e di condanne, uno sguardo di misericordia che non avevamo mai incontrato negli altri. Non solo, abbiamo anche sentito che a Gesù non bastava guardarci da lontano, ma voleva stare con noi, voleva condividere la sua vita con noi. La gioia di questa esperienza ha suscitato in noi la fretta di accoglierlo, l’urgenza di stare con Lui e conoscerlo meglio. Elisabetta e Zaccaria hanno ospitato Maria e Gesù! Impariamo da questi due anziani il significato dell’ospitalità! Chiedete ai vostri genitori e ai vostri nonni, e anche ai membri più anziani delle vostre comunità, cosa vuol dire per loro essere ospitali verso Dio e verso gli altri. Vi farà bene ascoltare l’esperienza di chi vi ha preceduto.

Cari giovani, è tempo di ripartire in fretta verso incontri concreti, verso una reale accoglienza di chi è diverso da noi, come accadde tra la giovane Maria e l’anziana Elisabetta. Solo così supereremo le distanze – tra generazioni, tra classi sociali, tra etnie, tra gruppi e categorie di ogni genere – e anche le guerre. I giovani sono sempre speranza di una nuova unità per l’umanità frammentata e divisa. Ma solo se hanno memoria, solo se ascoltano i drammi e i sogni degli anziani. «Non è casuale che la guerra sia tornata in Europa nel momento in cui la generazione che l’ha vissuta nel secolo scorso sta scomparendo» (Messaggio per la II Giornata Mondiale dei nonni e degli anziani). C’è bisogno dell’alleanza tra giovani e anziani, per non dimenticare le lezioni della storia, per superare le polarizzazioni e gli estremismi di questo tempo.

Scrivendo agli Efesini, San Paolo annunciava: «In Cristo Gesù, voi, che un tempo eravate lontani, siete divenuti vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne» (2,13-14). Gesù è la risposta di Dio di fronte alle sfide dell’umanità in ogni tempo. E questa risposta, Maria la porta dentro di sé quando va incontro a Elisabetta. Il più grande regalo che Maria fa all’anziana parente è quello di portarle Gesù. Sicuramente anche l’aiuto concreto è preziosissimo. Ma nulla avrebbe potuto riempire la casa di Zaccaria di una gioia tanto grande e di un senso così pieno come la presenza di Gesù nel grembo della Vergine, diventata tabernacolo del Dio vivo. In quella regione montuosa Gesù, con la sua sola presenza, senza dire una parola pronuncia il suo primo “discorso della montagna”: proclama in silenzio la beatitudine dei piccoli e degli umili che si affidano alla misericordia di Dio.

Il mio messaggio per voi giovani, il grande messaggio di cui è portatrice la Chiesa è Gesù! Sì, Lui stesso, il suo amore infinito per ognuno di noi, la sua salvezza e la vita nuova che ci ha dato. E Maria è il modello di come accogliere questo immenso dono nella nostra vita e comunicarlo agli altri, facendoci a nostra volta portatori di Cristo, portatori del suo amore compassionevole, del suo servizio generoso all’umanità che soffre.

Tutti insieme a Lisbona!

Maria era una ragazza come molti di voi. Era una di noi. Così scriveva di lei il vescovo Tonino Bello: «Santa Maria, […] sappiamo bene che sei stata destinata a navigazioni di alto mare. Ma se ti costringiamo a veleggiare sotto costa, non è perché vogliamo ridurti ai livelli del nostro piccolo cabotaggio. È perché, vedendoti così vicina alle spiagge del nostro scoraggiamento, ci possa afferrare la coscienza di essere chiamati pure noi ad avventurarci, come te, negli oceani della libertà» (Maria donna dei nostri giorni, San Paolo, Cinisello Balsamo 2012, 12-13).

Dal Portogallo, come ricordavo nel primo Messaggio di questa trilogia, nei secoli XV e XVI moltissimi giovani – tra cui tanti missionari – sono partiti verso mondi sconosciuti, anche per condividere la loro esperienza di Gesù con altri popoli e nazioni (cfr Messaggio GMG 2020). E a questa terra, all’inizio del XX secolo, Maria ha voluto rendere una visita speciale, quando da Fatima ha lanciato a tutte le generazioni il messaggio potente e stupendo dell’amore di Dio che chiama alla conversione, alla vera libertà. A ciascuno e ciascuna di voi rinnovo il mio caloroso invito a partecipare al grande pellegrinaggio intercontinentale di giovani che culminerà nella GMG di Lisbona nell’agosto dell’anno prossimo; e vi ricordo che il prossimo 20 novembre, Solennità di Cristo Re, celebreremo la Giornata Mondiale della Gioventù nelle Chiese particolari sparse in tutto il mondo. A questo proposito, il recente documento del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita – Orientamenti pastorali per la celebrazione della GMG nelle Chiese particolari – può essere di grande aiuto per tutte le persone che operano nella pastorale giovanile.

Cari giovani, sogno che alla GMG possiate sperimentare nuovamente la gioia dell’incontro con Dio e con i fratelli e le sorelle. Dopo lunghi periodi di lontananza e isolamento, a Lisbona – con l’aiuto di Dio – ritroveremo insieme la gioia dell’abbraccio fraterno tra i popoli e tra le generazioni, l’abbraccio della riconciliazione e della pace, l’abbraccio di una nuova fraternità missionaria! Possa lo Spirito Santo accendere nei vostri cuori il desiderio di alzarvi e la gioia di camminare tutti insieme, in stile sinodale, abbandonando le false frontiere. Il tempo di alzarci è adesso! Alziamoci in fretta! E come Maria portiamo Gesù dentro di noi per comunicarlo a tutti! In questo bellissimo periodo della vostra vita, andate avanti, non rimandate ciò che lo Spirito può compiere in voi! Di cuore benedico i vostri sogni e i vostri passi.

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Questo papa piace troppo al mondo e a me troppo poco

Complimenti x questo servizio importante e utilissimo x leggere ciò che veramente ha detto il Papa e non le storture e censure dei vari TG! Grazie