La violenza sulle donne non si presti a banalizzazioni

di Giorgia Brambilla*

ALCUNE CAMPAGNE CONTRO LA VIOLENZA CADONO NELLA VAGHEZZA, E QUESTO NON AIUTA AD AFFRONTARE IL PROBLEMA

La violenza sulle donne è un fenomeno in crescita o un fenomeno a cui si sta offrendo più copertura mediatica? È un problema che affonda le sue radici sulla questione culturale o è di natura antropologica? È davvero un problema che può risolversi eliminando le differenze uomo-donna?

Quando si parla di violenza sulle donne, con frequenza si mettono in uno stesso cassetto concetti molto diversi: femminicidio, mobbing, stalking, abusi (verbali e fisici fino alla violenza sessuale), disprezzo, diversità di trattamento economico. Alcune campagne contro la violenza cadono nella stessa vaghezza, e questo non può aiutare ad affrontare il problema.

In termini bioetici, ricordo anche altri fenomeni di “violenza contro il sesso femminile” più nascosti o resi invisibili da certi profili economici ed ideologici: si pensi all’aborto selettivo o all’infanticidio in base al sesso femminile. Oppure alla nuova bio-schiavitù femminile legata all’affitto dell’utero specialmente nei Paesi in via di sviluppo.

La violenza sulle donne è un fenomeno che richiede un approccio multidisciplinare che non si presti a banalizzazioni. A livello internazionale, il 1975 fu un anno di svolta in quanto si misero all’ordine del giorno i problemi delle donne. Il Decennio della donna, proclamato dalle Nazioni Unite (1976-1985), avviò uno sforzo globale per esaminare la condizione e i diritti delle donne e per inserire le donne nei processi decisionali a tutti i livelli. Il Consiglio d’Europa nel 2002 ha emanato una Raccomandazione contro la violenza sulle donne, nel 2007;sono state pubblicate le Linee guida dell’Unione Europea sulla violenza contro le donne con campagne di sensibilizzazione nei paesi e nel 2011 viene approvata la Convenzione di Istanbul.

Come si vede, è stato fatto tanto. Ma il fenomeno della violenza (non soltanto contro le donne), si risolve con questo tipo di misure? Come è possibile che ci sia violenza in culture in cui la donna ha raggiunto la parità (culturale, sociale ed economica) con l’uomo?

Anche in termini psicologici, si è fatta tanta ricerca a riguardo, sia sulla figura dell’aggressore sia su quella della vittima; eppure, spesso si riconduce tutto alla relazione uomo-donna, investendo ideologicamente tutti gli sforzi nell’eliminazione delle differenze che diventa omologazione dell’uomo e della donna fino alla decostruzione dell’identità sessuata della persona come maschio o femmina.

Una visione di questo tipo fa intendere quasi che la violenza sia già parte del rapporto uomo-donna: un’impronta facilmente riconoscibile del femminismo radicale. Ma dire che due cose diverse sono uguali non è già discriminatorio?

Il riconoscimento della diversità non produce disuguaglianza e non nega l’uguaglianza: uguaglianza non significa omologazione neutrale o assimilazione in-differenziata, bensì pari considerazione. Bisogna recuperare filosoficamente il significato originario di uguaglianza, distorto dai femminismi. La categoria dell’uguaglianza sposta il piano del discorso dal livello empirico e fattuale, al livello antropologico e ontologico, con implicazioni etiche e giuridiche (e dunque anche bioetiche e bio-giuridiche). Essere uguali non significa non essere diversi; l’uguaglianza indica l’appartenenza aduna comune natura (nel senso dell’essere), con la conseguente pari dignità (sul piano etico) e diritto ad un pari trattamento (sul piano giuridico).

Per questo motivo, la bioetica e il biodiritto sono chiamati a ri-tematizzare il principio di complementarietà che garantisca le relazioni tra i sessi nel rispetto della dignità di ogni essere umano e secondo giustizia, evitando violenze e prevaricazioni indebite.

C’è tanta strada da percorrere in questo senso, soprattutto in certe culture e zone geografiche. Però bisognerebbe lottare nello stesso modo contro altre impostazioni culturali che riducono la donna ad oggetto, come la pornografia o la prostituzione. La stessa riflessione andrebbe fatta a livello internazionale sulla maternità surrogata come vera e propria violenza sulla donna oltre che come violenza ostetrica.

Detto questo, per riservare uno spazio anche al momento applicativo, è opportuno compiere una riflessione sulla visione della corporeità femminile e sulle possibili conseguenze in termini di violenza sulle donne in merito ad un fenomeno molto sottovalutato: la pornografia.

Elementi propri del panorama hard si sono fatti strada nel nostro tessuto sociale, nei costumi, nel modo di pensare e ciò ci permette di definire la nostra una società piacere-centrica se non addirittura “pornificata”. Il bombardamento dei media con allusioni di carattere sessuale ha spinto il mondo della psicologia e della pedagogia a esaminarne l’impatto sulla psiche dei più giovani, e nel 2007 l’American Psychological Association (APA) ha pubblicato un Report che illustra il forte fenomeno della “sessualizzazione delle ragazze” e, in particolare, il fenomeno secondo cui una persona è considerata un oggetto sessuale, ovvero destinata ad essere usata da altri come tale, piuttosto che essere stimata per la sua autonomia e capacità gestionale.

È il processo dell’auto-oggettificazione, teorizzato per la prima volta da Barbara L. Fredrickson e Tomi-Ann Roberts nel 1997, che produce nelle adolescenti una costante preoccupazione per il loro aspetto fisico, tanto da indurle a sviluppare problemi di auto-accettazione di sé, stress, insicurezza, vergogna, ansia e depressione. L’eccessiva attenzione data al fisico può spingere inconsapevolmente molte ragazze verso le trappole patologiche della bulimia e dell’anoressia, oppure, in età avanzata, a ricorrere alla chirurgia estetica per mantenere giovane e bello il loro corpo.

I maschi dal canto loro, spesso spinti dai coetanei o solo dalla propria curiosità, piano piano entrano nel mondo della pornografia, che diventa lo strumento per trovare le prime informazioni sul sesso, per conoscere il corpo femminile e per scoprire i segreti dell’erotismo. Considerandola inizialmente un gioco o come “qualcosa da grandi”, non si rendono conto che questa prassi si trasforma in una vera schiavitù da cui è difficile uscire che produce degli effetti nefasti in primo luogo sulla concezione della sessualità, sulla visione della donna e sul rapporto di coppia; in secondo luogo sulla loro salute psichica e mentale.

Come conferma il 4° Rapporto sulla Pornografia stilato da Eurispes, i ragazzi cadono nell’illusione di ritenere reale ciò che vedono in quelle immagini e la discrepanza tra sesso reale e sesso falsato, genera nei maschi problemi come ansia da prestazione, insicurezza e autostima nella sfera relazionale con le loro partner, fino a indurli, sempre più precocemente e senza indicazione medica al Viagra.

Da non trascurare la considerazione della dipendenza sessuale. Tra i vari studi sull’argomento, si ricordano lo studio di Valerie Voon, neuroscienziata dell’Università di Cambridge, che parla dei meccanismi di dipendenza condivisi tra porno e droga e quello dei ricercatori del Max Planck Institute for Human Development di Berlino, che alla stessa dipendenza riconducono anche una diminuzione della massa cerebrale in alcune aree del cervello.

Negli ultimi quarant’anni la relazione causale tra pornografia e violenze è stata dimostrata da una grande mole di studi condivisi nel tempo dall’intera comunità scientifica. Nel 2016, un nuovo studio ha concluso che «senza dubbio, le persone che consumano più frequentemente pornografia hanno maggiori probabilità di assumere atteggiamenti inclini all’aggressione sessuale e di esserne coinvolti praticamente»; ciò porta ad una disumanizzazione delle relazioni, che, se modellate sul sesso pornografico, instaurano dinamiche maschili di potere, di rivendicazione, di sopruso.

Per concludere, il valore in gioco, quello più profondo è la dignità della donna, ma non della donna rispetto all’uomo, ma della dignità della donna in quanto persona umana. La parola “dignità” rimanda a qualcosa di “sacro”, cioè sottratto alla disponibilità manipolatrice dell’individuo. La persona è un valore, quindi, mai subordinabile; essa, richiede per sua stessa natura di essere trattata sempre come fine e mai come mezzo. Di qui la sua inestimabile dignità, che, nell’etimologia originaria (axiotes), indica la “somma valorialità”, intesa come collocazione al vertice della scala assiologia e, dunque, mai riconducibile all’ordine strumentale. E rispettare la persona significa non solo rispettare il suo pensiero, ma anche il suo corpo, perché la persona è sinolo, è un unicum di corpo e anima.

Quando tocco il corpo, sto toccando tutta la persona, la sua interiorità di cui la corporeità è manifestazione. È quindi dal riconoscimento dell’altro come persona che nasce il vero rispetto che deve essere incondizionato e dunque anche transculturale. Non si tratta di un impersonale o astratto comandamento universale, ma della concreta responsabilità verso un’altra persona che nella nudità indifesa del volto, per usare un’espressione di Levinas, manifesta l’assolutezza di un imperativo. Lo sguardo dell’altro è carico di un’intenzione che precede la mia azione e, lungi dal limitare la mia libertà con un divieto, la apre ad un senso, imponendole una responsabilità.

 

* Bioeticista

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