Notizie dal Gulag eritreo, fabbrica dei rifugiati…

di Pietro Licciardi

IN L’ERITREA C’È UN REGIME CHE ADOTTA GLI STESSI METODI DELL’URSS E DELLA CINA DI MAO

È dagli anni Sessanta del secolo scorso che l’Eritrea è una dei più prolifiche “fabbriche di rifugiati” al mondo.

Sei anni fa l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati stimava in 5.000 ogni mese il numero di eritrei che abbandonava il paese. Accademici eritrei ritengono che circa il 20% dei loro connazionali sia fuggito a partire dal 2001 per trovare rifugio nelle nazioni limitrofe o attraversare il Mediterraneo in cerca di sicurezza. Nonostante nel 2000 sia stato firmato il trattato di pace ad Algeri che ha messo fine al conflitto tra Eritrea ed Etiopia il numero di eritrei richiedenti asilo in Occidente è quadruplicato rispetto al 2016, arrivando a 600.000 nel 2022.

Un altro dato illustra l’emorragia di popolazione da questo lembo d’Africa: mentre la confinante Etiopia nel 1996 aveva 15 milioni di abitanti, oggi ne conta 130milioni; in Eritrea la popolazione stimata è oggi di circa 5 milioni, appena due milioni in più di quella ufficialmente censita nel 1996.

Sorge spontanea la domanda: perché così tanti eritrei, soprattutto giovani, fuggono abbandonando il proprio Paese?

La prima diaspora iniziò nel 1962, quando l’imperatore d’Etiopia, Hailé Selassié infrangendo la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che prevedeva una federazione tra i due paesi inglobò l’Eritrea quale provincia etiopica. In seguito a ciò tutti i mezzi di produzione, le industrie con il loro know how e le piccole aziende furono trasferite lasciando l’Eritrea alle prese con una disoccupazione dilagante e tensioni sociali.

Quello fu l’inizio della lotta armata per la liberazione dell’Eritrea, una guerra per l’indipendenza durata fino al 1991che ha fatto fuggire oltre un milione di persone, per lo più oggi residenti in Sudan, Medio Oriente, Europa e Stati Uniti. In quegli anni migliaia di giovani eritrei furono costretti all’esilio per la loro opposizione all’annessione, ma soprattutto per paura della coscrizione forzata nell’esercito etiope e per sottrarsi alle quotidiane crudeltà da parte di Addis Abeba.

Quando finalmente nel 1991 arrivò l’indipendenza i sette anni successivi alla liberazione furono un periodo di speranza per l’Eritrea. I combattenti impiegarono le loro energie nella ricostruzione e dalla diaspora europea e americana tornarono professionisti che avviarono imprese, insegnarono all’università e costruirono servizi sociali grazie anche agli aiuti internazionali. L’Eritrea godeva della simpatia del mondo.

Questo fino al 1998, quando scoppiò un nuovo conflitto, la Guerra di Badme, ufficialmente originato da una disputa sui confini con l’Etiopia. Con la scusa di difendere l’indipendenza del paese dalla popolosa e più intraprendente Etiopia, il regime eritreo impose una sorta di legge marziale in cui la maggior parte delle libertà politiche e religiose furono represse e mai ripristinate. Iniziò così una delle dittature più cupe del mondo, con un sistema politico altamente repressivo che ha nuovamente costretto centinaia e migliaia di giovani a fuggire dal paese per affrontare il percorso migratorio più mortale del mondo, attraverso il Sahara e il Mediterraneo verso l’Europa o via Messico verso l’America del Nord.

Sebbene il conflitto sia formalmente terminato nel 2001, tra i due paesi si è istaurata una sorta di “tregua armata”, che per il regime eritreo è stata il pretesto per creare una sorta di “limbo legale” che giustificasse la sospensione di ogni diritto per i propri cittadini. La guerra ha comunque generato una crisi nel regime, in quanto c’era la sensazione che non fosse necessaria e gruppi per i diritti umani hanno accusato il presidente Isaias Afewerqi e il suo governo di sfruttare l’impasse al confine per schiacciare i dissidenti e imprigionare migliaia di persone per presunti crimini politici.

Dopo la firma dell’accordo di Algeri quindici membri di alto profilo del PFDJ, il partito unico eritreo al potere, hanno scritto una lettera aperta di critica ad Afewerqi chiedendo una modifica della Costituzione per garantire libertà di parola e consentire un dibattito politico. Per tutta risposta anziché ascoltare gli interlocutori il presidente li ha fatti arrestare e incarcerare. Ad oggi ancora non si sa dove il governo tenga i detenuti e se sono ancora in vita. Eppure si trattava di ex compagni dello stesso Afewerqi, che avevano combattuto per l’indipendenza e per questo immensamente rispettati dalla comunità.

A tutt’oggi il dibattito pubblico è limitato alle opinioni ufficiali ed è vietata l’espressione di opinioni contrarie. Le manifestazioni politiche sono vietate; è illegale riunirsi in più di tre persone senza chiedere l’approvazione del partito al potere; non esistono istituzioni e procedure per promuovere la discussione sulle diverse alternative sociali, economiche e politiche. L’assenza di un dibattito pubblico aperto ha ridotto la gestione dei conflitti, poiché le opinioni non possono essere scambiate pacificamente; il sistema politico non riceve informazioni sul grado di accettazione delle sue decisioni e continua ad applicare politiche errate che potenzialmente aggravano il conflitto. La stampa indipendente è stata chiusa, così come l’Università di Asmara. La Chiesa ortodossa è stata messa a tacere e la stessa sorte è capitata alla Grande Moschea. Il Parlamento è diventato l’ombra di sé stesso, senza che possa prendere decisioni serie.

Nel frattempo le persone hanno cominciano a chiedere apertamente: perché la Costituzione non viene attuata? Bisogna ricordare che per diversi anni la formazione di una Costituzione è stata ampiamente dibattuta, anche all’interno della diaspora, e tutti si aspettavano che fosse ratificata e attuata ma in un incontro quasi informale con i giornalisti del regime il presidente Afewerqi ha detto: «la Costituzione? Quale Costituzione… quella è morta e sepolta». Da allora, l’Eritrea per volontà del suo presidente ha adottato una politica isolazionista sia nelle relazioni estere che interne. Nel paese non operano più media indipendenti o organizzazioni non governative e il rischio di ritorsioni contro chiunque osi parlare con un’organizzazione per i diritti umani è reale.

Ormai lontana una prospettiva di giustizia sociale, libertà e prosperità secondo le originarie speranze e aspettative di una cittadinanza stanca della guerra, il regime eritreo ha intrappolato i suoi cittadini in una rete di corvée militari obbligatorie, repressione politica, sfiducia sociale e deprivazione economica. Questa dura realtà ha colpito soprattutto i giovani, gli eredi della celebre rivoluzione eritrea, i warsay, la generazione che costituisce la maggior parte delle forze armate ma anche la maggioranza dei rifugiati e dei richiedenti asilo che rocambolescamente abbandonando il Paese.

Il militarismo e la disciplina che hanno caratterizzato gli anni della guerra d’indipendenza contro l’Etiopia non sono più necessari ma il regime tenta di mantenerli in vita per preservare il proprio dominio. Dopo l’indipendenza, il leader rivoluzionario diventato dittatore dell’Eritrea, Isaias Afawerki istituì nel 1994 il servizio nazionale obbligatorio a tempo indeterminato. Lo scopo ufficiale doveva essere quello di infondere nelle giovani generazioni lo spirito che aveva animato la lotta di liberazione ma che in realtà aveva il duplice scopo di eliminare il dissenso e di rafforzare l’esercito, divenuto sempre più necessario per mantenere il potere. Per giustificare la mancata smobilitazione di un esercito che arruola il 10% della popolazione Isaias Afewerqi ha giocato sull’animosità tra gli Stati della regione promuovendo l’idea che l’Eritrea è circondata da nemici.

I giovani che sono fuggiti descrivono però il servizio militare obbligatorio come un sistema di lavoro forzato di lunga durata, una sorta di schiavitù e sorveglianza di massa. Anche le donne svolgono lavoro manuale nelle fattorie agricole, nei cantieri edili privati nelle aziende parastatali nelle mani di singoli comandanti militari. E questo nonostante il lavoro forzato sia proibito da numerose convenzioni internazionali che pure l’Eritrea ha ratificato.

Ovviamente chiunque solleva dubbi sul servizio o sulle condizioni in cui è svolto viene arrestato e detenuto, a volte sottoterra, altre volte in contenitori di metallo posti sotto il sole cocente e torturato. Chiunque venga sorpreso mentre tenta di fuggire o sottrarsi al servizio viene arrestato e torturato, talvolta fino alla morte.

Ma altro grave attentato riguarda la sistematica violazione di un tabù particolarmente sentito da ogni eritreo cresciuto in una tradizione culturale e religiosa di dignità e di rispetto: gli abusi sessuali e gli stupri che le donne e le ragazze subiscono nel periodo del loro tirocinio militare. E proprio il servizio militare a tempo indeterminato è la ragione principale che spinge i giovani a lasciare il Paese affrontando la pericolosa traversata del confine eritreo-sudanese infestato da bande dedite al traffico di esseri umani, il deserto del Sahara e il mar Mediterraneo.

La seconda ragione è la paura. Oggi l’intero paese è governato con la paura, alimentata da funzionari e forze di sicurezza che compiono impunemente gravi violazioni dei diritti umani mentre una diffusa rete di informatori segnala i sospettati di tradimento i quali subiscono arresti arbitrari, sparizioni, esecuzioni extragiudiziali e tortura.  La tortura include percosse con fruste, tubi di plastica e bastoni elettrici, lo stare in piedi per ore sotto il sole, l’incaprettamento, legare le mani e i piedi all’indietro – il cosiddetto elicottero -… ma altre forme di tortura possono essere considerati gli abusi sessuali sulle soldatesse, le molestie, le marce forzate, il lavoro forzato, la detenzione in container o fosse sotterranee, le missioni suicide e le esecuzioni.

La terza ragione che spinge i giovani a fuggire è la povertà. L’Eritrea soffre di tassi di povertà molto elevati, con 2/3 della popolazione sotto la soglia di povertà secondo l’ONU. La frustrazione causata dalla deprivazione economica, come la paura dello Stato e delle sue prigioni, si può percepire ovunque.

Il rapporto ONU sui diritti umani del giugno 2016 è stato molto eloquente su ciò che avviene in Eritrea, accusando il regime repressivo di aver commesso crimini contro l’umanità, schiavizzando e torturando i propri cittadini secondo i metodi appresi dallo stalinismo, dal maoismo, dal regime albanese di Enver Hoxa e da quello rumeno di Nicolae Ceausescu.

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