Perché la fine del Cristianesimo vorrebbe dire la fine dell’Europa e della civiltà

di Francesco Bellanti

L’IMPERATORE ADRIANO UOMO SOLO. COME L’UOMO MODERNO

L’affermazione più profonda che sia mai stata pronunciata a proposito di Auschwitz non fu affatto un’affermazione, ma una risposta. La domanda: “Ditemi, dov’era Dio, ad Auschwitz?”. La risposta: “E l’uomo, dov’era?” (William Clark Styron);

Là dove più grande è il pericolo, là sorge anche il Salvatore (Friedrich Hölderlin).

“Quando gli dei non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo”. Fu questo pensiero ritrovato in un volume della corrispondenza di Gustave Flaubert, molto letto, molto sottolineato, verso il 1927, a indurre Marguerite Yourcenar a scrivere il magistrale romanzo “Memorie di Adriano”, che era un definire e un descrivere il tramonto dell’Occidente attraverso la decadenza dell’Impero Romano. Adriano (Italica, 24 gennaio 76 – Baia, 10 luglio 138), come è noto, è stato un imperatore romano della dinastia degli imperatori adottivi che regnò dal 117 alla sua morte. Fu uno dei “buoni imperatori”, secondo lo storico Edward Gibbon. Mantenne le conquiste di Traiano, a parte la Mesopotamia che assegnò a un sovrano vassallo. Il suo impero fu contraddistinto da grande tolleranza, efficienza e dallo splendore delle arti e della filosofia. L’imperatore stesso fu un grande appassionato della cultura greca. Il romanzo della Yourcenar ebbe una storia travagliata e vide la luce solo nel 1951, dopo studi storici accurati della scrittrice. In Italia (dopo controversie giudiziarie legate alla traduzione e a un’altra casa editrice) uscì per i tipi di Einaudi solo nel 1988, tradotto da Lidia Storoni Mazzolani. Il libro è un viaggio in un’epoca lontana – che però sembra vicina per molti aspetti, come vedremo – guidato dalle lettere di un imperatore ormai vecchio che comincia “a scorgere il profilo della morte”, secondo le sue parole. È ambientato nel II secolo d.C., che è tradizionalmente considerato il più prospero dell’impero romano che, grazie alla stabilità dei propri confini, poté godere di un notevole sviluppo economico e culturale. Il protagonista è – ed è questo che ha convinto di più la scrittrice – un imperatore saggio che “se non avesse conservato la pace nel mondo e rinnovato l’economia dell’impero, le sue gioie, le sue sventure mi sarebbero interessate di meno”.

Il libro è una lettera inviata a Marco Aurelio, destinato per adozione a governare Roma. A Roma, la successione avveniva per adozione, metodo nel quale lo stesso Adriano ravvisa la saggezza di Roma. Perché così l’Impero va al più degno, non al frutto del caso e dell’ottusa natura. Come lui, Adriano, aveva avuto affidato l’Impero da Traiano, che – uomo di grande esperienza militare – gli aveva riconosciuto grandi doti di governatore e di comandante, così egli sceglie Antonino Pio, di cui ammira soprattutto la bontà e l’onestà, ma, essendo questi già cinquantenne, e sapendo Adriano che lo spazio di una generazione è poca cosa quando si tratta di preservare la sicurezza del mondo, egli fa in modo che Antonino adotti a sua volta un altro uomo, ancora troppo giovane per governare il mondo. È Marco Aurelio, spagnolo, appartenente alla famiglia dei Veri, una delle più liberali dell’alta magistratura. In Marco Aurelio, Adriano vede il genio che non è per forza quello dell’uomo di Stato, eppure è sicuro che, grazie a lui, gli uomini vedranno realizzato il sogno di Platone: su di loro governerà un filosofo dal cuore puro. Al giovane Marco Aurelio egli consegna le memorie della sua vita e consegna il destino dell’Impero romano, perché in lui vede il filosofo, l’uomo austero che indossa lana ruvida e dorme sulla nuda terra per mortificare il corpo, che imita il contegno dei grandi.

La lunga lettera, dopo le informazioni sulle sue precarie condizioni di salute, diviene ben presto lo strumento per istruire e scuotere il giovane diciassettenne Marco Aurelio attraverso il racconto della sua vita, fatta di esperienze e di riflessioni, di letture di libri, che la vita stessa poi ha chiarito, perché i libri da soli non risolvono la realtà. Adriano ha molto da insegnare al giovane predestinato, perché egli è un uomo versatile, eclettico e assetato di conoscenza, soprattutto letteraria, poetica e filosofica, uomo raffinato, anche se capace di atti crudeli. Per lui la conoscenza della poesia è inebriante quanto quella dell’amore; ringrazia anche il suo precettore per averlo costretto a studiare il greco: ha amato la cultura greca perché  “quasi tutto quel che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco”. “L’impero – dice – l’ho governato in latino; in latino sarà inciso il mio epitaffio, sulle mura del mio mausoleo in riva al Tevere; ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto”. Adriano ama la libertà in tutti i suoi aspetti, anche quella che può procurare disagio, perché la libertà estrema rende l’uomo potente. Anche quella di potersi allontanare spesso da Roma, perché la vita a Roma lo logora, e allora accoglie di buon grado le missioni ai confini dell’Impero. Il viaggio è la regola della vita di Adriano, il quale confessa di non aver “mai avuto la sensazione di appartenere completamente a nessun luogo […] straniero dappertutto, non mi sentivo particolarmente isolato in nessun luogo”. Non crede molto alle leggi, e promulga solo quelle che somigliano molto al modo di vivere dei cittadini, e altre per regolamentare la condizione degli schiavi (proibendo mestieri disonoranti), delle fanciulle che si devono sposare (senza costrizioni), dei contadini (contro lo scandalo dei terreni incolti).

Parla del secolo d’oro, che per lui coincide con la sua relazione amorosa con Antinoo, un giovinetto greco di Bitinia, che l’imperatore incontra a Nicomedia e per il quale fonderà la città di Antinopoli. Riflette sul suicidio, considerato prima un diritto e poi una sciagura dopo quello del suo amato Antinoo. È una morte, questa, che sconvolge profondamente Adriano, perché l’imperatore vedeva in lui l’immagine stessa della Grecia: per tutto il tempo della sua esistenza aveva ravvisato nella bellezza del giovane l’armonia di un intero popolo. Adriano torna ad Atene per l’ultima volta, rientra dunque a Roma dove conduce una vita il più normale possibile; nonostante il dolore lacerante, si dedica al mestiere di imperatore con meno entusiasmo e più discernimento. Il corpo lentamente lo abbandona e si trasforma in uno schiavo restio alla fatica.

Adriano medita sulla propria vecchiaia, anche se, oggi, non diremmo  vecchio a un sessantenne: si avvicina il momento di decidere il destino dell’impero. Prima sceglie Lucio, amico di lunga data, ma Lucio muore prematuramente. Allora sceglie Antonino e, come abbiamo visto, ottiene da quest’ultimo la promessa che adotterà Marco Aurelio insieme al figlio di Lucio, affinché l’amico sopravviva in lui. Adriano, chiuso nella sua villa a Tivoli, attorniato da statue che raffigurano Antinoo, medita il suicidio. Ma quando lo stesso medico Giolla, pur di non acconsentire all’ordine dell’imperatore di consegnargli una dose di veleno, si suicida, Adriano abbandona l’idea: gli sembrerebbe una prova di irriconoscenza verso i pochi amici che ancora gli sono vicini. Si abbandona alla pazienza, e la pazienza dà i suoi frutti. Egli soffre meno, e la vita torna ad avere un sapore quasi dolce. Le ultime righe riportano i versi famosissimi che lo stesso imperatore ha composto e che, come spiegato nel primo capitolo, rappresentano il saluto alla propria anima e sigillano questo sentimento di morte, l’anima che s’appresta a discendere nel buio. Il buio?

“Animula vagula blandula, / Hospes comesque corporis / Quae nunc abibis in loca / Pallidula, rigida, nudula, / Nec, ut soles, dabis iocos…” (“Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti”. E poi continua: “Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più… Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti…”).

Così si chiude il libro, con i versi più famosi di Adriano, epitaffio pronunciato in punto di morte dall’imperatore. Il profilo della morte con cui inizia l’opera della Yourcenar conclude anche l’indagine della scrittrice francese attorno a quel secondo secolo così lontano, ma anche così vicino. La colta identificazione con il protagonista della Yourcenar, prima ed unica donna eletta nell’Académie Française, offre anche una prospettiva di lettura della nostra civiltà, tentata, venti secoli dopo Cristo, di ritornare all’antico disincanto di chi ha visto la luce e, in fondo inspiegabilmente, preferisce volgerle le spalle. “Memorie di Adriano” è la morte sua e quella del suo regno, e tutto il dipanarsi del racconto è l’inseguire questo profilo di morte nelle pieghe di una vita dedita a ogni forma di conquista, di ricerca, di piacere, di potere.

Il grande imperatore è un uomo solo, eppure è legato a tutto, e quella della Yourcenar è una ricostruzione storica che vuole anche essere la presa di possesso di un mondo interiore, come dovrebbe essere, a suo parere, il romanzo storico del Novecento. Molte e autorevoli voci di storici (e non solo) della tarda antichità paragonano il nostro tempo a quello dei secoli della decadenza romana, che proprio comincia nel momento del suo massimo splendore. Ma allora, da questa decadenza nacque un’altra civiltà, l’Europa moderna, perché l’Europa nasce dall’incontro di tre grandi culture: quella greco-romana, quella giudaico-cristiana e quella germanica. E questo non è solo un insegnamento degli storici. Non ci dilunghiamo sugli aspetti particolari di questo processo – che sono culturali, religiosi, liberali, umanistici, civili – e torniamo alla  Yourcenar.

La decadenza dell’Impero romano comincia, anche per noi, nel secondo secolo dopo Cristo. In questo magistrale romanzo, Marguerite Yourcenar descrive dall’interno l’epoca del secondo secolo dopo Cristo, che negli splendori della sua raffinatezza accoglie anche il presentimento dell’ombra. Certamente, uno può dubitare che ci siano punti di convergenza tra un tempo così lontano e il nostro modo di vivere. E si può anche accettare l’idea che non può che essere così: la Yourcenar ha letto Adriano e il suo tempo con gli occhi del Novecento, proiettando sulla figura dell’imperatore le problematiche del suo tempo. Che è ancora il nostro tempo. Adriano, imperatore di Roma dal 117 al 138, è un grande intellettuale oltre che glorioso militare, ed è l’emblema dell’uomo solo: solo nell’esercizio del potere minacciato, nonostante i larghi consensi, dagli intrighi di occulti oppositori; solo negli affetti, anche se sposato a Sabina, che ben presto finisce di amare, non appagato dal giovane Antinoo, che tuttavia dopo la sua morte divinizza, perché “non v’è carezza che giunga fino all’anima”; solo nella ricerca della verità, benché sia sempre fra libri, filosofi, mistici, profetesse, sacerdoti, che lo illudono e lo deludono. Troppo raffinato nei gusti e divenuto scettico nella vana ricerca della sapienza universale, alla fine della sua vita Adriano è un uomo disilluso.

Il vescovo apologista cristiano Quadrato indirizza a lui un discorso appassionato in difesa della nuova religione, dove afferma che la dottrina cristiana non minaccia l’impero, e l’imperatore diventa molto tollerante verso il Cristianesimo e ostile al fanatismo anticristiano, e, secondo la Storia Augusta, non solo egli mantenne costantemente un atteggiamento di rispetto nei confronti dei Cristiani, ma pare che avesse addirittura in mente di riconoscere il Cristianesimo e di volere dedicare a Cristo statue e templi. Anche se il fascino iniziale per la gente povera e semplice del Cristianesimo in lui spesso si mutava pure nell’avvertimento del pericolo di perdere virtù più eroiche e di scivolare nell’intransigenza settaria. Anche il pensiero dei filosofi gli sembra limitato, confuso e sterile: Adriano è un uomo che possiede la lucidità di esaminare tutto, vedere in tutto le potenzialità e il limite. Privo di figli, non sa a chi lasciare l’eredità dell’impero; uomini a lui vicini lo precedono nella morte ed egli scrive il percorso della sua esistenza per un giovane che possa seguire il suo spirito, il giovane Marco Aurelio, come abbiamo visto, che fu adottato dal suo successore Antonino Pio.

Gli storici hanno visto il tempo della decadenza romana come il meriggio che sfuma nel crepuscolo, e in questo declino e disfacimento che ha ancora qualche bagliore sta la ragione del fascino che essa ha esercitato dal Decadentismo in poi. Leggere la Yourcenar, attraverso la voce di Adriano, vuol dire entrare in questo cono d’ombra, in un sapiente intreccio di fili che mostra la grande conoscenza di un periodo storico e la comprensione della dignità umana di un eccezionale suo protagonista.

Nel tempo della fine delle grandi ideologie, anche noi vediamo un parallelismo tra questo tempo e quello del secondo secolo d.C.. L’uomo è solo, privo di grandi riferimenti ideologici, soprattutto in un’Europa in cui il Cristianesimo appare smarrito e attaccato anche al suo interno. È un vuoto che non si sa bene chi lo colmerà, se una Chiesa rinnovata, o una nuova, straordinaria, definitiva ideologia. Dopo la caduta del fascismo, del nazismo, del comunismo, del capitalismo, in un mondo dove hanno preso il sopravvento il caos, la corruzione, il vuoto delle organizzazioni internazionali che non riescono a fermare le guerre e a debellare la fame, l’angoscia della fine, da dove può venire la salvezza?

Si ha davvero la sensazione, l’abbiamo scritto spesso anche qui, che ci sia in atto la battaglia finale di Armageddon, la battaglia decisiva tra Dio e Satana, che appare come la Bestia dell’Apocalisse dalle sette teste e dalle dieci corna che giunge dal mare, come l’Anticristo che giunge alla fine del tempo. I virus e le guerre, le folli politiche messe in atto forse non per trovare soluzioni ma per condurre a scopi arcani, voluti da chissà chi. Ormai il terrore e l’angoscia rodono le nostre certezze, i nostri progetti. Sta cambiando il nostro modo di vedere le cose, stanno cambiando attività economiche, il nostro rapporto con la natura, con le abitudini alimentari di millenni.

La politica dovrebbe farsi carico di questa rivoluzione epocale, avere il coraggio di ridefinire ideologie, un nuovo approccio con l’ecosistema, e invece sembra di essere entrati in un tunnel dove non si intravede la luce. L’uomo sta distruggendo la natura, si sta facendo vincere dalla tecnica, dalle spudorate leggi dell’economia capitalistica delle multinazionali tese solo al profitto. Si stanno attaccando tutti valori che hanno retto finora le società, soprattutto quella europea, la famiglia, i valori della religione, delle conquiste scientifiche e civili che hanno portato alla società odierna. Non è scritto da nessuna parte che l’umanità sia eterna. Occorre creare una nuova umanità che fondi una nuova civiltà basata sulla perfetta interazione tra l’ecumène e l’ambiente, ma senza l’incubo climatico, che si scrolli di dosso tutte le nefaste visioni del mondo che ci stanno portando alla catastrofe.

Questa non è solo la fine dell’Occidente cantata da Nietzsche, non è nemmeno la fine della storia del liberalismo democratico ipotizzata da Fukuyama, l’ultima possibile per l’uomo. I fatti di oggi stanno dimostrando che il progresso tecnologico e industriale guidato dal capitalismo è un’illusione, che gli uomini stanno diventando schiavi di un sistema senza partecipazione politica e uguaglianza di diritti. Diventati fortunatamente il comunismo, il fascismo e il nazionalsocialismo dei binari morti della storia, anche il capitalismo ha fallito, è inadeguato alla sfida del millennio. Che è il ritorno alla natura, un concetto semplice in fondo, leopardiano, rousseauiano, la rinascita di un uomo nuovo che crei una civiltà della natura, attraverso un governo mondiale – in cui una vera Europa giochi una parte da protagonista – autenticamente solidale e democratico. Si deve evitare che un nuovo Hitler, col pretesto dell’incubo climatico, delle guerre, delle epidemie, magari a capo di un’organizzazione occulta o di una società segreta, sfondi ancora le porte della storia per realizzare un’umanità aliena di pochi eletti e di sterminate masse di schiavi. Chi salverà l’umanità? La salvezza del mondo parte dall’Europa. E allora per trovare una risposta dobbiamo tornare all’idea iniziale.

Dalla decadenza e dalla caduta dell’Impero romano, nasce l’Europa, l’Europa delle grandi nazioni moderne, Germania, Francia, Inghilterra e così via. L’Europa moderna, che ha poi il suo fondamento definitivo nel Romanticismo cristiano dei popoli europei, nasce come civiltà dall’incontro e dalla fusione di tre grandi culture: quella greco-romana e quella giudaico-cristiana,  già avvenuta in epoca romano-imperiale, e quella barbarico-germanica, a seguito dell’immissione di queste genti nel declinante Impero romano. È  questa la culla dall’Europa, nella quale anche popolazioni germaniche, assimilate alla fede cristiana e alla cultura greco-latina, diventano promotrici della rinascita, prima dell’antico dell’antico Impero, e poi dei popoli che sono alla base dell’Europa moderna. Di queste tre culture noi oggi vediamo più in pericolo perché assediata e combattuta al suo interno quella giudaico-cristiana, nei suoi valori più alti e fondanti. Ed è il pericolo più grande, perché la fine del Cristianesimo è la fine dell’Europa. Ma, ci ricorda il grande poeta romantico tedesco Friedrich Hölderlin, “Là dove più grande è il pericolo, là sorge anche il Salvatore”.

 

Foto di Thanasis Papazacharias da Pixabay

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