Un’altra bimba vittima della dilagante cultura della morte

Ecco perché il caso Pippa Knight dovrebbe farci riflettere

Di Maria Bigazzi

Mentre ci troviamo a vivere una situazione di confusione e incertezza a livello mondiale, un’altra bimba si trova vittima della sempre più dilagante cultura della morte.

Parliamo di Pippa Knight, una bambina inglese di quasi sei anni affetta da una rara encefalopatia necrotizzante acuta (ENA), ricoverata all’Evelina Children’s Hospital di Londra dal gennaio 2019. Nata sana il 20 aprile 2015, Pippa ha cominciato a stare male nel dicembre 2016 con le prime crisi epilettiche, i conseguenti ricoveri in ospedale e il trasferimento al St George’s Hospital di Londra.

Sono tanti i bimbi come Pippa che necessitano di un’assistenza continua e soprattutto della vicinanza dei loro cari e genitori durante la malattia, eppure non se ne sente parlare fino a quando qualcuno, senza validi elementi, afferma che nel migliore interesse del soggetto è meglio interrompere le cure e quindi portarlo alla morte.

Così è accaduto anche per la piccola Knight. L’8 gennaio di questo anno, il giudice Nigel Poole dell’Alta Corte (Family Division) ha accolto la richiesta del trust presente nell’ospedale (presentata nel marzo 2020 dal Guy’s and St Thomas’ Children’s NHS Foundation Trust), acconsentendo e confermando la legalità dell’interruzione della ventilazione meccanica di cui necessita la bambina.

Alla bimba secondo la sentenza sarebbe negata la tracheostomia, un’operazione chirurgica che permette a un soggetto che presenta gravi patologie di respirare nuovamente o in modo corretto. In un primo momento la mamma Paula Parfitt non avendo ben chiaro il suo funzionamento, aveva scelto di non sottoporre la figlia a tale cura, ma ora consapevole di tale necessità, richiede che la ventilazione per la figlia continui.

In particolare, la mamma vorrebbe che venga fatto il tentativo di continuare le cure a casa, con l’ausilio di un ventilatore portatile e altre apparecchiature, nonché di personale sanitario che segua la bimba.

Nei punti del giudizio su Pippa Knight, è affermato che a causa di gravi danni cerebrali, la bambina è tenuta in vita dalla ventilazione meccanica attraverso un tubo endotracheale nasale, e che probabilmente non prova né dolore né piacere, inoltre non è consapevole del suo ambiente, e tale situazione non rappresenta una prospettiva di miglioramento della sua condizione. Da sottolineare che tali affermazioni nel documento sono precedute da un “probably”, e quindi da una condizione di incertezza, su cui concordano neurologi ed intensivisti esperti.

Di conseguenza, l’NHS Trust responsabile delle cure e dei trattamenti, ritiene che Pippa abbia già “passato abbastanza”, per cui viene chiesto al tribunale in questione (contro la volontà della madre) di dichiarare la liceità e la condizione di migliore interesse della bimba che non le venga consentita una tracheostomia (necessaria nelle cure a casa); la ventilazione meccanica venga interrotta; siano definiti chiaramente i limiti circa il trattamento a lei fornito dopo il ritiro della ventilazione, ovvero la morte certa.

La madre, vedova a causa del suicidio del marito, ma sostenuta dalla sua famiglia, è convinta che la bimba abbia avuto qualche miglioramento nel tempo e che le deve essere data la possibilità di essere sottoposta alle cure necessarie e non invasive, fino alla morte naturale.

La corte ritiene che la decisione su tale questione spetti allo stesso organo giudiziario e non alla madre, e che obiettivo del giudice sia quello di fare “l’interesse di Pippa”.

Ma se ciò consiste nel voler privare del diritto alla vita una bambina perché malata e bisognosa di cure, siamo sicuri che si tratti di fare il suo interesse?

Ognuno di questi casi particolari è accompagnato da circostanze diverse e non indifferenti. Logicamente sono da evitare quelle situazioni in cui determinati percorsi clinici inefficaci o sproporzionati possano causare una sofferenza oltre i limiti di sopportazione del paziente, anticipandone la morte o aumentando il dolore in modo eccessivo.

In tutti gli altri casi deve essere sempre valorizzata la vita in tutti i suoi stadi, e anche ai pazienti che si trovano nel cosiddetto “stato vegetativo”, devono essere garantite tutte le cure e i trattamenti necessari, tenendo conto del valore intrinseco e della personale dignità di ogni essere umano, valori non soggetti a cambiamento in qualunque circostanza concreta della vita.

Ricorda san Giovanni Paolo II che “L’ammalato in stato vegetativo, in attesa del recupero o della fine naturale, ha […] diritto ad un’assistenza sanitaria di base (nutrizione, idratazione, igiene, riscaldamento, ecc.), ed alla prevenzione delle complicazioni legate all’allettamento. Egli ha diritto anche ad un intervento riabilitativo mirato ed al monitoraggio dei segni clinici di eventuale ripresa” (Discorso di Giovanni Paolo II al Congresso inter. su “Trattamenti di sostegno vitale e lo stato vegetativo. Progressi scientifici e dilemmi etici”, 17-20 marzo 2004).

Ma per la piccola Pippa, come anche nel caso di Alfie Evans e di altri bambini, è stata decisa la sua fine senza altre possibilità.

Con una sentenza emanata il 19 marzo, i giudici Brenda Hale, Elisabeth Laing e Jonathan Baker hanno avallato la decisione di staccare la ventilazione che permette alla bambina di continuare a vivere, decisione già presa in primo grado dal giudice Nigel Poole.

I giudici di secondo grado hanno respinto l’opposizione sostenuta dai legali della famiglia che chiedevano di non staccarle il supporto vitale e di trasferirla a casa con l’ausilio di un ventilatore portatile e delle altre varie attrezzature necessarie che le permetterebbero di vivere fino alla sua morte naturale.

Uno degli esperti convocati dalla famiglia della bambina, il dottor Playfor, sostiene invece che trasferire la piccola Pippa a casa comporterebbe benefici dovuti all’ambiente e all’affetto dei suoi cari.

Ma il giudice Baker ha concluso la sentenza dicendosi concorde con l’Alta Corte di avere il diritto di decidere e dichiarare la liceità di interrompere il trattamento che sostiene la vita di Pippa per il suo “migliore interesse” e secondo i motivi già dettati dal giudice.

Dopo la pubblicazione del giudizio d’Appello, a intervenire sulla questione è stata la Conferenza Episcopale del Galles, con una nota del vescovo referente per le questioni della vita, Monsignor John Sherrington, il quale ha ribadito l’insegnamento della Chiesa cattolica per cui “ogni persona ha un valore e una dignità che sono indipendenti dalla sua condizione”. Egli inoltre ha sottolineato che “La decisione di permettere ai medici di interrompere il trattamento di Pippa sulla base della sua qualità di vita o del suo valore non le riconosce e non le concede quella dignità umana intrinseca con cui lei è, invece, nata”.

Su tale tema san Giovanni Paolo II afferma ancora: “Di fronte ad un paziente in simili condizioni cliniche, non manca chi giunge a mettere in dubbio il permanere della sua stessa “qualità umana”, quasi come se l’aggettivo “vegetale” (il cui uso è ormai consolidato), simbolicamente descrittivo di uno stato clinico, potesse o dovesse essere invece riferito al malato in quanto tale, degradandone di fatto il valore e la dignità personale. […]

In opposizione a simili tendenze di pensiero, sento il dovere di riaffermare con vigore che il valore intrinseco e la personale dignità di ogni essere umano non mutano, qualunque siano le circostanze concrete della sua vita. Un uomo, anche se gravemente malato od impedito nell’esercizio delle sue funzioni più alte, è e sarà sempre un uomo, mai diventerà un “vegetale” o un “animale”” (Ibidem).

Il caso di Pippa Knight riguarda tutta l’umanità, in quanto la sua vita ha un valore e una preziosità unica, come la vita di tutti noi. Rimanere indifferenti e permettere senza opposizione che la vita venga giudicata degna o meno di essere vissuta, senza effettivi elementi che evidenziano la presenza di terapie effettivamente invasive, significa aprire la strada alla sempre più diffusa cultura della morte, che giudica le persone in base alla loro utilità nella società. 

Fino a quando c’è scambio gassoso nei polmoni (anche con la respirazione assistita) e il battito cardiaco (anche se stimolato), il metabolismo generale si conserva, i vari sistemi funzionano (termoregolatorio e immunitario) e finché è presente l’omeostasi biologica; allora c’è vita, e soltanto la morte naturale potrà porvi fine. 

Non spetta all’uomo decidere, mentre i medici hanno il dovere di fare tutto il possibile per conservare la vita e ciò prevede anche di evitare cure non sostenibili fisicamente dal paziente, ma di garantirgli gli strumenti necessari a mantenerlo in vita fino al momento della sua fine naturale.

Come ricorda ancora Giovanni Paolo II, “Non basta, tuttavia, riaffermare il principio generale secondo cui il valore della vita di un uomo non può essere sottoposto ad un giudizio di qualità espresso da altri uomini; è necessario promuovere azioni positive per contrastare le pressioni per la sospensione dell’idratazione e della nutrizione, come mezzo per porre fine alla vita di questi pazienti”.

Dunque, a noi spetta il compito di contrastare tali decisioni e di agire in difesa della vita e di coloro che non possono opporsi. 

Facciamo nostro questo appello: chiediamo a chi ha l’autorità di contrastare e di opporsi a tale decisione di intervenire, chiediamo ai vescovi e al Papa stesso di pronunciarsi e di agire affinché questa vita venga salvata, e perché non gridi a Dio contro di noi la voce del suo sangue, come per Alfie Evans, Charlie Gard, Isaiah Haastrup e i tanti altri bambini innocenti.

Combattiamo accanto alla piccola Knight, il cui cognome significa proprio “cavaliere”.

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