La propaganda arcobaleno non conosce tregua: nemmeno quella olimpica

CHE I SACERDOTI DEL PENSIERO UNICO NON AVREBBERO DEPOSTO LE ARMI NEPPURE PER LE DUE SETTIMANE A CINQUE CERCHI È STATO CHIARO DA SUBITO

Di Dalila di Dio

Dopo l’Europeo inginocchiato, l’Olimpiade arcobaleno. 

Ogni occasione è propizia per la propaganda, in una battaglia ideologica che non conosce tregua: neppure quella Olimpica. 

Che i sacerdoti del pensiero unico non avrebbero deposto le armi neppure per le due settimane a cinque cerchi è stato chiaro da subito, già dal titolone con cui Enrico Mentana annunciava che Paola Egonu sarebbe stata tra gli atleti selezionati per portare il vessillo olimpico durante la cerimonia di inaugurazione dei giochi: “Tricolore, nera e arcobaleno”, scriveva il direttore.

In tre parole tutto il campionario del progressismo italico: ius soli, BLM e, ovviamente, LGBTQ+

Nemmeno un accenno allo sport praticato dalla campionessa. 

Evidentemente, Mentana e i suoi, guardando la MVP delle Super Finals di Champions League di volley, vedono solo una nera lesbica utile, molto utile alla propaganda mainstream.

Un po’ come tale Lorenzo Tosa, capopopolo dei petalosi d’Italia, che pubblica la foto della Egonu “alla faccia di tutti gli omofobi, i razzisti e gli Adinolfi” o Monica Cirinnà, che per le Olimpiadi nutre un interesse pari a quello di un vegano per il cotechino ma se c’è da esibire “la bellissima immagine con la grande Pallavolista italiana” casualmente gender fluid, mostra un entusiasmo senza pari.

Se, però, gli fai notare che c’è un limite alla strumentalizzazione che si può fare di un essere umano, il troglodita sei tu. 

“Le Olimpiadi arcobaleno” titolava ieri il primo quotidiano italiano: “Le Olimpiadi con più atleti LGBT di sempre”. 

Non sarà che si tratta solo delle prime Olimpiadi della storia in cui l’orientamento sessuale di un atleta conta più della sua performance sportiva?

Sì perché, con buona pace dei petalosi di tutto il mondo, gli atleti LGBT sono sempre esistiti, solo che un tempo non si sentiva il bisogno di dare risalto alle loro preferenze sessuali, semplicemente perché a nessuno importava di cosa facessero tra le lenzuola e con chi.

Al contrario, oggi, la perversa e pruriginosa stampa arcobalenata trova le storie di letto di gran lunga più interessanti delle medaglie. 

Così, atleti semisconosciuti al grande pubblico, che dovrebbero approfittare della ribalta olimpica per dare visibilità a sé stessi e al proprio movimento sportivo, finiscono nel tritacarne mediatico non per le medaglie, i record, o i piazzamenti ma per ciò che di utile hanno da offrire alla inarrestabile macchina del pensiero unico.

Il solito Mentana, ad esempio, dedica titoli ad Alice Bellandi che da Tokyo torna a bocca asciutta ma in compenso “ha una fidanzata, Chiara, conosciuta sorseggiando una granita sul mare di Ostia”: ora, qui l’unica vera notizia è che ad Ostia sorseggino granite, eppure la foto di Alice Bellandi – medaglie conquistate ZERO-  ha imperversato sul web per il suo rivoluzionario coming out che, come scrive il magazine Elle, “ vale come (e più) di mille medaglie”.

Ottimo. La Nazione ringrazia sentitamente. 

E che dire di Lucilla Boari? Lei una medaglia di bronzo nel tiro con l’arco l’ha portata a casa.

Secondo il direttorissimo, ha fatto la storia dello sport.

Il dettaglio è che Lucilla, secondo Mentana, avrebbe fatto la storia dello sport non per la medaglia conquistata, ma per la dichiarazione d’amore alla collega olandese Sanne. 

Anche in questo caso, il coming out val bene un encomio solenne!

Poi c’è Tom Daley, ansioso di rivedere il marito e il figlioletto – la mamma, come ben sappiamo, è un concetto antropologico anche in tempo di Olimpiadi – “orgoglioso di essere gay!”

Ora, ognuno ha il diritto di essere orgoglioso di ciò che preferisce, ma riuscite a immaginare cosa sarebbe successo se Gregorio Paltrinieri, uscendo dalla vasca dei 1500, avesse dichiarato di essere orgogliosamente eterosessuale e, magari, di essersi beccato la mononucleosi limonando con una bella donna nata donna?

Sarebbe finita più o meno come al povero Fabio Fognini, primo caso della storia di persona accusata di condotta omofoba autoinsultante: Fognini, che si è pure scusato – con chi? Di cosa? – è colpevole di aver usato contro sé stesso una parola che non si può dire.

L’episodio sarebbe rimasto confinato ad ennesimo show sopra le righe del tennista sanremese se orde di indignati non si fossero scagliate contro di lui: “Trovo molto grave che alle Olimpiadi il tennista Fognini per autoinsultarsi per un colpo sbagliato abbia utilizzato ripetutamente l’espressione “fr***o” chiaramente omofoba” ha twittato Elio Vito “evidentemente il Ddl Zan serve subito, anche per lo sport”.

In effetti, sarebbe opportuno che, per dimostrare di non essere omofobo, il pessimo Fognini  – uomo, bianco, eterosessuale, sposato, con due figli e un terzo in arrivo – si autoquerelasse, si costituisse parte civile contro sé stesso e utilizzasse il risarcimento per i danni autocagionatisi acquistando mille copie del nuovo libro di Alessandro Zan, il quale, dopo anni passati a spiegarci come la comunità LGBT viva nella paura continua e costante a causa dell’omobilesbotransfobia che imperversa nel Paese, a settembre pubblicherà “Senza paura”. 

Storia di un ddl morto?

Questo lo vedremo ma quello che è certo è che la propaganda è viva e vegeta e si serve di qualunque cosa o persona possa rivelarsi utile allo scopo.

Che si chiami Lucilla, Alice o Paola poco importa. E poco importa che siano persone che eccellono nel loro sport. Sono, essenzialmente, delle figurine da incasellare nell’album dell’intersezionalità.

Eppure, dietro a una medaglia olimpica ci sono anni di lavoro, abnegazione e sacrificio. Famiglie che investono sul talento e sulle aspirazioni dei figli.

Amatori, società sportive, tecnici, ragazzini in erba che in quei quindici giorni ogni quattro anni sperano di vedere il proprio sport di nicchia diventare popolare. La medaglia di Lucilla Boari, ad esempio, avrebbe potuto portare respiro all’intero movimento del tiro con l’arco ma di Lucilla e del suo arco nella narrazione corrente resta poco, pochissimo. Molto più importanti la fidanzata e la granita sorseggiata – sorseggiata! – a Ostia.

Non sapremo mai fino in fondo quanto lei e gli altri siano vittime e quanto complici di un sistema che regala notorietà più per le inclinazioni sessuali che per i meriti sul campo, ma è anche per loro che continuiamo a invocare una tregua.

Ἐκεχειρία, ekecheiría, la chiamavano i Greci, “le mani ferme”.

La tregua olimpica nell’era moderna dovrebbe essere proprio questo: giù le mani dallo sport. Lasciate che sia quello che deve essere: sudore, emozioni, medaglie e bandiere che sventolano al cielo.

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