Nel cuore dei Santi: “Elisabetta Canori Mora”

 

C’è, nel Rione Monti, proprio davanti alla Loggia dei Cavalieri di Malta, un piccolo slargo, un robino, un niente, una piazzetta per così dire delle bambole, intitolata Via di Campo Carleo che, a percorrerla, in quattro passi, conduce diritta, a tuffo quasi, nel Foro di Traiano abitato, per chi non lo sapesse, da una colonia di granchietti rossi. Lo slarghetto, con il suo misterioso toponimo, è quanto sopravvive dagli sbancamenti ottocenteschi ed è quel che resta della vasta piazza di Campo Carleo, dove Elisabetta Canori, una bambina romana che doveva diventare mistica, beata e, secondo molti, santa già da viva, andava a messa nella Chiesa (ora demolita) di Santa Maria in Campo Carleo, nota anche come “delle Spoglie di Cristo”.

Infatti la casa di Elisabetta era a pochi metri, in Via di Tor dei Conti, una strada buia ancora oggi, difesa com’è dagli alti muraglioni del Foro di Augusto, previsti dall’imperatore per dividere il suo foro dalla Suburra dove frequenti erano gli incendi. Impossibile, nel percorrerne la lunghezza capire quale fosse il palazzo dove il 21 novembre 1774 nacque la nostra piccola Elisabetta. Forse quel bel palazzo color cipria che sembra farsi grattare il capo dal cielo, o forse quello, color tuorlo d’uovo, d’angolo con Via Baccina, che ha gli occhi chiusi per il sonno? Chissà. Elisabetta venne alla luce, da penultima, in una numerosa famiglia benestante romana. Suo padre, Tommaso era “mercante di campagna”, che vuol dire amministratore di vari fondi altrui. Ed ecco perché possiamo immaginarlo a cavallo, il viso franco, abbronzato, allegro, nei campi tra la Via Salaria e la Nomentana. Era fiero della sua posizione, Tommaso, cattolicissimo e innamorato della sua Elisabetta, la preferita. La mamma invece, Teresa, era contessina Premoli. Faceva dunque parte della famiglia che, molti anni più tardi, si sarebbe imparentata con Napoleone Bonaparte. Cosa che a Elisabetta, già nelle mani del Signore,  non sarebbe certo piaciuto…

Elisabetta, piccina, se ne rimaneva a casa, con la mamma e la sorellina Benedetta. Entrambe, unite com’erano anche dalla fede viva, uscivano per andare a scuola dalle maestre di Santa Eufemia, poco più in là, verso piazza Venezia, dove ancora oggi sopravvive il toponimo. E’ dunque in Via Tor dei Conti che comincia la nostra passeggiata immaginaria sui dolci passi della piccola Elisabetta Canori. Sue le viuzze monticiane, sua la piazzetta della Madonna dei Monti, con la stupenda fontana dei neofiti, suoi i Fori romani che allora erano ricoperte di case e casupole in stile medievale.

E torniamo alla cronaca, amara, della famiglia Canori, che vede Tommaso precipitare nei debiti e poi nell’indigenza. Elisabetta e Benedetta furono mandate in convento a Cascia, a spese di un parente ricco, e la famiglia Canori sopravvisse in povertà. Al ritorno da Cascia, Elisabetta sarà data in moglie a Cristoforo Mora, avvocato, figlio di un famoso medico di quei tempi. E così, fatti pacchi e bagagli, Elisabetta cambia casa. Anche noi, insieme con lei, cambiamo geografia romana e, scesi giù dai Monti, eccoci in pieno centro romano, dalle parti di Piazza Sant’Eustachio, dove i due sposini, felici in apparenza, trascorreranno i primi mesi di matrimonio. Casa nuova e chiesa nuova. Elisabetta troverà nella chiesa di Sant’Ignazio e nei padri gesuiti la sua nuova frontiera spirituale. La immagino, naso all’aria, sotto alla finta cupola di Andrea Pozzo, pittore e gesuita, che voleva mostrar come l’apparenza non sia sempre la verità.

Appunto. Anche la vita di Elisabetta e Cristoforo sembrava felice, ma non lo era. Lui si era invaghito di un’altra e trascurava, anzi maltrattava, la moglie che, nel frattempo, aveva avuto tre gravidanze e una sola bambina, Marianna. La situazione precipitò finanziariamente e la piccola famigliola dovette trasferirsi a casa dei suoceri. Intanto nacque Maria Lucina, la secondogenita e ultima bambina della coppia, che doveva diventare monaca filippina.

E quindi, seguendo le orme di Elisabetta e della sua piccola famiglia, eccoci a Palazzo Selvaggi, su Via del Corso, al numero 335. Un palazzo massiccio, enorme. I Mora abitavano i piani alti affacciati sulla Via Lata (così si chiamava allora via del Corso che doveva mutar nome per via delle corse dei cavalli berberi durante il carnevale romano, Corso appunto…). Elisabetta chiudeva gli occhi alle figliole che volevano guardar giù le sconcezze del carnevale romano e la parata dei moccoletti.

Non era vita in casa Mora per Elisabetta. Sempre buona, sempre ubbidiente, fedele nonostante tutto al marito, sopportava in silenzio le angherie delle cognate che la consideravano una svitata, una beghina, una fissata. E che arrivarono a togliere per un anno intero le figlie che lei voleva mandare a scuola dalle maestre Pie di Santa Lucia Filippini… Nel silenzio e nella preghiera, Elisabetta procedeva, intanto, verso le vette della perfezione. Ma questa è un’altra storia, un cammino invisibile,  anzi il vero cammino, lì dove il nostro, terra terra, è fatto di case, strade, vicoli e piazzette.

Elisabetta dovette presto rimettersi in cammino e lasciare la casa dei suoceri dove, nel frattempo, era mancato il pater familias. Fu messa alla porta dalle cognate stufe morte del fratello e della sua famiglia. Riparò in uno squallido appartamentino in Via delle Muratte, vicino alla Fontana di Trevi, dove, letteralmente, si moriva di fame. La suocera Agata accorreva per dare un boccone di pane alle nipotine. Elisabetta percorreva, sorridente, il suo martirio. E tutti l’amavano perché lei li amava in quanto creature del Signore, aiutando senza chiedere nulla in cambio. E radiosa si affidava alla Provvidenza. Che arrivò nella persona di un benefattore, che le trovò una bella casetta con giardino in Via Rasella.

Lasciandoci alle spalle il Tritone, saliamo su per l’erta salita di Via Rasella, nota oramai soltanto per l’eccidio che provocò la strage delle Fosse Ardeatine. La strada doveva allora essere silenziosa, quasi in campagna, confinante con lo stupendo Palazzo Barberini. Elisabetta abitò con letizia la sua nuova dimora, anche perché Cristoforo era tornato a casa e non mancavano cibo e allegria. Qui ricevette da un misterioso sacerdote l’immagine santa del Cristo dolente che la aiutò ad aiutare chi implorava il suo intervento, qui ebbe una camera tutta per sé, qui cuciva, estatica, le camicie che davano una mano a tirare avanti. Qui si fece trinitaria scalza frequentando la stupenda chiesa di san Carlino alle Quattro Fontane.  Qui strinse amicizia con un’altra grandissima beata trinitaria, Anna Maria Taigi. Qui morì a poco più di cinquant’anni, stanca di tante battaglie, anche spirituali. Al mattino disse a Maria Lucina che sarebbe andata in cielo. Stava bene. Morì. Cristoforo non era in casa. Tornò, la trovò morta. Era il 5 febbraio del 1825. Qualche anno dopo, pentito e redento, Cristoforo prese i voti. Elisabetta gli ripeteva sempre, anche nei momenti più bui, che avrebbe detto messa…

E qui, a un passo dalla Via Sistina si conclude il cammino terreno di Elisabetta Canori Mora, beata trinitaria, che è però viva, vivissima, nella Comunione dei santi, che è la Chiesa viva, vivissima, Corpo Mistico, qui e lassù.

Ma il nostro andare non termina qui. Se avrete voglia di conoscere meglio Elisabetta, seguiamola, in spirito, su fino al crocicchio delle Quattro Fontane. Vi consiglio, per tirare il fiato, di fermarvi qualche minuto ad ammirare , tra tutte, la fontana di Sisto V, la più bella, con la dolce dormiente che tiene tra le mani le pere, simbolo del casato (Peretti) di Papa Sisto V. Un Pontefice grande, che, oltre a essere urbanista, severo, geniale, doveva essere anche spiritoso se è vero, come è vero, che nessun Papa mai oserà chiamarsi Sisto Sesto ed egli rimane quindi l’ultimo dei Sisti.

Eccoci dunque a San Carlino, la stupenda chiesa dei Padri trinitari, che fu dono del grande Francesco Borromini, il quale scelse il suo nome proprio in onore di Carlo Borromeo al quale è dedicata, appunto, la Chiesa. Entrate, dunque, in questa chiesina che è tutta quanta un capolavoro. In alto, lassù, lo Spirito Santo in forma di tenera Colomba sarà, con i suoi raggi d’oro, benedizione e grazia. Sul lato sinistro, l’unica cappella, adornata dai simboli dei Barberini (le api) è tutta quanta di Elisabetta. Inginocchiatevi davanti alla tomba della nostra cara beata, moglie e madre e sposa del Signore, e lei, nel silenzio, vi parlerà. Se poi, dopo la preghiera, vi avanzerà un poco di tempo, seguite le indicazioni che conducono alla cripta e, d’un tratto, girando sulla sinistra, vi troverete nel piccolo museo trinitario di Elisabetta Canori Mora a San Carlino. Nelle teche, i suoi semplici abiti (babbucce, scialle, tunica) il suo tenero Gesù Bambino in terracotta, l’anellino in forma di Cristo, i suoi libri, il flagello. Come d’incanto Elisabetta, tra le sue cose, tornerà presenza e sarà un incontro d’anime nella Comunione dei Santi.

Prima di andar via, sollevate lo sguardo al quadro che è lì appeso. Due bimbe sorridenti, Elisabetta e Benedetta, sono sedute una accanto all’altra, vestite come damigelle, in colori aranciati. Tengono, una un capo e l’altra la coda di un nastro rosso che ha sul colmo un passerotto. Ed ecco, nel respiro silenzioso della stanza, Elisabetta tornar bambina, al Rione Monti, una bambina cara al Signore che, come si sa, ci vuole, nel ritorno – cioè nella conversione – semplici, puliti, innocenti, come bambini.

 

Benedetta de Vito

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