Sul fine vita ci giochiamo il futuro

Sul fine vita ci giochiamo il futuro

di Giuseppe Brienza

INTERVISTA A MONS. FRANCESCO CAVINA, VESCOVO EMERITO DI CARPI, SUL PROSSIMO REFERENDUM SULL’EUTANASIA LEGALE E ALLA VIGILIA DELLA SUA LECTIO MAGISTRALIS DAL TITOLO: “FINE VITA: QUALE VISIONE PER L’UOMO?” (BELLUNO, C/O UNIDOLOMITI, 11 DICEMBRE 2021)

Mons. Francesco Cavina, vescovo emerito di Carpi (Modena) e docente di teologia all’Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare (ISSRA) della Pontificia Università della Santa Croce, terrà domani pomeriggio a Belluno (ore 17) una lectio magistralis dal titolo “Fine vita: quale visione per l’uomo?”.

Lo abbiamo intervistato alla vigilia di questa importante iniziativa di formazione e informazione organizzata da UniDolomiti e a due mesi dal deposito in Cassazione delle firme per il referendum sulla c.d. eutanasia legale.

Eccellenza, perché è importante occuparsi di fine vita e di eutanasia, oggi, in Italia?

Direi che in generale la riflessione sui momenti ultimi della nostra vita costituisce uno snodo cruciale della riflessione bioetica in generale. Si tratta, infatti, del tema più dibattuto, quello su cui si sta accentrando la maggior parte della letteratura attuale, perché viene percepito come uno dei più importanti nell’odierno contesto culturale. Un dibattito incandescente che accende gli animi, perché in esso confluiscono e si incrociano realtà che ci toccano tutti da vicino: la qualità della vita, la paura del dolore, della sofferenza e della morte. Oggi è fondamentale che i cristiani e tutti gli uomini e le donne responsabili se ne occupino, dal momento che anche il nostro Paese sta andando verso l’introduzione di normative di legalizzazione del suicidio assistito e dell’eutanasia.

C’è una urgenza nel trattare il tema del suicidio assistito e dell’eutanasia?

È urgente riproporre la domanda sul senso della vita e del dolore, sulla dignità del malato e della professione medica. Dal primo punto di vista pensiamo ad esempio al numero sempre crescente di persone che decidono di togliersi la vita, soprattutto tra i giovani (secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ogni anno nel mondo avvengono un milione di suicidi, vale a dire che ogni 40 secondi circa una persona si toglie la vita).

Cosa insegna il più recente Magistero della Chiesa in proposito?

Papa Giovanni Paolo II e più recentemente la Congregazione per la Dottrina della Fede nella Lettera Samaritanus Bonus sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, hanno preso una chiara posizione. Nel paragrafo che tratta delle cure di base si riafferma che l’idratazione e l’alimentazione di un malato in stato di incoscienza senza prospettive di guarigione, rappresentano un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico e, conseguentemente, costituiscono atti dovuti di semplice accudimento della persona, un’attenzione clinica e umana primaria e ineludibile (cfr. IV, 3). Il documento definisce quindi l’obbligatorietà di una tale cura della persona, «attraverso un’appropriata idratazione e nutrizione [che] può esigere in taluni casi l’uso di una via di somministrazione artificiale, a condizione che essa non risulti dannosa per il malato o provochi sofferenze inaccettabili per il paziente» (V, 3). Certo, potranno verificarsi circostanze in cui anche l’idratazione e l’alimentazione potrebbero configurarsi atti futili e quindi la loro somministrazione va sospesa. E questo accade quando il fornire sostanze nutrienti e liquidi fisiologici non risulta di alcun giovamento al paziente, perché il suo organismo non è più in grado di assorbirli o metabolizzarli. In questo modo non si anticipa illecitamente la morte per privazione dei supporti idratativi e nutrizionali essenziali alle funzioni vitali, ma si rispetta il decorso naturale della malattia critica o terminale. In caso contrario, la privazione di questi supporti diviene un’azione ingiusta e può essere fonte di grandi sofferenze per chi la patisce (cfr. V, 3).

Ma i fautori dell’eutanasia invocano “sentimenti di umanità” a motivo del provocare la morte dei malati…

Tali affermazioni appaiono infondate e strumentali e, in particolare, devono farci ricordare che la vera compassione, per usare un’espressione di San Giovanni Paolo II, «promuove ogni ragionevole sforzo per favorire la guarigione del paziente».

Il 6 luglio 2021 è stato approvato il testo base della proposta di legge dal titolo «Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita» da parte delle Commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera. La proposta di legge specifica all’art. 2 che per “morte volontaria medicalmente assistita” si intende «il decesso cagionato da un atto autonomo col quale […] si pone fine alla propria vita in modo volontario, dignitoso e consapevole, con il supporto e la supervisione del Servizio Sanitario Nazionale». Come commenta questa definizione?

In maniera molto sintetica: viene inserito il concetto di “morte dignitosa” quasi a volere significare che la vita toccata dalla sofferenza e privata di autonomia, non è più degna di essere vissuta. E questo è inaccettabile, ma non solo, com’è evidente, per una coscienza religiosamente sensibile…

Perché la vita di coloro che si trovano in gravi condizioni di salute arriva ad essere considerata, anche in un Paese come il nostro che è la culla della solidarietà, indegna rispetto alla vita di chi è in salute?

Guardi, di fronte alla persona che soffre è assolutamente doveroso fare tutto il possibile per lenire ogni dolore, ma possiamo davvero affermare che la dignità umana viene meno col sopraggiungere della sofferenza? Qui non posso non fare un richiamo al mistero della nostra salvezza, operato dal Figlio eterno di Dio fattosi uomo. Egli che «proprio per mezzo della sua Croce ha toccato le radici del male, piantate nella storia dell’uomo e nelle anime umane. Proprio per mezzo della sua Croce compie l’opera della salvezza. Quest’opera, nel disegno dell’eterno Amore, ha un carattere redentivo» (Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Salvifici doloris, 16, 1984). Dunque porre fine alla propria vita attraverso il suicidio assistito non potrà mai essere sinonimo di morte degna. In fondo l’approvazione di tale gesto significa dire al malato che la sua vita non ha più alcun valore, che è una vita da scartare.

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