La società senza padri vista da Claudio Risè

Di David Taglieri

Claudio Risè è uno psicoterapeuta milanese di scuola junghiana che negli anni oltre ad essersi segnalato come un convinto sostenitore del non-politicamente corretto, applicando teorie e pratiche della psicanalisi più moderna a formule ispirate al diritto naturale ed al buon senso, si è dimostrato altresì un valido divulgatore dei linguaggi scientifici più ostici riuscendo a trasmettere al grande pubblico i contenuti delle terapie psicanalitiche in modo semplice e asciutto al tempo stesso. Uno dei suoi ultimi studi ha per oggetto la crisi del padre e dell’identità maschile che sono posti oggi sempre più sotto assedio da parte di una legislazione ultra-femminista che ultimamente sta condannando la figura dell’uomo nei suoi molteplici ruoli – sia come padre, che come marito – letteralmente all’insignificanza pubblica, culturale e sociale.Naturalmente in premessa va chiarito che è indubbiamente vero che in passato, e  a volte purtroppo ancora oggi,tanti uomini si sono comportati e si comportano vergognosamente nei confronti di quello che un tempo veniva definito ‘sesso debole’tuttavia quello che appare con ogni evidenza attualmente soprattutto in Occidente è che l’emergenza reale riguarda la debolezza delle specifiche identità sessuali maschili e femminili, sempre meno percepite nella loro tipicità e largamente offuscate da una crescente volontà generale – almeno a livello di istituzioni e mezzi di comunicazione – tesa a fare dell’indifferenza verso il dato naturale e biologico un valore più che positivo, se non proprio assoluto. Nei suoi lavori Risè ha inoltre il merito di coniugare il buon senso della fede cattolica, a cui è giunto peraltro in età adulta,  con un sano pragmatismo ispirato dai risultati pluridecennali dell’esperienza clinico-terapeutica fin qui accumulata, in aperto contrasto con le interpretazioni dominanti della letteratura di settore come quelle che si rifanno – in un modo o nell’altro – alla figura di Sigmund Freud (1856-1939).  E’ quello che ha fatto ripetutamente non solo tramite riviste specialistiche ma anche su quotidiani nazionali come Il Giornale prima e Il Mattino di Napoli poi, oltre che attraverso le sue numerose pubblicazioni uscite in libreria e sul suo sito internet (www.claudio-rise.it). Il tema principale da cui inaugura la sua riflessione più originale è la svalutazione della paternità oggi sempre di più messa in discussione sia come valore sociale che nella codificazione della legislazione nazionale.

Per Risè infatti buona parte della crisi attuale dei rapporti sociali – connotati dal crollo della fiducia in quello che sociologi ed economisti definiscono ‘capitale umano’ – ha origine dall’eliminazione del Padre celeste nell’immaginario collettivo che soprattutto dopo la rivoluzione culturale del 1968 in Europa si è secolarizzato ulteriormente espellendo di fatto ogni riferimento religioso o comunque soprannaturale dal dibattito pubblico. Così si è dapprima messo in discussione il fondamento naturale della tradizionale autorità maschile all’interno dell’ambito famigliare e, successivamente, l’utilità sociale della famiglia stessa, considerata progressivamente come un’istituzione non più al passo con i tempi e ormai da rimuovere in quanto in palese conflitto con i desideri più intimi di auto-realizzazione della donna moderna. E’ quello che lo studioso lombardo spiega nei suoi saggi, come nel recente Il padre. Libertà, dono (Ares edizioni, Milano 2013, pp. 192, Euro 14,00), definito dal filosofo del diritto Pietro Barcellona – che ne ha firmato la prefazione – “un libro coraggioso perché non solo propone la centralità della figura paterna nella formazione della persona libera da ogni coazione a ripetere, ma anche perché in controluce fornisce una diagnosi impietosa delle condizioni mentali, individuali e collettive della nostra epoca […] in cui i giovani abitano una terra di nessuno dove non ci sono più leggi né princìpi perché è venuta meno la riferibilità dei comportamenti a modelli normativi umani maschili e femminili che possono strutturare processi di trasformazione oltre il puro stadio pulsionale”.

La soluzione all’impasse attuale si trova quindi nel ripristinare, anzitutto nel loro valore sociale e comunitario, i rispettivi ruoli paterni e materni che fondano originariamente la struttura primordiale della società: nessuno, per quanto l’individualismo dilagante affermi ideologicamente il contrario,‘si fa’ mai da solo, ma ognuno nasce e cresce in un determinato ambiente e contesto socio-famigliare ed è anzi grazie proprio a questo contesto che alla fine si costruisce materialmente la sua personalità unica e irripetibile. Tuttavia, se la madre è comunque ancora riconosciuta – intuitivamente –come una presenza indispensabile, molta meno condivisione si riscontra sul ruolo del padre che pure – spiega Risè – è invece indispensabile dal punto di vista pedagogico e comportamentale quale figura che incarna fisicamente il divieto e segna il senso del limite, introducendo così il figlio all’ingresso vero e proprio nel mondo e delle sue logiche spesso brutali, come si legge nel suo studio di maggiore successo (già sette edizioni finora): Il padre. L’assente inaccettabile (San Paolo Edizioni, Milano 2013, Pp. 166, Euro 10,00). Insomma, le cosiddette gerarchie hanno un significato reale e profondissimo, tutt’altro che meramente ‘costruito’, come per molti decenni dal Dopoguerra ad oggi si è detto da fior di studiosi: “La ‘società femminilizzata’ è una grandissima fregatura per tutti, uomini e donne. Le donne perché sono state spodestate anche della loro ‘regalità’ domestica, ormai contesa da maschi petulanti, che sanno tenere la cucina spesso meglio di loro. I maschi perché ricacciati dal circo politico-mediatico (del resto ancora in gran parte maschile) nel girone dei violenti, gente da sottoporre a schedature di massa del Dna, come propongono le Commissarie Europee, o da non lasciar viaggiare accanto a bambini soli, come prevede British Airways. Donne spregiudicatamente sfruttate sul lavoro, come i maschi, e uomini controllati e tenuti in permanenza sotto lo stigma del pregiudizio sociale: questo, e non altro, è la ‘società femminilizzata’ sviluppatasi in modo accelerato dagli anni Settanta in poi. Non a caso donne e uomini attenti a cosa accade e dotati di buonsenso, dalla filosofa e leader femminista Luce Irigaray, al poeta e terapeuta americano Robert Bly denunciano da molti anni questa ‘società degli eterni adolescenti’ che, sollecitando vanità di potere nelle donne poi regolarmente frustrate nelle loro ambizioni, ha svillaneggiato il principio di responsabilità e deriso l’amore tra uomini e donne, mettendo in una miserabile competizione tutti contro tutti. Per comandare con più ampi consensi e sottrarre il potere (ancora massicciamente maschile) a ogni controllo. La società femminilizzata ha persino avuto il suo banchiere centrale: Allen Greenspan, il governatore della Fed di Bill Clinton, il controllore ‘soft’ che teorizzava l’inutilità dei controlli; sotto il suo lungo regno è nato il delirio della finanza ‘derivata’, e si è preparato il grande crash che ha divorato miliardi di risparmi da un anno a questa parte. Se non comandano le donne però, e anzi ci stanno malissimo (basta guardare le liste dei presidi psichiatrici, o le statistiche sullo sviluppo dell’alcolismo, o dei disturbi alimentari) perché si parla di ‘società femminilizzata’? È un altro modo, più spostato sul versante degli orientamenti culturali, per descrivere la ‘società senza padri’, come psichiatri, antropologi, e sociologi della politica chiamano già da quarant’anni la società occidentale. L’Occidente viene così identificato perché i padri non svolgono più la loro funzione nell’aiutare durante l’adolescenza i figli ad uscire dalla simbiosi con la madre.[…] Il cuore del malessere della femminilizzazione è questo. Non c’è proprio nulla di male nel femminile; senza di esso la vita diventa molto triste. Solo che ogni essere umano, per esistere pienamente e liberamente, deve rendersi autonomo dalla madre. E può farlo solo quando un padre presente e amorevole l’aiuta a farlo; altrimenti ne rimane dipendente per tutta la vita, magari trasferendo questa dipendenza sulla moglie, sul marito, o sulla società. Per questo, la società femminilizzata è una colossale fregatura. Per tutti” (C. Risè, “La società al femminile? Una fregatura”, in Il Giornale, 22/09/2008).

 

In Corriere del Sud n. 2
anno XXVI/15, p. 3

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