Anche l’indissolubilità del matrimonio ha i suoi martiri

MARTIRI CHE LA SANTA CHIESA DI DIO CELEBRA OGNI ANNO COL FASTO DOVUTO AI SUOI FIGLI PIÙ ILLUSTRI…

Di Cristiana de Magistris*

Il 22 giugno, nel martirologio romano si legge: “Santi Giovanni Fisher, vescovo, e Tommaso Moro, martiri, che, essendosi opposti al re Enrico VIII nella controversia sul suo divorzio e sul primato del Romano Pontefice, furono rinchiusi nella Torre di Londra in Inghilterra. Giovanni Fisher, vescovo di Rochester, uomo insigne per cultura e dignità di vita, in questo giorno fu decapitato per ordine del re stesso davanti al carcere; Tommaso More, padre di famiglia di vita integerrima e gran cancelliere, per la sua fedeltà alla Chiesa cattolica il 6 luglio si unì nel martirio al venerabile presule”.

San Giovanni Fisher e san Tommaso Moro furono decapitati per aver difeso l’indissolubilità del matrimonio contro il divorzio di Enrico VIII da Caterina d’Aragona. In tal modo rimasero fedeli al papa come a capo supremo della Chiesa, negando il giuramento di fedeltà al re Enrico VIII che si era proclamato “Capo supremo della Chiesa d’Inghilterra”.

In un momento storico come quello attuale in cui par si voglia mettere in discussione anche l’indissolubilità del matrimonio, occorre rispolverare il passato e meditare a fondo sullo scisma d’Inghilterra, originato da un divorzio, e sul sangue dei suoi martiri, che ancor oggi continua a proclamare che il sacramento del matrimonio è di diritto divino.

Giovanni Fisher e Tommaso More furono giustiziati e, cogliendo la palma d’un glorioso martirio, volarono dalla prigione terrena ai gaudi dell’eterna beatitudine. Con san Giovanni Battista, essi sono i martiri dell’indissolubilità del matrimonio come non mancò di affermare Pio XI in occasione della loro canonizzazione: essi morirono perché non desistettero di “illustrare, provare e difendere coraggiosamente la santità del casto connubio”.

Ma quale fu la sorte di Enrico VIII dopo il suo divorzio da Caterina d’Aragona? Il re “sposò” Anna Bolena che, tre anni dopo, egli stesso fece giustiziare con l’accusa di alto tradimento, incesto e adulterio. Il giorno dopo l’esecuzione, il re “sposò” Jane Seymour, che morì nel 1537, un anno dopo, per complicazioni sopravvenute nel dare alla luce l’unico erede maschio alla corona, Edoardo VI. Enrico sposò allora, nel 1540, Anna di Cleves da cui divorziò pochi mesi dopo per sposare Caterina Howard, anch’essa fatta giustiziare dal re, nel 1542. L’ultima moglie fu Caterina Parr, che scampò alla morte perché questa colse prima Enrico, nel 1547.

Durante il suo ultimo connubio, il corpo di Enrico VIII, obeso, iniziò ad essere coperto di ulcere purulente. Morì all’età di 55 anni, nel 1547. Le sue ultime parole furono: “Monaci, monaci, monaci”, che probabilmente manifestavano il suo rimorso per aver espulso tanti monaci dai loro monasteri ed usato i loro beni per le sue guerre.

Un frate francescano gli aveva predetto che, come accadde al re Acab che fu maledetto da Dio, anche il suo sangue, dopo la morte, sarebbe stato leccato da cani. E così avvenne. Dalla bara di Enrico VIII fuoriuscì del liquido che subito divenne la bevanda di un cane.

A questa macabra fine si aggiunge un fatto storico degno di nota. Enrico VIII aveva giustificato il suo divorzio da Caterina col pretesto di voler dare un discendente maschio alla corona inglese. Ma, nonostante i suoi 5 successivi “matrimoni”, il re – morto l’unico erede maschio a meno di 18 anni – non riuscì a perpetuare la dinastia dei Tudor che, infatti, terminò con Elisabetta I, la quale, rimasta nubile, fece sì che la corona passasse agli Stuart. A chiudere la dinastia dei Tudor fu dunque l’unica figlia di Anna Bolena, colei che Enrico – divorziando da Caterina – aveva sposato per assicurare la discendenza alla corona.

I Vescovi inglesi del XVI secolo mancarono gravemente al loro dovere per quella pusillanimità di cui spesso si macchiano gli uomini di Chiesa. Lo scisma della Chiesa inglese fu dovuto non tanto alla forza malvagia di Enrico VIII quanto alla loro desistenza, solennemente manifestata con l’inglorioso Atto di “sottomissione del Clero” del 15 maggio 1532.

L’indissolubilità del matrimonio è nell’ora attuale al centro di un acceso dibattito. Memori di ciò che avvenne nel XVI secolo in Inghilterra, non ci stupiremo di trovare nella Chiesa vescovi pavidi e pronti alla resa. Confidiamo che la divina Provvidenza susciti miracolosamente anime generose, pronte a difendere i diritti di Dio, vescovi e laici emuli di san Giovanni Fisher e Tommaso Moro. Ma soprattutto speriamo che, nello scenario decadente che è sotto i nostri occhi, non ci tocchi la cattiva sorta di trovare nelle gerarchie ecclesiastiche qualche novello Erode o Enrico VIII: quod Deus avertat!

 

Tutto l’articolo, di Cristiana de Magistris, QUI

 

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